Mi metto a contare i camion dei corrieri espressi che passano sulla strada davanti casa. No, non ho di meglio da fare. Sono dieci in mezz’ora e dico beh, io lo so, cinque contengono libri che dai magazzini vanno verso le librerie (e i supermercati, e gli autogrill eccetera) mentre quattro contengono libri che tornano indietro, invenduti, di nuovo verso i magazzini oppure dai magazzini alle svendite o dalle svendite ai maceri e buonanotte.
Su dieci, nove sono camion di libri (il decimo conterrà ricariche per sigarette elettroniche, cialde da caffè o gratta e vinci: sembra non girare altro, ultimamente) di cui otto, camion di libri brutti. Libri su libri, montagne di libri, oceani di libri, libri che rimbalzano avanti e indietro, camion di frivole speranze, di rinnovati fallimenti, petrolio che brucia in nome della carta stampata (in odore di reiterato riciclaggio). Che perlomeno i corrieri espressi (e i riciclatori) coi libri ci mangiano, e così sia.
Lavoro in libreria da diverso tempo. Me la vedo con i corrieri e con i clienti, con rappresentanti, distributori ed editori, a mia volta leggo e scrivo, pubblico qualcosa (non mando il camion, quello no) e giorno dopo giorno, un anno dopo l’altro la fiera mi pare sempre più assurda, soprattutto in questa smania di allargare il parco lettori.
Tutte queste quantità esagerate di titoli astrusi, brutti, improponibili, che ogni santo giorno sgorgano fuori dalle scatole delle novità, a getto continuo, a ritagliarsi un posto sui banchi, sullo scaffale (per quanto? Un mese, due, tre?), a discapito di ciò che restava della letteratura; a inseguire il non gusto della massa che non legge col miraggio di potersela accalappiare tutta in un colpo solo; ma può davvero questo popolo ignifugo, estraneo, beatamente disinteressato all’argomento (avrà le sue altre passioni incendiarie, cielo, lo vogliamo lasciare in pace?), influenzare così tanto il corso della nostra industria libraria? È come dire: fare le palle per chi non gioca a palla. Arrivare a farle quadrate pur di invogliarli a giocare. Ma si può?
C’è tanta gente bella in libreria.
I lettori veri sono pochi, ma tenaci, e fanno la spesa quotidiana o settimanale o le scorte da letargo, e tengono in piedi il sistema per com’è. Spesso entrano e girellano e si arrangiano da soli, conoscono settori, generi e frammentazioni varie; ci interrogano soltanto quando non siamo stati all’altezza, cioè, quando il libro manca: qualcuno sopporta e lo prenota, qualcun altro sbuffa, borbotta, circondato dalle montagne di cui sopra s’incazza — e ha ragione. Capitano scambi d’opinione, chiacchiere su un titolo, consigli e sconsigli, rari discernimenti sul tempo che fa. E fanno piacere, arricchimento e poesia. Ma per questa gente leggere è come un lavoro, un’occupazione vera, e per me vendere libri è proprio un lavoro, un’occupazione vera, quindi sovente è come se ciascuno stesse facendo il proprio mestiere: viaggiamo su binari paralleli, e il rapporto funziona bene così.
I lettori occasionali sono tanti, contribuiscono non poco a mantenere in piedi la baracca ed è con loro che perlopiù capita di interagire. Si appigliano a una bussola, la recensione ritagliata dal giornale o la copertina visualizzata sullo smartphone, mezzo titolo orecchiato alla radio o bisbigliato dall’amante in piena notte, prima dell’addio. Ma spesso hanno poi bisogno di una dritta, un conforto, un consiglio che poi magari non vale niente, ma presuppone comunque uno sforzo, una partecipazione: chi sei?, cosa vuoi?, cosa ti aspetti dalle pagine di un libro?, quali romanzi ti sono piaciuti finora e se ne hai letti due solamente fa niente, dimmi com’è andata. A volte non hanno alcun riferimento, dicono semplicemente voglio ridere, voglio piangere, voglio capire il mondo (e pare poco) e così prendono senso le nostre competenze, la nostra sensibilità: ché io rido leggendo Thomas Bernhard e tu magari lo faresti con la Littizzetto, capisci che non è proprio la stessa cosa. E allora il gioco si fa interessante.
I non lettori sono, a conti fatti, i miei preferiti. Quelli che non ne vogliono sapere. Quelli da lasciare in pace. Che ogni tanto si ritrovano a vagolare tra gli scaffali, vattelappesca perché. Magari devono comprare i libri per la scuola del figlio, lo sa Iddio perché non viene da solo, a sceglierseli. Oppure sono rimasti incuriositi dagli sproloqui di un calciatore in Tv, dalle scopate di una cuoca attempata.
Oppure devono fare un regalo. A chi? Maschio. Età? Sui sessanta. Passioni? Boh, so che gli piaceva la bicicletta, ma da piccino. E legge? Dovrebbe; ne ha tanti di questi cosi, in salotto. E che fa? Viaggia, va al cinema, ha un cane, un gatto, va a cavallo, ascolta musica, beve, si droga, ama le automobili di lusso o gli orologi a cipolla?
Non lo so, non lo conosco mica bene.
E allora come si fa?
Ingegno, inventiva, preghiera, mestiere. Qualcuno ascolta, più o meno distrattamente, lo vedi che nella sua testa la decisione è già definita: non ce la farà, non ce la fa proprio a comprare un libro, se ne uscirà a mani vuote o al più con un orsetto per la nipotina, e per il regalo all’amico (si fa per dire, amico) vedrà poi. Qualcun altro non ascolta proprio, si arrende non appena terminata la richiesta, prima che tu apra bocca: lasci stare, ripasserò. Non lo rivedrai mai più.
Altri ancora però si affidano, e allora un po’ mi commuovono.
Io, per esempio, ho una negazione intellettiva assoluta per ciò che riguarda bricolage e fai-da-te, o comunque la manutenzione e il perfezionamento di una casa, di una vita, in quanto a rammendi elettrici, idraulici, risoluzioni di piccoli bisogni pratici del trantran domestico. E mi capita così di ritrovarmi in piccole mesticherie ma anche in questi sterminati capannoni di periferia dove trovi di tutto, dal mastodontico garage prefabbricato alla minuscola vitina per occhiali, e vagolo sperduto in quei corridoi dagli odori di vernice, legno, terriccio, metallo, così proprio come questi individui vagolano tra i banchi puzzolenti di carta e inchiostro, in libreria; e bramo uno sguardo, una mano tesa, qualcuno cui domandare e affidare la mia bega del giorno. Lo fisso negli occhi, gli descrivo il problema, mimo le forme e i suoni, m’invento parole che non esistono pur di renderlo partecipe, di fargli capire. Ma poi mi fido, cielo. Se quello dimostra di intendersene, o comunque di partecipare, e di giocare la carta che ritiene più giusta per me, io ci provo. E sono felice, lo sarò, anche se poi la toppa non terrà e il buco non si tapperà. Magari tornerò, cercherò lui, ricominceremo da un’altra parte… non ha funzionato, troppo scarno, troppo etereo, il vuoto esistenziale non s’è colmato; c’è dell’altro?
In libreria è tutta un’altra cosa, è vero. Ma non così tanto altra come vorremmo che fosse.
Ché un giorno un rappresentante è venuto e ha presentato quell’orsetto spettinato, quello buono per regalare alla nipotina. Ce lo siamo presi. Lo abbiamo messo accanto al topo di pelo, allo struzzo di gomma, all’elefante di legno. È venuto uno con le biro che scrivono anche a testa in giù e ce le siamo prese. Avevamo già quelle che si cancellano col naso, quelle che cambiano colore se fuori piove. E quaderni, blocchetti, agende, diari, biglietti, e ci sta. E film, e musica, che sono fratelli, e ci sta. E scatole con dentro un viaggio. E tessere magnetiche con dentro soldi virtuali, vestiti e scarpe virtuali, abbonamenti televisivi. Beni dematerializzati. Aggeggi elettronici per libri dematerializzati. E lucine da agganciare al tomo per leggere di notte senza turbare il partner, ma si torna lì: che nessuno legge, i conti non tornano e devi andare a caccia di chi un libro non se lo accatta manco sotto tortura, e la giostra ricomincia, tazze per la colazione, deodoranti per auto, coprisella per la bicicletta…
Eppure ci sono tanti libri belli in libreria. Sempre. Nonostante tutto. Soprattutto in certe librerie. Vanno saputi scovare, da lettori. Vanno saputi difendere e mantenere vivi, da librai. Va trovato l’equilibrio per potersi permettere di tenerli sullo scaffale, non darli in pasto alle mode che passano, ai numeri che ammazzano. I classici, i narratori universali, i veramente saggi, gli avanguardisti utili, i fotografi dell’impossibile, i maghi della parola, i matti, i poeti, i filosofi, i giovani che urlano, i vecchi che sentenziano. I geni. Se ne stanno tutti lì, compressi in quei parallelepipedi di carta, costipati tra mignotte e ciarlatani, disponibili al prossimo, pronti a raccontarti l’infinito: le batterie non si scaricano mai, le pagine non finiscono, le idee si rinnovano un giorno dopo l’altro.
Un’amica libraia dice (esagerando un po’, s’intende) che lei non rende mai indietro un libro, perché conosce così bene la sua clientela che quando lo prende sa già a chi è destinato: e prima o poi quella persona verrà, lo chiederà, lo sceglierà, insomma lo pagherà, se lo porterà via. E allora quale miglior investimento, in tutti quei mesi? Sul libro abbiamo poco ricarico, è vero, ma a mettere quei dieci euro in banca mi danno ancora meno, tanto vale investirli così…
Tutti quegli amici librai che hanno dovuto tirare giù la saracinesca non erano meno bravi, né più stupidi. Non sempre, perlomeno. Non ce l’hanno fatta, semplicemente. Né con i libri buoni né con quelli cattivi, né con i giochi da tavolo né con gli aggeggini, né con le piume e le paillettes che qualcuno non ha voluto indossare. Hanno chiuso. In silenzio o gridando, in piedi o in ginocchio, appellandosi al sindaco o al Padreterno; senza rancore per tutta quella gente che è passata di lì, durante gli ultimi giorni di svendita totale, a dire ma come, chiudete? Mi dispiace! Per sempre? E non ha comprato un cazzo nemmeno in quell’occasione, che magari gli pareva brutto, sai, gli avvoltoi sul cadavere, ma i fornitori non li saldi mica con una poesia…
Alla fine sono tutti belli, i libri. Quando più quando meno. Anche quello della mignotta, anche quello del ciarlatano; anche quello del calciatore. Lo denigrano tutti, il libro del calciatore scritto dal giornalista, ma talvolta c’è di peggio in quello del letterato, che ha pure meno scusanti.
I libri ti scaldano, ti proteggono. Ti fanno compagnia. Colorano le case, le rendono accoglienti. Mettono ordine, creano scompiglio. Sono fichi e fanno fico chi li ha. Alcuni hanno copertine meravigliose, opere d’arte a sé stanti, e costole imponenti da sostenere una mensola, o tanto sottili da infilarsi dappertutto. Costano poco o tanto, quanto vi pare, si riciclano a piacere, si abbandonano alle generazioni future, non muoiono mai, tramandano opere imprescindibili e sottolineature, fiori essiccati e appunti a matita, dediche, date, baci, carezze.
Comprateli per arredamento, per civetteria. Comprateli fino a riempire la mensola, occupare una parete, saturare la casa e la cantina; comprateli per tirarli in testa a qualcuno, magari a chi li ha scritti, possono essere utili anche per quello. Alla fine non importa li leggiate, lo penso per davvero: l’umanità non è destinata a progredire più di tanto, figurarsi per una lettura.
Comprateli e basta: per me che li scrivo e li vendo (quelli degli altri, s’intende) va bene lo stesso. E anche per i corrieri espressi.
L’immagine in evidenza è uno scatto della Libreria Ler devagar di Lisbona.
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