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Beppe Fenoglio. Montagna

di Angela Boscolo Berto

“Quando ci andrò mi dirigerò sulle Langhe. Non so, ma la mia linea paterna viene di là”. Queste le parole che, nel terzo capitolo del Partigiano Johnny, il protagonista eponimo, alter ego di Fenoglio, rivolge al professor Chiodi. In un gioco di perfetta coincidenza con il suo autore, dopo lo sbandamento dell’8 settembre, Johnny lascia Alba per unirsi alle formazioni partigiane situate, appunto, nelle Langhe. Da lì porta avanti la lotta di liberazione contro il nazi-fascismo che ha occupato la sua città natale, sostenendo con la propria esperienza l’idea che la Resistenza si combatte pro aris et focis, cioè a difesa della geografia locale, prima ancora che per l’interezza del territorio nazionale.

Lo spazio della montagna, in particolare, assume in tutta la narrativa fenogliana (sia quella dei racconti langhiani che quella della guerra civile) una centralità assoluta. Ciò coglie il lettore inizialmente di sorpresa, così come succede ai personaggi stessi di Fenoglio (“Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore, e gli era toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra” – pensa Milton, altro affascinante doppio del suo autore);  ma a ben vedere l’aver posto al centro del racconto il paesaggio storico reale in cui la Resistenza si svolse è tratto tipico di tutta la narrativa resistenziale, che trova il proprio emblema naturale e antropologico nella montagna.

Nei testi di Fenoglio la montagna è spesso descritta e vissuta dai personaggi stessi in netta contrapposizione alla città. Questo appare evidente nei Ventitré giorni della città di Alba, un testo che restituisce perfettamente la trasformazione delle città durante la guerra civile e il senso di estraniamento che ne provano i partigiani prima loro abitanti. Alba è diventata una trappola asfissiante di morte, dove il pericolo, dice Fenoglio:

[…] era nell’aria e stranamente deformava le case e le vie, appesantiva i rumori, rendeva la città a momenti irriconoscibile a chi c’era nato e cresciuto. E i partigiani, che in collina riuscivano a dormire seduti al piede d’un castagno, sulle brande della caserma non chiusero occhio. Pensavano, e in quel pensare che a tratti dava nell’incubo, Alba gli pareva una grande trappola colle porte già abbassate.

Alba è avvertita come spazio estraneo e spaventoso; come Torino, Milano, Roma, come tutte le città prese dai nazi-fascisti, ha alterato il suo volto e la sua stessa identità, avvolta in un’atmosfera surreale, di pericolo e paura. La guerra, insomma, rovescia le consuete certezze del tradizionale paesaggio nazionale: in città gli uomini vivevano “come topi,” si sentivano fragili e imprigionati (“La città era inabitabile, la città era un’anticamera della scampata Germania […], assolutamente inabitabile, per un soldato sbandato e pur soggetto al bando di Graziani”) e solo nelle montagne affermano di aver riacquistato appieno la loro libertà. Secondo Johnny gli uomini si sentivano soffocare per le strade di Alba (anche dopo la sua temporanea liberazione dai nazi-fascisti), ed erano contenti di lasciarsela alle spalle per partire in ricognizione verso le rive di un fiume; l’odio e il sospetto continuo verso gli altri e verso lo spazio alienato della città costituivano “l’annotazione principale sul comportamento medio partigiano in città”.

In questo contesto, la salita ai colli delle Langhe non implica un rischio di isolamento, ma ribadisce invece l’urgenza del conflitto. La narrativa fenogliana situa sempre la figura del partigiano “in alto” a contrastare il mondo “di sotto,” quello corrotto dei nemici fino a far diventare le Langhe una sineddoche della Resistenza tutta. È interessante sottolineare che in tutte le opere di Fenoglio le colline vengono descritte come “colossali”, “enormi”, “piramidali”, o addirittura “somme colline”, “arcangelico regno”, anche se la realtà geografica delle Langhe è costituita da altezze alquanto modeste se confrontate con le vette alpine dove pure la Resistenza si svolse e lasciò un segno profondo nel territorio. Nei testi di Fenoglio quest’elevazione è dunque sempre descritta con un sottofondo di ostentazione, volta a rinforzare e avvalorare la distanza assoluta tra il mondo alto dei partigiani e quello basso dei cittadini conniventi con i nemici.

Le montagne partigiane di Fenoglio sono sempre in movimento e il più delle volte percorse in salita. E se pur ci capita di imbatterci in personaggi che “scendono” le montagne, questo moto è iniziale, punto di partenza al quale segue poi una risalita. È così nel romanzo breve La malora, che si apre con la notazione della morte del padre del protagonista (“Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra”) e ci mostra Agostino che scende dalla collina verso il Pavaglione; qui solo in apparenza il movimento è quello di discesa perché l’immagine di chiusura del romanzo vede la collina protagonista, un vero e proprio anelito verso la montagna, il moto di salita alle “alte colline”, ora illuminate dal sole. Analogamente, nella prima scena del racconto Il gorgo, il padre, che non riesce più a sopportare le sventure che si abbattono sulla sua famiglia, alzandosi da tavola dice: “Scendo fino a Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia”, un espediente per andarsene, per essere libero di suicidarsi. Il figlio più piccolo, l’unico che ha capito, lo segue per impedirglielo. Anche questa volta il suicidio non avviene e il racconto termina con una risalita: “Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo”. Nella sconfitta più totale, vissuta con compostezza e toccante dignità, i personaggi di Fenoglio trovano sempre una chance per riscattarsi, l’occasione di una salvezza, che non è redenzione o lo è solo nella misura in cui accetta contestualmente anche il male e lo comprende.

fenoglio

La rilevanza della resistenza montana in contrapposizione a quella cittadina emerge in diversi accenni sparsi qua e là nel Partigiano Johnny: il dorso e il palmo delle mani di Johnny, per esempio, sono segni fisici che materializzano l’inconciliabilità delle due esperienze e che contraddistinguono due diverse identità del protagonista: quella precedente di soggetto civile trascorsa in città e quella attuale di partigiano della montagna. Ma possiamo anche pensare al rifiuto del passato di cittadino comune che si attesta ormai incompatibile rispetto alla nuova identità di partigiano nel capitolo XIII, quando Johnny è invitato a casa dell’industriale enologico B. e si intrattiene in compagnia sua e di tre donne. In questo episodio, il senso di lontananza e l’alterità verso la comunità è appena camuffato da una smorfia (il “muto sorriso, sfingico”) mentre l’enfasi finale e l’esclamazione di Johnny “Were I now up there again!” decretano l’impossibilità di un ritorno alla vita di prima, qualsiasi essa fosse.

Tutto ciò era così assurdo, piombato in una vasca irreale: proprio non poteva più comunicare con quel tipo umano, nessun ulteriore rapporto, se non un mutuo sorriso, sfingico. […] No, non c’era più nessun possibile rapporto, tra quella gente e se stesso, il suo breve ed enorme passato […] Di colpo, affondato nella pushy poltrona, fronteggiato da belle e giovani donne, alitanti civiltà come un profumo di cui ci si spruzza normalmente alla mattina, Johnny rammemorava, rimpiangeva la tetra, sporca monotonia di Mombarcaro penuriosa.

Lo specifico paesaggio della montagna ha cambiato intimamente i partigiani, come a dire che il paesaggio non è solo attorno a loro ma penetra nei loro stessi corpi.

Fu Calvino il primo a notare come la Resistenza avesse rappresentato la fusione tra paesaggio e persone, a parlare della simbiosi partigiano-rododendro, e a porre enfasi sulle “condizioni materiali prima di tutto, biologiche, un certo rapporto con l’ambiente vegetale, i cespugli, l’attesa della crescita in primavera come condizione di sopravvivenza per il partigiano, per la sua possibilità di fare azioni in terreno aperto.” (Italo Calvino, Saggi, p. 2774). I combattenti, insomma, devono diventare elementi della natura e calarsi nel cuore della terra per trovare protezione dal nemico.

Similmente al “partigiano-rododendro” di Calvino o al “ribelle con delle radici” a cui si riferisce Meneghello, il partigiano di Fenoglio subisce una fondamentale simbiosi con lo spazio naturale della montagna che lo trasforma anche dal punto di vista fisico. “Io mi sento un fungo” dice Ivan, compagno di banda di Milton in Una questione privata; “Parola che mi sento crescere la muffa addosso”. La Resistenza scrive il nome della libertà sul paesaggio montano, eppure al contempo anche il paesaggio lascia tracce profonde nella memoria, nei volti e nei corpi dei combattenti della montagna. Di questo rapporto bilaterale la narrativa fenogliana fa un resoconto estremamente dettagliato, al punto da essere più o meno onnipresente nelle sue pagine. E verrebbe da suggerire che proprio in questa nuova rappresentazione del paesaggio risieda una delle novità più interessanti della scrittura di Fenoglio, ossia il conferimento alla montagna, per la prima volta nella storia della letteratura italiana, di un nuovo carattere sia stilistico che diegetico.

Nel Partigiano Johnny, le colline langarole – che a volte appaiono paurose e terribili (gli aggettivi più comunemente utilizzati per descriverle sono “alte” “dreary” “incombenti” “potenti”) altre volte sembrano essere dolci, quasi una presenza rassicurante – prendono spesso gli attributi corrispettivi agli stati interiori del personaggio. Così le creste dei rilievi sono agli occhi del personaggio “più dolci, più materne” quando guarda la sua Alba dall’alto, mentre dopo la perdita della città e mentre si incammina nuovamente sulla collina  essa “non appariva protettiva e tanto meno materna; aveva invece un truce, sinistro aspetto”. Più di qualche volta lo spazio naturale prende la forma di una figura umana, come nella narrazione del giorno della liberazione di Roma dai fascisti, in cui la collina di Valdivilla “sobria, armonica e funzionale” è comparata ad un membro umano. Verso la fine dello stesso capitolo, inoltre, Fenoglio fa un insolito uso del verbo “incoronare”, applicato in riferimento non all’uomo ma alla cima del colle – “già incoronato di partigiani”. Il frequente richiamo di Fenoglio alle colline come elementi naturali di sostentamento e nutrizione ci fa pensare a una terra madre e a un paesaggio propriamente materno (così una salita “sul primo seno della enorme collina”). Il fascino e l’attrazione che Johnny prova per quest’ambiente sono legati a quella sensazione di benessere che di solito procura il ritrovarsi in uno spazio sicuro e di ataviche origini; si pensi alle parole pronunciate dopo l’incidente in macchina dal quale Johnny si rianima guardando pietrificato il cielo: “Johnny bramò la vita, la vita era il tiepido hush nell’aria e il tiepido profilo delle alte colline, così ferme e solide con radici di terra”.

Nell’ultimo capitolo del romanzo la fusione dell’uomo con il suo ambiente si intensifica e la metamorfosi tra i due elementi arriva al parossismo. A leggere queste pagine si ha l’impressione che la dimensione umana abbia definitamente abbandonato il reale e la sensazione generale con cui rimaniamo è quella di una realtà impregnata dal fango, dalla terra fradicia, “gelatinosa” che assorbe i corpi dei partigiani dentro di sé. Se il cielo viene personificato ed è detto “canuto”, i fuggitivi perdono la loro umanità e vengono assimilati ad uccelli (“stormo di fuggiaschi”) e abbandonano la città di Alba in volo. Un’altra suggestiva immagine metamorfica è quella dei pattugliatori tramutati in una sorta di scarafaggi – “nerastri, antennati animali sulla terra senza luce”.

L’uso che Fenoglio fa delle metafore non è mai scontato ma serve, proprio nella sua abbondanza e frequenza, a creare il senso di una totale assimilazione dei caratteri umani agli elementi naturali del paesaggio, fino al punto in cui entrambi finiscono per diventare una sola entità. In quest’ultimo capitolo troviamo partigiani seduti per ore nella terra bagnata: “Un uomo bestemmiò e risedette sul fango, quasi ci infisse il sedere”. E come non ricordare il più esasperato momento di simbiosi tra uomo ed elementi naturali, le circostanze dell’ultima battaglia raccontata nel romanzo, quando Johnny è preso sotto il fuoco del bren e cercando appiglio tra i ciuffi di erba, scivola nella terra fino a diventare un tutt’uno con essa: “Chiuse gli occhi e stette come un grumo, una piega del terreno”. L’immagine del fango, che domina le ultime pagine creando una strana atmosfera di fanghizzazione della realtà, è particolarmente feconda in tutta la narrativa fenogliana (basti pensare a Milton che è sempre invischiato nel fango), ma nel Partigiano Johnny – e qui devo concordare con Maria Corti – assurge davvero a dimensione narrativa predominante (Nuovi metodi e fantasmi, p. 435).

Questo processo di fanghizzazione non coinvolge solo il protagonista bensì tutti i partigiani, i cui corpi appaiono continuamente infangati fino al punto di una loro mimetizzazione con la melma dalla quale cercano invano di sgusciare e liberarsi. Il fango è sì una trappola che affonda e comprime, ma a ben vedere è solo attraverso questo rapporto di assorbimento nella natura, solo dopo essersi lasciati plasmare e formare dalla natura, dopo aver superato le sue terribili prove di forza, che si può vincere il nemico. In ultima analisi, dunque, un rapporto positivo, dove non viene a mancare un riferimento biblico, in quanto l’elemento del fango ricorda lo schizzo dell’uomo fatto dalla mano divina.

L’argilla è infatti il materiale utilizzato da Dio per creare la vita, per plasmare e modellare l’uomo e il mondo. E il riferimento alla creazione qui non è certamente ignorato seppure sia implicito: è associato alla possibilità data ai partigiani di rigenerarsi simbolicamente sia sul piano individuale che collettivo, con la produzione di un nuovo ethos che li possa definire come uomini nati a una nuova vita. Ciò che viene narrato è la rinascita dell’uomo come individuo, una trasformazione che è inseparabile dall’ambiente in cui avviene, quel paesaggio che travalica la contingenza topografica e che si fa terra di tutti e di tutto il mondo, fino a diventare il luogo per eccellenza della Resistenza, la terra in cui “Fenoglio vede riflesso l’intero pianeta degli uomini” (Maria Corti, Beppe Fenoglio. Storia di un continuum narrativo, p. 35).

È in questo senso che si può intendere la storia della guerra civile raccontata da Fenoglio come sineddoche della Storia universale dell’uomo, nel confronto con una natura violenta quanto l’uomo, che risucchia dentro di sé e influenza in modo definitivo, e che conduce ad una nuova condizione di esistenza, arricchita da un doloroso e patito – ma nondimeno autentico – rapporto con la Natura e la Storia.

 

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