Rebecca libri

Beati gli idioti. Dostoevskij e il discorso della montagna (Daniele Castellari, Pazzini, 2024)

di Daniele Castellari
Fonte: Pazzini, 2024

Capitolo Primo

CHI È IL PRINCIPE MYŠKIN?

Pochi libri come L’idiota di Dostoevskij conoscono una così accentuata eterogenesi dei fini. A giudicare dalla lettera ad Apollon Nikolaevic Majkov del 12 gennaio 1868, bissata il giorno dopo da quella a Sofja Aleksandrovna Ivanova, nipote prediletta e figlia della sorella Vera, l’intento del romanzo secondo l’autore doveva essere l’impresa di «rappresentare una natura umana pienamente bella». Dostoevskij è consapevole delle difficoltà insite nell’idea e della debolezza di un eroe senza trama, oltretutto impallidito dal confronto con Cristo, unico personaggio totalmente bello e positivo che «costituisce un miracolo senza fine». Tuttavia l’idea lo seduce e la necessità glielo impone perché, come spesso avviene nella sua vita, la consegna del romanzo all’editore risanerebbe una certa quantità di debiti e risolleverebbe le sue finanze non rigogliose. Il tempo naturalmente fa la parte del tiranno così che la prima parte viene scritta in ventitré giorni e il proposito di quel Capodanno 1868 sarebbe di dedicare alla seconda non più di un mese. Si capisce che in tali condizioni soltanto un personaggio a tutto tondo, seppur a rischio di renderlo un eroe idealisticamente utopico, poteva soddisfare le istanze narrative dell’autore russo. Quello che ne è uscito, il principe Myškin per intenderci, seppure ad alcuni abbia suggerito una profonda consonanza con Cristo, ha sollecitato una serie di dubbi e altrettante bocciature agli sguardi letterari, filosofici e teologici di lettori molto attenti. 

Se procediamo di pari passo con le riflessioni che accompagnano Dostoevskij nel processo di gestazione del romanzo, viene da pensare che la personalità dell’Idiota sfuggisse anche a lui e che sicuramente fosse in costante evoluzione. Nella prima stesura, quella che occupa l’autore dal sorgere dell’idea nell’agosto 1867 ai successivi mesi di settembre-ottobre, il futuro principe Myškin non è affatto Myškin e tantomeno principe, però è già nominato “idiota”. Vive dentro un intrico familiare, complicato da diversi piani di costruzione del romanzo – Dostoevskij compone la storia e i personaggi con una sorta di “interferenze quantistiche” di cui diremo – ed è descritto con caratteri di personalità molto lontani dall’idea dell’uomo perfettamente bello (Cristo?), che troveremo citato nella lettera alla Ivanova di qualche mese dopo. All’inizio del Taccuino di appunti n. 3 del 14 settembre 1867: «E infine l’Idiota. La fama di Idiota gliel’ha fatta sua madre che lo odia. Provvede alla famiglia, ma si considera che non faccia nulla. E’ epilettico ed ha crisi di nervi. Non ha finito i suoi studi. Vive in famiglia. Ama la cugina del fidanzato – ma in segreto. Quella lo odia e lo disprezza trattandolo peggio di un’idiota o di un lacchè. (Mentre l’accompagna la bacia per la strada). (Vedendolo innamorato – lei scherza per non saper cosa fare e lo esaspera. Lei ha 24 anni. In uno di questi incontri egli violenta Mignon. Brucia la casa. S’è bruciato un dito per ordine di lei). Le passioni dell’Idiota sono violente. E’ ardente il suo bisogno di amare, incommensurabile il suo orgoglio, per orgoglio vuole dominarsi e vincersi. Trova piacere nelle umiliazioni. Chi non lo conosce ride di lui – chi lo conosce comincia a temerlo». 

Violento, autolesionista, stupratore; più avanti, stalker, calunniatore, scrivano in una cancelleria da dove se n’era andato dopo un litigio, durante il quale aveva sognato di sputare in faccia al direttore, però anche umile e obbediente alternativamente a ribelle. Una fisionomia di impiegato a metà fra il Bartleby di Melville e il Belluca pirandelliano, ma dotato di tratti molto più aggressivi. Nel medesimo taccuino, alla data del 22 ottobre, egli appare addirittura con il carattere del futuro Rogožin nel rapporto con l’Eroina della vicenda: «L’Idiota le confessa che egli l’ha odiata e che s’è vendicato di lei, mettendola in questa situazione. Ma che ora, poiché vede che ella, forse, lo ama, è pronto a dedicarle la vita, le toglierà la vita però se ella lo ingannerà». Decisamente la carriera da imitatore di Cristo, alla fine di novembre, doveva ancora avviarsi. Il 4 dicembre Dostoevskij distrugge la prima stesura. In ventitré giorni riscrive la prima parte del romanzo definitivo e così ai primi dell’anno può dare annuncio, nelle lettere già citate, dell’idea cristologica in Myškin. Tutto risolto? 

Neanche per idea. Nonostante la coppia Cristo-Chisciotte sia stata scelta come modello per tenere a battesimo il suo nuovo eroe, Dostoevskij si dimostra incerto e irresoluto in più di una circostanza circa la possibilità di realizzazione romanzesca e, ancora di più, intorno alla personalità del protagonista. Il Taccuino n. 10 occupa gli appunti del marzo-aprile 1868 e testimonia quanto il personaggio stia acquisendo una propria identità che interroga un narratore votato sempre più alla perplessità. Un colpo al paradigma esemplare di un alter Christus incarnato in Myškin trova luogo in un N.B. dell’11 marzo, nel quale il narratore si chiede se non convenga «tracciare la figura del principe in maniera enigmatica per tutto il romanzo, fissandola di tanto in tanto con dei particolari (fantastici, problematici, tali da suscitare curiosità) e poi d’un tratto metterla in chiaro alla fine»: evidentemente una soluzione narrativa piuttosto che teologica. Ancora più dubbioso appare Dostoevskij nel quesito del 16 marzo, quando si interroga con scetticismo sull’amore di Myškin per Aglaja – qui Bachtin potrebbe gongolare con la sua idea polifonica – e un mese dopo con la domanda circa la rappresentazione del principe «come una continua sfinge». Accanto a questi frammenti di riflessione 
si accomodano frasi assertive, addirittura perentorie nel loro carattere di post-scriptum consolidato e scontato: “NB Il Principe Cristo”, per esempio, formula ripetuta più volte. L’idea che rimane impressa dalla lettura dei Taccuini e delle lettere di Dostoevskij, oltre che dalle testimonianze della moglie, alla quale il romanzo in alcune parti venne dettato, conferma l’insicurezza sulla costruzione di un personaggio, che a causa della sua natura controversa oscillerà fra un catalogo di virtù alle quali dare compimento e un’ambiguità di gesti e situazioni che lo sottraggono a una versione monologica. Basti pensare al fatto che Dostoevskij giunge all’ ideazione di almeno quattro finali differenti per la vicenda. 

1. Myškin è Cristo?


La più antica interpretazione del personaggio più amato da Dostoevskij vede l’identificazione del principe in Cristo, sicuramente per certe virtù quali la mitezza, che riecheggiano anche il dettato evangelico là dove Gesù riconosce di essere «mite e umile di cuore». Non si può non cogliere l’originalità di un personaggio che pretende di presentarsi come pura bontà, proprio la virtù che la letteratura non ha mai messo al centro delle qualità eroiche, siano esse epiche o romanzesche. Una bontà semplice e destinata alla fatale sconfitta e alla disillusione, poiché capita a Myškin, come al suo fratello maggiore don Chisciotte, il destino di constatare che i loro sforzi sono vani e che nulla cambia in un mondo consegnato al male. Il principe è consapevole che la sua bontà non insiste sul dare, quanto piuttosto sullo stare inermi accanto a chi soffre fino al gesto estremo di salire con lui sulla croce. Anche e soprattutto a chi non condivide le sue idee e i suoi gesti di bontà, egli offre la disponibilità di essere lì, di com-patire, di non abbandonare e di perdonare. Colpisce molto anche la sua necessarietà: non tanto alla storia (è stato osservato che essa potrebbe proseguire anche senza di lui), quanto all’esistenza degli altri. Già lo intuiva il suo autore in una pagina di taccuino del 15 aprile 1868: «NB. L’importante è che egli è necessario a tutti – ». La capacità di essere attraente gli viene poi riconosciuta da Berdjaev, che ne sottolinea l’impronta cristica pur chiosando che Myškin attira tutti a sé, ma non riesce a essere un salvatore. 

Il quadro più completo delle somiglianze con la figura di Gesù si trova sicuramente nell’indagine teologica di Romano Guardini, che riconosce nel principe alcuni caratteri del Maestro: il distacco dai beni del mondo (persino quando eredita una cospicua somma e le sue condizioni economiche diventano eccellenti), il saper leggere nei volti delle persone (da ricordare qui l’episodio evangelico del giovane ricco), il realismo del vedere il male nel cuore dell’uomo pur non condannando e non giudicando («Non giudicate per non essere giudicati» Vangelo di Matteo, inizio del capitolo 7), il fatto stesso che venga da un “altrove”, il legame con i bambini, la difesa di una donna considerata prostituta, la definizione di Rogožin che lo chiama “pecorella” dopo l’episodio di uno schiaffo ricevuto per difendere una ragazza dalla violenza del fratello, gli scandali che provoca e che ricordano il Cristo giovanneo così amato da Dostoevskij. 

Da esperto di riti sacrificali, Renè Girard non vede un’incarnazione vera nella fissità angelica del principe, così immobile e perfetto da far sospettare Gavrila Ardalionovic di avere di fronte un esperto di tattica ammaliante e diabolica. Per Ganja, infatti, ad un certo punto la diversità “umile” di Myškin appare come una scaltrezza estetica per far innamorare Aglaja e le altre donne che vedono in lui un essere indifeso e incolpevole. Senza contare che, circa il rapporto condiscendente del principe con Ganja, potremmo anche essere più maligni e ipotizzare un’accortezza strategica in tale scelta, così da concludere che il distacco apparentemente umile del principe non sia la mortificazione del proprio orgoglio, come vorrebbe l’ascesi cristiana, bensì l’accettazione di un’inferiorità formale in cambio di un calcolato dominio provocato dal fascino. 

Fondandosi su questo esempio, Girard paragona il principe a Stavrogin dei Demoni, che potrebbe anche essere definito il suo opposto, ma che condivide con lui l’isolamento dagli altri personaggi. In fondo, la perfezione nel bene come nel male significa questo. Nonostante Girard ammetta che nel personaggio non vi sia solo questo aspetto, non tralascia di annotare che Dostoevskij cercava fin dall’Uomo del sottosuolo un marcato elemento di separatezza e che, non soddisfatto di Raskolnikov che pure lo portava come stigma nel nome, egli puntasse sull’umiltà di Myškin per un ideale di Cristo alla Jean Paul o alla Vigny, una figura romantica nella sua solitudine isolata dal Padre e dagli uomini. Va detto per di più che la separatezza può essere un segno di somiglianza con il Gesù dei Vangeli, il quale trova la misura del suo amore per il mondo nella radicale estraneità della solitudine e del deserto. 

Forse allora ciò che davvero colpisce in Myškin non è il “totalmente bello” della pretesa iniziale del suo autore, ciò che fa scandalo è la sua alterità. Jacques Rolland sostiene che si tratta della colpa originaria: aver voluto costruire un personaggio assolutamente bello prendendone a modello uno, il Cristo, “assolutamente altro”. Il principe viene percepito in questo modo dagli altri personaggi e così vive le relazioni, tanto che Evgenij Pavlovič un giorno lo rimprovera per la sua “compassione esagerata” nei confronti di Nastas’ja Filippovna. La dismisura è la cifra di riconoscimento dell’azione di Cristo e di tutti coloro che, come il nostro personaggio, si sentono chiamati in giudizio dal dolore umano. Nel volto di Nastas’ja è segnato profondamente un grande oltraggio che deve ancora essere redento, perciò Myškin reagisce con una compassione esagerata. 

In questo sentimento dalle tinte estreme Pavel Evdokimov scorge il peccato capitale del principe. Egli è amato da due donne: Aglaja, figlia del generale Epančin, ragazza bellissima, ambita e viziata, forte delle attese su di lei da parte della sua importante famiglia e Nastas’ja Filippovna, la classica femmina fatale e donna perduta, che infiamma con la sua bellezza sensuale i salotti pietroburghesi. Il principe Myškin non sceglie e sembra barcamenarsi tatticamente fra le due possibilità, poiché il suo misticismo gli fa intuire che entrambe potrebbero essere amate da lui e nello stesso tempo godere della garanzia della sua purezza. Forse avrebbero persino dei benefici dal suo amore, che con la sua mitezza raddrizzerebbe le storture del carattere di Aglaja temperandone l’altezzosità e raddolcendolo (segnali di questo effetto si intravedono quando la ragazza pare sbeffeggiarlo con l’epiteto “il cavaliere povero”, che in realtà la commuove) e farebbe riacquistare a Nastas’ja la bontà perduta con la profanazione della sua innocenza, guarendo in tal modo la sua voglia di vendetta verso il mondo e verso sé stessa. 

La cosa apparirebbe umoristica se non avesse un finale tragico e alla fine del romanzo un confronto a tre non svelasse l’insostenibilità della posizione del principe e la sua passività, che non redime la situazione, anzi la complica e la consegna in mano al caos. Scegliendo la compassione e quindi non potendo abbandonare la più debole delle due donne, che gli sviene fra le braccia – non sappiamo con quanta verità o teatralità – egli di fatto rinuncia all’amore potenzialmente alla pari, quello con Aglaja, e accudisce con la sua pietà le ferite che la vita ha inferto a Nastas’ja.


Sempre Evdokimov, ricordando che lo stesso Dostoevskij aveva vergato in uno dei suoi taccuini preparatori de I fratelli Karamazov che «di rado l’amore consiste soltanto nella compassione», ne desume che l’Idiota non lo possieda in tutta la sua pienezza e che la sua inettitudine consoli Nastas’ja, ma non la salvi dall’amore malato dell’altro suo spasimante, quel Rogožin che la ucciderà per gelosia. Quale redenzione, dunque, se l’oscura voluttà possessiva di quest’ultimo trionfa sulla compassione disincarnata di Myškin, che oltretutto sprofonda poi in una dolce follia da cui non si riavrà più? Secondo il teologo russo, l’incompiutezza del personaggio che non riesce a diventare un alter Christus, sta nella mancata incarnazione: il principe è abbastanza mistico per assomigliare ad Alëša dei Karamazov e come lui coglie i misteri dell’animo umano e legge la Bellezza nei volti di chi incontra, ma tale contemplazione dura lo spazio di pochi istanti. Forse perché favorito dallo stato di epilessia che egli subisce e che però gli permette di cogliere queste trasfigurazioni, Myškin intuisce la verità profonda che sta dentro alle persone, ma alla lunga questo effetto svanisce in lui e non diventa reale, concreto; perciò è costretto ad ammettere che «la bellezza è un enigma» e non riesce a risolvere il quesito di Ippolit: se essa salverà il mondo. Evdokimov lo considera un Cristo immaturo in quanto troppo angelico e disincarnato, titubante e irresoluto di fronte al tema decisivo della bellezza e del suo doppio, cioè la tentazione. Perciò il teologo russo si spinge a immaginare che la constatazione amara del Grande Inquisitore possa essere rivolta a Cristo come all’Idiota: «L’uomo è più debole e più vile di quanto Tu non pensi» confida il vecchio teologo al suo Signore, intendendo che la predicazione di Cristo, tesa a riscattare l’umanità in una sequela della libertà, sia stato un esecrabile errore di ingenuità, viziato sicuramente da un candore utopistico. In realtà, consegnare il libero arbitrio alle deboli menti umane ha significato esporle senza difese a tormenti, dubbi e occasioni irresistibili di tentazione. Mentre la risposta del Cristo della Leggenda è un silenzio enigmatico, al contrario l’Idiota ribatte con i suoi atteggiamenti improntati ad una speranza nella redenzione umana, che non deflette e che non subisce pause o tentennamenti, è spes contra spem

Eppure lo scacco si mostra impietoso in tutta la sua evidenza: non ricordiamo un personaggio convertito dal principe. Pensiamo a Lebedev, che usufruisce degli atti di generosità di Myškin e viene toccato per un attimo dalla commozione, ma subito riprende l’abito e la vita di prima; oppure a Ippolit, il ragazzo tisico e maligno, che non si lascia redimere dai semi di luce del principe e, al contrario, lo attrae nel suo cono d’ombra. Simonetta Salvestroni coglie una storia della sconfitta nella parabola di Myškin verso il buio, descensus ad inferos che lo toglie da ogni similitudine con i personaggi di Dostoevskij portatori di luce: Zosima, Mitja, Alëša conoscono un destino migliore. Il dubbio sulla identità cristologica si fa sempre più forte fino alla scena drammatica finale, culmine nel quale si scopre che il principe non può redimere, anzi lui stesso ne ha necessità e la mescolanza di lacrime fra lui e il rivale Rogožin indica una loro complementarità. Salvestroni la riconosce nel loro gesto di compassione reciproca che svelerebbe una colpa intrecciata e una conseguente purificazione comune. Siamo lontani dal trionfo di un Cristo Redemptor hominis e l’immagine testuale che ci viene proposta è piuttosto quella apocalittica – testo molto presente e amato nel romanzo – poiché il protagonista pare avere compiuto il grande rituale delle lacrime ed essere finalmente annoverato fra «quelli che vengono dalla grande tribolazione. Essi hanno lavato le loro vesti, e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello» (Apocalisse 7,14).

Merežkovskij, fra i primi grandi interpreti di Dostoevskij, in uno dei tanti saggi di confronto fra quest’ultimo e Tolstoj, ravvisa in Myškin uno sdoppiamento fra il principio di spiritualità e quello di carnalità, adducendo questo motivo per spiegare il fallimento della sua missione salvatrice. In altre parole egli, diviso fra la realizzazione del proprio amore e della propria passione carnale per Aglaja e il tentativo di rendere spirituale Nastas’ja Filippovna, non riesce nella sua Eucaristia a santificare la carne e il sangue; volendo salvare tutti, perde tutti. Perciò, se Rogožin è colpevole del delitto per l’azione, Myškin nella scena finale subisce il castigo per la sua inazione. 

Un critico sempre raffinato come George Steiner, partendo dalle domande di Evdokimov, propende per un’ambivalenza tragica del principe, mancato redentore un po’ per colpevolezza, perché inetto e incapace di aderire all’amore fino alle realistiche conseguenze della fisicità, e un po’ per innocenza perché messo in crisi dalle condizioni dell’esperimento cristologico iniziale del suo autore. Il quale, consapevole fin da subito, si accorge che l’altro grande modello romanzesco dell’innocenza eroica di un personaggio, tal Don Chisciotte della Mancha, aveva evitato le secche della rigidità e i limiti dell’idealismo, poiché il suo creatore lo aveva generato dentro una matrice umoristica che stemperava l’assenza dell’eros con un platonismo grottesco e con la traduzione della velleità amorosa in una virtù fatta di azioni e non in un recesso e in una privazione, come era il caso del suo Idiota. Sempre nella lettera alla nipote Sofja, Dostoevskij sintetizza: «Dirò soltanto che tra tutti i personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché allo stesso tempo è ridicolo. Il Pickwick di Dickens (che è una figura immensamente più debole di Don Chisciotte, ma pur sempre immensa) è anche lui ridicolo, e appunto per questo ci conquista. Nel lettore si determina un sentimento di compassione nei confronti del personaggio umanamente bello che viene deriso e che non è cosciente del proprio valore, e con ciò stesso viene provocato anche un sentimento di simpatia verso di lui. Il segreto dell’umorismo consiste appunto nel provocare la compassione». Non potendo e non volendo aderire a tale soluzione, non resta che affrontare la sproporzione (Pascal?) fra una natura immacolata, dotata di mansuetudine e saggezza non terrene, e le circostanze di un genere romanzesco avvitato alle istanze del reale. L’opinione di Steiner è di trovarsi di fronte a una figura che sì rimanda a Cristo, ma a quello disincarnato e pallido della ritrattistica romantica tedesca. La splendida similitudine fra l’immagine icastica del principe che si ritrova tra le braccia Nastas’ja, svenuta dopo lo scontro rivelatorio con Aglaja, e quella di Lear con Cordelia fa dire al critico francese che esiste una cecità dell’amore come della compassione. L’Idiota dostoevschiano sarebbe allora un’incarnazione dell’amore, nel quale però il sentimento non si è fatto carne per un obbligo alla purezza, che ha reso il protagonista anche inadatto all’azione, compresa quella più semplice – aggiungiamo noi – come evitare di urtare un prezioso vaso Ming in casa del generale Epančin e per di più sotto gli occhi di Aglaja. Dunque, Myškin non è riuscito a diventare “uomo” e di conseguenza la sua cristologia sarebbe inevitabilmente dimezzata e tradita. 

La conclusione può essere legittima e in tante riletture dell’Idiota, ispirate al pensiero di Nietzsche sul cristianesimo, ha trovato terreno fertile anche per polemiche di carattere diverso; tuttavia si dovrà metterla a confronto con un punto molto noto del romanzo. Quando Nastasja Filippovna, alla fine di una drammatica serata a casa sua, convocata allo scopo di combinare le sue nozze con Ganja, segretario del generale Epančin, dopo diverse giravolte irridenti fugge con il rozzo spasimante Rogožin che dichiara a chiare lettere di volerla comprare, l’unico sguardo sincero e stupito nel suo atteggiamento di generale disprezzo è da lei riservato proprio a Myškin, al quale si rivolge dicendo: «Addio, principe, per la prima volta ho visto un uomo!». La frase, così alla lettera, fa sorridere confermando un certo umorismo che Dostoevskij sapientemente dispensa in mezzo alle sue tragedie, dal momento che la signora in questione avrebbe potuto agevolmente annoverare fra le vittime del suo fascino (e fermiamoci qui) una buona quota della popolazione maschile di San Pietroburgo e dunque parlava con cognizione di causa. Tuttavia non possiamo non ascoltare il fine teologo che ci rammenta l’Ecce homo evangelico, luogo testuale a cui la battuta si riferisce. Romano Guardini ci ricorda che l’espressione “il Figlio dell’uomo”, formula prediletta da Cristo per definire sé stesso, rimanda nel Nuovo Testamento alla realtà di redentore. Guardini insiste a osservare che la cosa più straordinaria di Myškin è di essere riconosciuto ciò che tutti si credono: uomo. Una sorta di miracolo concesso soltanto a lui, un’evidenza del fatto che la realizzazione di una piena umanità si sottrae agli sforzi umani e può essere compiuta perfettamente solo con un dono divino. Quale tesi allora appare più affidabile: 

1) l’interpretazione di un Myškin, fallimento del sogno di perfezione umana e icona di un Cristo dimezzato e impotente, come nel quadro di Holbein citato nel romanzo? 

2) o la simbologia cristica del principe, ripetutamente presentato come una sorta di agnus Dei che si sacrifica per tutti, tanto da far dire a Guardini che lui racconta il Signore con la vita e non con le parole? Questo sarebbe anche il motivo per cui, quando Rogožin gli chiede se crede in Dio, lui non sa rispondere perché non riesce a oggettivare l’idea di Dio, in quanto proviene ed è irraggiato da Lui. 

3) o ancora, seguendo Girard, l’Idiota è la testimonianza dello scacco della perfezione, con il sospetto che l’opera risenta di un certo angelismo romantico e che per tale motivo Dostoevskij abbia affiancato al suo protagonista idealistico e disincarnato un alter ego decisamente più satanico e sensuale come Rogožin? 

L’estetica teologica di Hans Urs von Balthasar riconosce nella scena culminante ed esiziale del romanzo la chiave di volta per decidere circa il parallelismo Myškin-Cristo. Secondo il teologo svizzero, nell’accostamento a Rogožin e nella condivisione delle sue lacrime di assassino da parte del principe, si scolpisce la verità più profonda della sequela di Cristo: la comunione con il peccatore, chiunque esso sia e qualunque sia la sua colpa, anzi la comunione con la sua colpa stessa senza volontà di distinguersi e condividendo la sua croce. Nel prisma prospettico di tale lettura – molto lontana anche da Girard – cogliamo anche un’originale interpretazione dell’epilessia e dell’idiozia del principe come forma di comprensione e non di ridicola ignoranza. Hans Urs von Balthasar sostiene che Myškin, grazie alla sua alterità, sa mettersi in comunicazione con le profondità del cuore delle persone, addirittura in comunione, tanto che li comprende non con gli strumenti della psicologia (stabilire e verificare), piuttosto «con il sorvolare o dimenticare o, se si vuole, perdonare». Egli perdona non perché comprende, ma perché ama; e questo lo rende inevitabilmente ridicolo, in quanto interpreta i consigli evangelici in maniera inconsapevole, senza intenzione di perseguire una via di perfezione che lo distacchi dagli altri uomini, con i quali vuole vivere fino in fondo, accettando persino di essere ridicolizzato o redarguito per ragioni che egli non capisce. E questo suo “non sapere” lo salva dalla presunzione di essere un nuovo Cristo. L’invenzione sublime di Dostoevskij – interpretiamo a nostra volta Hans Urs von Balthasar – è quindi la funzione “velante” della malattia di Myškin, la quale copre il mistero cristiano che abita in lui e ne fa rifulgere la gloria dietro un velo di inconsapevole, inintenzionale santità. L’epilessia come l’idiozia gli consentono di condividere la sorte e lo stato del prossimo senza distinzione e senza pretesa di essere altro, in più il ridicolo di cui si copre è consustanziale della sua cristianità poiché lo fa vivere e operare con un baricentro spostato al cielo e non del tutto dentro di sé. Egli appartiene quindi alla serie tematica del “santo folle”, che si inaugura nel Medioevo di Jacopone da Todi e toccando aspetti filosofici nell’analogia di Erasmo da Rotterdam o inventando figure quali don Chisciotte, giunge a Dostoevskij e a Rouault proseguendo verso la ridicolaggine tragica dei preti di Bernanos e di Graham Greene. 

Anche Vittorio Strada contesta l’idea del fallimento del romanzo e vede per paradosso in Myškin tracce evidenti della imitazione di Cristo. L’ideazione dostoevskiana partirebbe dall’immaginazione di un uomo totalmente bello e si realizzerebbe con la catastrofe di quell’intuizione e con la sua resurrezione. Giacchè l’ideale risulta sconfitto nel romanzo, il romanzo è un trionfo dell’ideale: nella paradossalità dell’assunto sta la sua verità umana e cristiana, in quanto la morte dell’ideale cristiano afferma la sua esistenza. 

Se le cose stanno così, dobbiamo constatare due conseguenze. La prima riguarda la coerenza della scelta cristologica di Dostoevskij, in quanto Myškin imita il Maestro abbracciando anche la volontà del sacrificio – come il chicco di grano dell’immagine evangelica. D’altra parte, san Paolo aveva già letto in questo senso il “romanzo” del Messia di Nazareth, cioè come stoltezza che termina nel ridicolo della croce. Con la sua caduta e il suo insuccesso il principe conferma anche la conseguenza teologica della Leggenda del Grande Inquisitore, accettando la realtà dell’inarrivabilità di Cristo e del destino di insufficienza quasi grottesca di colui che volesse identificarsi in modo puro e assoluto nel modello del Dio-uomo. La seconda conseguenza trae forza dalla sottolineatura con cui Strada rende omaggio a Dostoevskij, riconoscendogli l’acume di avere colto con lucidità che il genere-romanzo non sopporta la soteriologia a meno che non voglia diventare didascalico e predicatorio come il Che fare? di Černyševskij con i suoi “uomini straordinari”. A maggior ragione, dunque, il principe del bene non può che perdersi; viceversa rischierebbe di diventare un principio astratto. Il suo autore lo salva consegnandolo alla rovina per evitargli la gogna di un’etichetta moralistica e fasulla. 

Umano, troppo umano; ovvero umano, poco umano. La conclusione paradossalmente pare essere la medesima, vale a dire che il personaggio di Dostoevskij può ambire tutt’al più ad essere riconosciuto come “un’immagine analogica di Cristo”. L’autore stesso, ad un certo punto delle sue riflessioni frammentarie sulla composizione del romanzo, inquadra Myškin nella bellezza dei suoi limiti. Accade quando discute con sé stesso del destino delle due donne protagoniste e se le immagina rappacificate e trasformate dalla volontà del principe che entrambe amano, ma poi soggiunge: «L’Idiota non si considera capace di un’azione sublime, ma ad essa anela». La sua rincorsa al modello evangelico rimarrà appunto una corsa senza fine; quando addirittura egli riuscisse nell’impresa più ardua, salvare Nastas’ja Filippovna, non placherebbe – continua Dostoevskij – «questa sua ansia di azione sublime, perché egli agisce per un puro e semplice amore cristiano». 

C’è una bella immagine di Vjačeslav Ivanov sulla composizione del romanzo che merita di essere spesa: «Il poeta, creando la sua opera, ha gettato le ancore a una tale profon
dità da non essere più in grado di ritirarle su tutte e iniziare la navigazione; è perciò costretto a tagliare più di un cavo di esse». L’immersione in un pensiero mitico, come la rappresentazione di un Cristo in terra, ha prevaricato la forma artistica del romanzo, che è apparsa da subito allo stesso autore nella sua imperfezione e nel suo non-finito; l’espressione – sono le parole della sua delusione – di neanche un decimo delle idee concepite.

2. Se Myškin non è Cristo, chi è Cristo per Myškin?

Cristo è un ideale al quale l’uomo tende, ma che non riesce a raggiungere. La felicità massima dell’uomo consiste «quasi nell’annientare l’io stesso, nel consegnarlo completamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve». Così Dostoevskij nel Taccuino di appunti N. 2 del 1863-1864. L’uomo può considerarsi, dunque, solo un essere in evoluzione verso la dimensione sacerdotale del Cristo e infatti, poco più avanti, lo scrittore insiste sulla questione dell’assenza di matrimonio nel Regno dei cieli in quanto l’ideale è farsi tutto a tutti senza legami particolari. (Il principe proverà goffamente a metterlo in pratica, ma le due donne che sceglierà di amare senza preferenze e con estremo candore avranno da obiettare…). In questo appunto di taccuino c’è già molto di Myškin, il quale potrebbe pure rappresentare, quattro anni dopo, la scommessa utopistica di superare questa definizione. 

Dieci anni prima, invece, Dostoevskij si trovava in Siberia e stava per essere liberato da quattro anni di reclusione. Proprio in quei giorni di fine gennaio scriveva alla moglie di un decabrista russo, Natalija Dmitrievna Fonzivina, che aveva conosciuto durante la sua prigionia: «Di me le dirò che sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quando più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! Ciononostante Iddio mi manda talora degl’istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegli istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl’istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». Un ideale estetico, dotato della forza che solo l’estetica detiene. E quanto Dostoevskij fosse sensibile al tema della bellezza, è risaputo. Il cammino che conduce lo scrittore russo a farsi il narratore dell’Idiota ben tredici anni e tante lettere e taccuini dopo, disegna la traccia del progetto che lo porta a concepire la figura di Cristo come una vera e propria possibilità esistenziale e non più soltanto un oggetto di ammirazione. 

L’inimitabilità del Cristo. Chiosando i taccuini, Vittorio Strada ci invita a considerare che la testimonianza resa da Myškin con la sua stessa esistenza è l’inimitabilità del modello, sfuggente a ogni rassomiglianza o interpretazione: che sia il profeta etico o il moralista edificante o ancora il socialista paladino del popolo, Cristo per Myškin e in Myškin è la sfida paradossale di sentire una ferita che cura sé stessa, spina della carne e balsamo della piaga, promessa e speranza non esente da dubbio. Perciò, il compito assegnatogli dal suo creatore, di dover imitare l’inimitabile, lo consegna a un’identità di straniero nel romanzo: come il Messia, egli viene da un altro luogo (sì, può far sorridere paragonare la Svizzera al Regno dei cieli) e vi ritornerà dopo essere passato attraverso la sconfitta e il rifiuto da parte del mondo e delle vicissitudini reali, che non erano in grado di comprenderlo. Forse si aspettavano da lui un grande cambiamento e una palingenesi sociale o morale, ma egli non partecipa del futuro bensì dell’eterno e men che meno riconosce a sé stesso un programma di rigenerazione etica del mondo, che invece percorre vivendo in una forma di catastrofica felicità. 

Una copia del quadro di Holbein del Cristo morto, che compare nel romanzo durante una visita del principe a Rogožin, s’impone come icona di una fede esposta al rischio di un insuccesso clamoroso e di una sconfitta deprimente. Myškin è sensibilmente colpito dall’immagine ed esclama all’improvviso: «Quel quadro! Ma quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno!». E il motivo di tale apparente paradosso lo spiegherà più avanti nel romanzo uno che si sente ormai sulla soglia della morte, un ragazzo affetto da tisi che si chiama Ippolit e che in una sorta di memoria testamentaria dedica un passaggio al medesimo quadro: 

«Il quadro rappresentava il Cristo appena deposto dalla croce. Mi sembra che i pittori abbiano tuttora l’abitudine di rappresentare Cristo sulla croce, oppure nella deposizione, con un viso di bellezza straordinaria; essi cercano di conferirgli questa bellezza anche fra le torture più atroci. Nel quadro di Rogožin di bellezza non ce n’è neanche l’ombra, c’è solo il cadavere di un uomo che ha subito indescrivibili torture prima di finire sulla croce. È stato ferito, battuto dalle guardie, 
percosso dal popolo mentre portava la croce sulle spalle, è caduto sotto il peso della croce e ha subito per sei ore il supplizio sulla croce (così per lo meno ho calcolato io). È il viso di un uomo che è stato tolto or ora dalla croce, che ha ancora in sé qualche barlume di vita, di calore, non si è ancora irrigidito nella morte. Dal suo viso dunque traspare la sofferenza come se ancora soffrisse (questo l’artista lo ha colto molto bene). Quel viso non è stato affatto risparmiato, esso è esattamente come quello di un cadavere che ha subito tali torture. So che la chiesa cristiana ha stabilito sin dai primi secoli che Cristo non soffrì metaforicamente ma realmente e che il suo corpo fu sottoposto sulla croce alle leggi della natura in tutto e per tutto. Nel quadro questo viso è tumefatto dai colpi, gonfio, ricoperto di lividi terribili, sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille sono storte, il bianco degli occhi luccica di un riflesso vitreo, cadaverico. Lo strano è che quando guardi quel corpo straziato, ti viene una domanda curiosa e particolare: se era quello il corpo (e doveva essere proprio così) che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto? Viene spontaneo pensare che se la morte è così terribile e se sono così potenti le leggi della natura, come è possibile sconfiggerle? Come fare a sconfiggerle se non ci è riuscito neanche colui che aveva superato le leggi della natura durante la sua vita, l’aveva piegata a sé, colui che aveva pronunciato “Talitha cumi!” e la fanciulla si era alzata; “Lazzaro, alzati!” e il morto era risorto? Contemplando quel quadro la natura appare come una belva enorme, implacabile e cieca, oppure, per usare una espressione più esatta, anche se strana, come una macchina gigantesca nuovissima, che senza pensarci ha afferrato, dilaniato e inghiottito, senza provare alcuna compassione, un essere sublime e inestimabile, lo stesso essere che da solo valeva più della natura e di tutte le sue leggi, più della terra che era stata creata forse solo per consentire la manifestazione di quell’essere! In quel quadro si esprime il concetto di una forza oscura, nuda, eterna e inconsapevole alla quale tutto è assoggettato e concesso malgrado il proprio volere. Le persone che circondavano il morto, che non appaiono nel quadro, quella sera dovevano essere in un terribile stato di ansia e turbamento che aveva distrutto tutte le loro speranze e la loro fede in un colpo solo. Forse si separarono oltremodo impauriti anche se portavano dentro di sé un pensiero grandioso che mai niente avrebbe strappato loro. E se il Maestro avesse visto l’immagine del suo cadavere alla vigilia dell’esecuzione, sarebbe salito sulla croce e sarebbe morto così? È una domanda che ti viene spontanea, quando contempli quel quadro». 

Il Cristo di Myškin non è il trionfatore, il re del mondo, il trasfigurato dalla gloria; è guardato con uno stupore e un turbamento che sarebbero piaciuti a Kierkegaard e a tutti coloro che scorgono la bellezza e la verità del Figlio dell’uomo nello scandalo della croce. Senza giungere alla conclusione del filosofo, che vedeva nell’arte cristiana un tradimento e addirittura una forma di paganesimo, a causa di una retorica dello sguardo che promuove ammirazione del Crocefisso e non imitazione, tuttavia Dostoevskij esige che i suoi personaggi attraversino l’orrore e il raccapriccio di fronte al volto e al corpo sfigurato di Cristo. Anticipa in questo modo il turbamento testimoniato da un altro scrittore, stavolta davanti alla pala di Isenheim a Colmar: Elias Canetti confessa nell’autobiografia Il frutto del fuoco di avere sostato una giornata in una contemplazione allibita e di avere compreso che ciò che lo inchiodava a quella visione, era la sua terrificante realtà. E chiosa: «La trasfigurazione si addice al concerto degli angeli, ma non alla croce». 

La scoperta della statura di Dostoevskij come pensatore e filosofo gli avvicina l’interesse del giovane Berdjaev, frequentatore assiduo dei cenacoli del mercoledì presso la “torre” di Ivanov. Al sesto piano dell’appartamento del poeta e storico delle religioni, da dove si godeva una splendida panoramica su San Pietroburgo, si riuniva dal 1905 al 1912 una schiera di intellettuali che dibatteva di questioni di grande interesse culturale e politico in quel momento incandescente per la Russia; ed essi, da Merežkovskij a Rozanov, Bulgakov, Berdjaev (senza dimenticare il padrone di casa), erano uniti anche da una venerazione per il loro “Fëdor Michajlovič”. Secondo il giovane filosofo Berdjaev, a Dostoevskij interessa soltanto l’uomo perché risolvere il problema dell’uomo significa risolvere il problema di Dio: egli deve però ricorrere a Cristo perché ne subisce il fascino – ed eccoci all’Idiota – riguardo al suo tema più viscerale che è la libertà. In questo caso la dialettica Dio-uomo deve contenere un aspetto incarnato che è il Dio-uomo venuto sulla terra per insegnarci a giocare con la libertà. La questione è fondamentale per il pensiero teologico del romanziere, in quanto l’esistenza di Dio per lui implica necessariamente la presenza del male e del dolore. Se il mondo fosse esclusivamente buono e giusto, allora il mondo sarebbe Dio; nella dialettica della scelta fra il bene e il male – ciò che chiamiamo libertà – Dio mostra la sua esistenza e questa rivelazione drammatica e agonica è Gesù Cristo. Secondo Berdjaev, l’attrazione di Dostoevskij verso questa figura nasce dall’insopprimibile necessità della libertà come condizione per il suo pensiero filosofico. Oltre che per le esigenze polifoniche e dialogiche del suo pensiero romanzesco – aggiungerebbe Bachtin. 

Il saggio di quest’ultimo, più squisitamente letterario e volutamente funzionale al discorso stilistico, ci aiuta in maniera insospettabile in questo passaggio teologico. L’inquietudine, l’irresolutezza e la costruzione dialogica del personaggio impediscono di pensare un’equivalenza fra Myškin e Cristo. 

Il principe assomiglia al suo modello per la capacità di parlare non tanto di sé e dell’altro, ma con sé e con l’altro e tali risonanze rendono la sua parola penetrante e capace di introdursi nel dialogo interiore dell’altra persona in modo attivo, aiutandola a riconoscere la propria voce. Tuttavia al principe manca la sicurezza e l’autorità della parola monologica, la fermezza delle “parole che non passeranno” (Vangelo di Matteo 24, 35), poiché egli si costruisce nella sua dialogica interiore che non lo rende certo nemmeno della propria anima. Le espressioni di Bachtin non danno adito a dubbi, quando spiega che in Dostoevskij l’uomo è il soggetto di un rivolgersi all’altro e che il dialogo nel personaggio romanzesco dello scrittore russo non è mezzo o soglia dell’azione, ma fine. Il dialogo è il momento del divenire dell’uomo, non della sua epifania. In fondo, il virus del sottosuolo infetta Myškin come Raskolnikov; perciò egli non possiede un verbum da rivelare, altrimenti potrebbe concorrere a salvare le anime e non sarebbe stato definito “il Cristo senza miracoli”. 

3. E chi è Myškin per Cristo?


Il libro denuncia l’impossibilità di essere autenticamente cristiano? O l’impossibilità della perfezione, persino di quella masochistica dell’umiltà assoluta e sofferente? L’aspetto grottesco della bontà di Myškin potrebbe sancire il fallimento dell’immagine di Cristo calata in un suo seguace che “esagera”, quasi fosse più realista del re: quale livello deve avere l’imitatio Christi per integrarsi nel mondo pur essendone l’alternativa, così da rappresentare l’originalità della differenza senza subire il ridicolo dell’esclusione? La soluzione suggerita dal romanzo potrebbe anche essere una via radicale, cioè che la separazione dell’Idiota, addirittura l’estraneità che gli regala la malattia, siano l’unica possibilità di amare il mondo davvero? Il deserto è la strada obbligatoria di Myškin verso la santità e l’amore del prossimo? Rogožin, appena prima di mostrargli il Cristo di Holbein, chiede al principe se crede in Dio: è questa la domanda fondamentale? Poiché il nome di Gesù Cristo compare con grande frequenza nei taccuini preparatori del romanzo e molto meno nel racconto definitivo, significa che alla fine ha prevalso il personaggio, cioè l’uomo-Myškin? E in quale relazione con l’Ecce homo e il “Figlio dell’Uomo” del vangelo si pone la dichiarazione illuminante di Nastas’ja Filippovna che il principe sia un uomo rispetto a tutti gli altri? 

Le domande si affollano. I lettori di Dostoevskij sono legittimati alle domande più di tanti altri, poiché egli per primo ha vaccinato i suoi personaggi ponendoli al sicuro dalla tirannia dell’autore e rassegnandosi egli stesso alla loro evoluzione: lo si scopre nella congerie di appunti redatti su taccuini affastellati e che è stato arduo dirimere persino cronologicamente, dato il suo vezzo di scrivere contemporaneamente su più di uno. 

A questo punto potrebbe avere senso ribaltare la questione, sfiorando solo apparentemente il paradosso: chi è Myškin per Cristo? Dostoevskij ci direbbe che l’uomo proviene da un mondo di innocenza ed è un essere in cammino verso la pienezza e il compimento del bene, in altre parole verso la sintesi dei suoi desideri che potremmo anche chiamare felicità: a che punto si trova il principe in tale percorso? E’ il momento di formulare un’ipotesi e di rileggere insieme il romanzo.

4. L’eroe in marcia

Per provare a dirimere la questione nella quale ci siamo avviluppati insieme a una buona quota della critica, apriamo quella pagina della prima parte del romanzo, nella quale il principe racconta alle sorelle Epančin la storia di Marie. Riferendosi al suo soggiorno in Svizzera, egli narra di questa giovane ragazza ammalata di tisi, sedotta e abbandonata da un avventuriero, la quale accudiva la madre impotente che la tiranneggiava e la malediceva per il disonore che le aveva recato a causa dell’abbandono subito dallo sconosciuto. Tutto il paese disprezzava Marie e la svillaneggiava, persino i bambini compivano atti di bullismo nei suoi confronti deridendola e maltrattandola, finché il principe non li conquista con la sua simpatia educandoli alla compassione nei confronti della giovane disgraziata. La pietà dei bambini si trasmette al villaggio tanto che Marie conosce un momento di sollievo nell’ultimo periodo della sua vita. 

La conclusione del racconto ci appare ora rivelatoria in una sottolineatura di Myškin che descrive le attenzioni dei bambini verso Marie: «Grazie a loro, ve l’assicuro, morì quasi felice». Il quasi è la chiave del discorso, la nota dissonante che tutela la spigolosità della realtà dallo scadimento fiabesco e moralistico. Il principe non fa miracoli, tutt’al più compie azioni quasi perfette, come ogni buon seguace che si metta in cammino lungo la strada esemplare del Maestro. Tutto l’episodio è permeato di felicità e di beatitudine, persino quando i bambini piangono al funerale di Marie, mentre entusiasti e lieti coprono la bara di fiori e se la contendono per portarla alla sepoltura. La misericordia comunicata dal principe ai suoi giovani allievi fa scaturire una vita serena e lieta che nemmeno la persecuzione del pastore e del maestro di scuola – i farisei della chiesa e della cultura – riesce a scalfire. Fra le altre cose, l’aneddoto rammenta anche una diagnosi psicologica del medico curante di Myškin, il quale lo definisce «un fanciullo in tutto e per tutto», constatando che dell’adulto egli possiede solo la statura e il viso. 

La misericordia, la beatitudine, la persecuzione, l’essere come un bambino spiegano l’imperfezione poco trionfale del quasi e ci autorizzano a pensare che il principe non sia Cristo, ma sia alla sua sequela come l’uomo delle Beatitudini, cioè un interprete affaticato e insicuro di quel programma di vita che il Rabbi di Nazareth affidò ai suoi eventuali seguaci nel formidabile Discorso della montagna. Inutile affannarsi a cercare una santità prima del tempo in Myškin, poiché egli non è altro che un povero cristiano in cammino. D’altra parte, recita così la prima definizione dei cristiani (Atti degli apostoli 9, 2), quando Saulo di Damasco li perseguitava come “quelli della via”, lasciando intendere probabilmente la loro missionarietà pedestre. Anche il nostro eroe, in fondo, batte continuamente le strade per esercitare la sua inclinazione alla felicità, che egli esercita in un’inesauribile compassione per l’altro, chiunque esso sia. Il principe è mosso da desideri continui, da idee nuove e irrefrenabili che lo riempiono di energia e che in un’estate caldissima lo fanno vagare alla ricerca della sua strada nella vita. Il cercare la felicità va da sé che sia una vocazione di futuro – ed è stato osservato da più di un commentatore come l’Apocalisse di Giovanni sia la fonte scritturale più presente nel romanzo –, perciò ci piace ricordare che una delle possibili traduzioni dell’esordio anaforico delle cosiddette Beatitudini possa essere una sorta di inno o di slogan al futuro. Enzo Bianchi ha citato più di una volta la versione di André Chouraqui, intellettuale ebreo e accademico di Francia, il quale propose per “beati”, la dizione: “En marche” (“Avanti”, “In cammino”), in quanto il makarios greco non rendeva abbastanza la sfumatura della espressione ebraica ’ašre (“Coraggio”, “In piedi”, “Felicità!”, “In cammino!”). 

Ci indirizziamo quindi a cercare in Myškin l’uomo della strada, del coraggio, del guardare al futuro e perciò dell’incompletezza e dell’insicurezza: questo già ci esonera dalla fedeltà alla protodefinizione del suo autore, che ha provocato molte delusioni in chi ha preteso di vedere nell’Idiota un riuscito alter Christus. Egli non può essere, come pure è stato ipotizzato, l’unica risposta possibile a Raskolnikov e a Stavrogin, a colui che vuole essere al di là del bene e del male e a quello che non li distingue più nella sua amoralità; e questo per la semplice ragione che il principe è un uomo in cammino, sprovvisto di regole precise da imporre o da consultare, incline invece alla ricerca della felicità, esemplata nelle proposizioni del Discorso riportato dall’evangelista Matteo al capitolo 5: «Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi». (Vangelo di Matteo 5, 1-12) 

Scegliamo questa fonte anziché quella dell’evangelista Luca, poiché l’intenzione catechetica di Matteo scopre l’intento di proporre ai lettori un programma vero e proprio di vita cristiana più che inseguire una prospettiva di pura cristologia. E nella nostra interpretazione Myškin non è Cristo, ma un seguace che prende molto sul serio il Discorso delle beatitudini, sia per la dimensione di immanenza che per quella trascendente. 

Seguire le orme di un uomo che cammina dietro un altro, è faccenda che produce un possibile disallineamento nella prospettiva dello sguardo. Per concentrarci e focalizzare meglio la traiettoria del nostro eroe, organizzeremo più pedinamenti e tracceremo il grafico di otto percorsi che egli compie, uno per ogni beatitudine che insegue. Ricominceremo sempre dall’inizio della vicenda e la circolarità dei singoli percorsi, ricalcata otto volte, costruirà una sovrapposizione imperfetta, un andirivieni di regolarità e irregolarità che non sarebbe dispiaciuto a Dostoevskij, che già lo utilizzò come processo compositivo nei suoi Taccuini preparatori del romanzo, i quali si snodano in un disordine di improvvisazioni non scevre di ripetizioni e incongruenze. Allo sguardo acuto di Michail Bachtin, questi sono elementi inoppugnabili per dimostrare la polifonia narrativa dell’autore russo e testimonianze altrettanto sicure della sua originale forma di realismo. La chiamiamo “originale” per distinguerla da un contesto letterario russo, nel quale il termine realismo significa qualcosa di preciso e non esattamente questo. Infatti, per Dostoevskij Cristo è l’unica autentica verità e questo vincola l’uomo e l’artista alla concretezza del realismo, che è quindi vocazione teologica ed etica prima che estetica. Ne consegue che la frammentazione del personaggio come dello stile di scrittura, ma anche la loro irresolutezza, persino la ridondanza o la contraddittorietà dei medesimi, non sono altro che una versione narrativa della incompletezza e dell’umiltà che dovremmo tenere di fronte agli eventi e alla loro complessità. Nei Taccuini e poi anche nel romanzo l’autore si riserva di tornare sui suoi passi, di riscrivere cose simili, di procurarci la sensazione che certe descrizioni dei personaggi erano già state fatte, ma forse non in quella maniera e che, insomma, di fronte al garbuglio dell’esistenza degli esseri umani, inclusa quella romanzesca, si debba accettare una misura di attenzione e di sospensione del giudizio. Dostoevskij sa di arrogarsi il diritto di incidere profondamente nella sostanza più intima dell’uomo con le sue storie e con i suoi personaggi e che l’unica verità consentita in questo caso è quella dell’umiltà cristiana, che accetta il mistero e la rivelazione insieme; di qui la scelta polifonica delle tante possibili verità e delle loro versioni, come se per tracciare un identikit lo scrittore ricalcasse continuamente a schizzo le medesime linee, che fatalmente assumono infinite variazioni. Ci incamminiamo anche noi, a nostra volta, seguendo il disegno dei passi di Myškin, uomo delle beatitudini: otto cammini, otto marce verso la perfezione non raggiunta del suo cristianesimo, otto modi per tentare di essere beato. 

Fonte: Pazzini, 2024
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