Qualcosa di intrinsecamente poetico nella natura muscolare e agonistica del gioco del calcio ci deve proprio essere se persino Leopardi ha pensato che non fosse sconveniente utilizzarlo come spunto per il suo componimento A un vincitore nel pallone. Per la verità lo spunto non è altro che un pretesto e il poeta si guarda bene dal citare il nome di Carlo Didimi di Treia, il giocatore marchigiano suo coetaneo cui è dedicata la Canzone. È interessante però scoprire con quanta scioltezza Leopardi associ il gioco del calcio alle mitiche imprese eroiche degli antichi greci, e con quanta altrettanta naturalezza chiuda la poesia con una nota personalissima, elogiando la vita attiva e intensa che riesce a distogliere l’uomo dalla dolorosa constatazione dell’inconsistenza della vita. Chissà poi com’erano le partite di pallone che ispirarono Leopardi nel 1821, visto che il calcio moderno venne battezzato a Londra il 26 ottobre 1863. Poco importa. Quello che conta è che, prima e dopo la sua nascita ufficiale, il football sembra aver agito in ambito letterario su due livelli diversi, ma non conflittuali: da un lato sembra essere una delle poche giustificazioni per componimenti di carattere o aspirazione mitico-epica; dall’altro, in forza di un potenziale simbolico apparentemente inesauribile, consente di trascendere la bianco-limitata realtà del rettangolo verde – rasato però con fantasiose trame geometriche – e di andare altrove per parlare d’altro. Di sé innanzitutto, dell’infanzia, dei sogni, della malinconia della sconfitta, del rapporto col padre o della sana e irrazionale gioia di dare un calcio al pallone, trasformato a volte nelle cronache televisive, forse per solleticare la fantasia di qualche appassionato di mondi fantascientifici, in una temibile e misteriosa sfera.
A quanto pare Leopardi aveva capito tutto anche del calcio, o almeno di come questo gioco pedatorio (la citazione di Gianni Brera è propiziatoria) potesse funzionare in letteratura. Sembra naturale a scrittori, poeti e giornalisti affiancare più o meno direttamente le imprese calcistiche, i dribbling, le incursioni in area, i cross, le parate, le finte, i cambi di passo, i gol, alle mitiche gesta degli eroi omerici consumate nella polvere davanti a Troia. A Julien Green i calciatori della nazionale italiana, sconfitti dall’Argentina, sembrano «giovani statue» dai lineamenti «segnati dalla sconfitta, annichiliti e assenti come se il soffio della speranza si fosse ritirato dalla loro gola». Non minore è l’afflato epico di Carmelo Bene che asserisce, senza alcun dubbio: «La sorte di Van Basten è, appunto, quella di Achille. Come una beffa degli dèi omerici, di Zeus. Proprio perché lui usava la caviglia fino al tallone, e così ha avuto tutte queste distorsioni che lo hanno costretto a smettere». Per fortuna nel calcio, a differenza dei poemi epici, non è necessario essere belli e slanciati come Van Basten per poter invocare o rimpiangere la protezione degli dèi e potersi fregiare dell’appellativo di «divino». Anche un fisico non apollineo come quello di Maradona entra a pieno titolo nel gruppo delle divinità minori del calcio, pensato da Manuel Vázquez Montalbán, insieme a Di Stefano, Pelé, Cruyff e Ronaldo. E se, come Achille con Atena, anche Maradona non avesse goduto della protezione di un dio, perché mai avrebbe osato proferire, a commento del suo famoso gol di mano segnato nei mondiali di Messico dell‘86: «È stata la mano di Dio»?
La giustizia divina si esprime infine in tutta la sua drammaticità nella serie dei calci di rigore finali che decidono le sorti dei campi avversi. Come non riconoscervi l’ombra dell’eredità dell’ordalia medievale, del duello in cui la lancia (per noi il pallone) veniva guidata dal braccio (per noi il piede) del prescelto tra gli eserciti (per noi le squadre)? Frastornati da tutta questa terminologia bellica, quasi non stupisce che George Orwell paventasse lo scoppio di una guerra a causa di un incontro particolarmente duro tra l’Arsenal e la Dinamo di Mosca. Era «l’anno atomico 1945», ricorda il giornalista messicano Juan Villoro, ma «i suoi timori sembrano eccessivi». Senz’altro condivisa da molti la repulsione di Oscar Wilde per il football: «Il calcio è uno sport che ben si addice alle ragazzine rudi, ma non ai giovani atleti delicati». Ma chissà quanti leggono il giornale come Samuel Beckett: un veloce ripasso ai disastri della terra e un minuzioso studio della classifica dei marcatori.
C’è anche chi ha tratto lezioni di vita dall’attività calcistica. Albert Camus deve esser stato un buon portiere: «Capii presto che la palla non finiva mai dove l’aspettavo. Questo mi aiutò nella vita, soprattutto nella grande città, dove non si può credere a chicchessia sulla parola». Non c’è ombra di dubbio che in una squadra di calcio è il portiere a giocare nel ruolo dell’intellettuale, se non altro perché ha tempo per pensare. Vladimir Nabokov, un altro portiere illustre, ma distratto, vedeva se stesso «con le sembianze di un calciatore inglese», mentre se ne stava «appoggiato al palo di sinistra» intento a comporre «versi in una lingua che nessuno capiva su una terra che nessuno conosceva». Un ex portiere è anche Bloch, il protagonista di un racconto di Peter Handke La paura del portiere al calcio di rigore (trasposto in linguaggio cinematografico da Wim Wenders), ma qui il titolo promette più di quanto non dia, in termini calcistici s’intende. Anche per Bloch, comunque, avere la testa nel pallone e pensare con i piedi, che nel caso del portiere vuol dire pensare anche con i piedi degli altri, si traduce in un’attività mentale tutt’altro che semplice e lineare.
Non un portiere, ma un calciatore che correva e sudava la libertà sul campo, è stato per tutta la vita Pier Paolo Pasolini. Ma la trasposizione delle geometrie e delle trame calcistiche sulla pagina le lasciava fuori dal campo, come quando, ci ricorda Valentino Zeichen , assegnò ai suoi studenti il tema “Ringraziamento a Umberto Saba per le sue poesie sul calcio”. Insomma, al fascino atavico dell’arena calcistica non si resiste. Dall’immagine di Leopardi che elabora la sua teoria del piacere considerando anche il gioco del pallone, senza aver mai verosimilmente giocato una partita, al tifo di Saba per la Triestina fino all’irresistibile Epopea del bambino col pallone in cui Stefano Benni attraversa tutti i topoi della mitologia calcistica della sua generazione, il pallone è rotolato, è rimbalzato palleggiando da una pagina all’altra, ha disegnato parabole e palombelle nella testa piena di sogni e sul testo pieno di segni di tanti scrittori e poeti. Da bambino lo scrittore irlandese Roddy Doyle sognava di essere Charlie Cooke, l’ala del Chelsea. Non di essere come Charlie Cooke, ma di essere proprio lui. Né più né meno come il sogno di Pierre Menard, in Finzioni di Jorge Luis Borges, di scrivere il Don Chisciotte. Non il desiderio di creare un libro bello e importate come il capolavoro di Cervantes, ma di essere Cervantes e scrivere il Don Chisciotte. Sul cuoio del pallone, sulla carta della pagina, lo stesso sogno impossibile.
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