Scrivere il primo libro non è di certo impresa semplice; il rischio di incespicare nelle parole è sempre presente e anche quando esse ormai danno l’illusione di essere finalmente ferme, adagiate su fogli di carta, pur conservano il fremito della battaglia appena combattuta, nella quale colui che ne esce menomato è sempre lo scrittore. Quando, infatti, Italo Calvino scrive il suo romanzo d’esordio, Il sentiero nei nidi di ragno, nel 1947, le lodi elargite dalla critica e dagli amici dell’Einaudi non bastano a distrarlo da un certo senso di insoddisfazione e dalla consapevolezza sempre più presente che qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto, mescolandosi al nero inchiostro. Tale sensazione non abbandonerà mai davvero lo scrittore e, se gli anni immediatamente successivi, costellati dall’incontro con felici soluzioni narrative ed esperienze editoriali, si rivelano un ottimo palliativo per allontanare le proprie inquietudini, sarà proprio nel ’64, in occasione di una nuova edizione del Sentiero, che Calvino darà piena voce e contorno alla menomazione di cui già precedentemente aveva accusato le avvisaglie.
L’autore infatti sostiene che per scrivere sia dapprima necessario ricercare l’invenzione all’interno di un’immaginazione affettiva, così saldamente legata alla memoria personale da rendere inevitabile il sacrificio di parte di quest’ultima. Il rocambolesco incedere di Pin all’interno del mondo degli adulti si qualifica allora come racconto sottratto all’esperienza della Resistenza, il cui volto mitico non ritrova più la medesima concretezza, e i suoi contorni sbiadiscono al passaggio del vento rievocativo. A tale proposito, inoltre, è opportuno ricordare come alla solidità del passato partigiano, nel quale l’intervento umano nella storia era apparso a Calvino come forte e tangibile, si oppone una contemporaneità in cui tale azione sembra venuta meno, dimostrando in ultimo i propri limiti. Questo stridente contrasto, per l’uomo e lo scrittore naturalmente portato a prediligere la realtà nei suoi aspetti dinamici, in una prospettiva che esalta la centralità del cammino iniziatico dell’eroe verso un obiettivo, pone non pochi problemi e anima la conseguente ricerca di nuovi percorsi narrativi e umani. Ecco, dunque, che, di fronte a un contesto ormai mutato, il passo successivo si configura come tentativo di preservare non la realtà ormai passata, ma lo slancio, il piglio che l’avevano caratterizzata e attraverso cui era stata così profondamente incisa sul foglio e fra le pieghe della vita stessa.
Tale spietato ottimismo non manca di approdare presto a risultati concreti, la cui maggiore manifestazione risulta essere la trilogia fantastica dei Nostri antenati, composta rispettivamente da Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente. Tra questi testi, solamente nel Cavaliere l’esistenza del protagonista Agilulfo ha uno statuto problematico; eppure, anche al visconte Medardo e al baroncino Cosimo è da principio richiesta una dimostrazione della propria eccezionalità, da cui consegue la possibilità stessa di venir collocati all’interno di una specifica genealogia dell’umano da consegnare al proprio lettore. Sono sufficienti queste poche considerazioni a farci immaginare eroi fiabeschi da manuale, la cui storia, ormai conosciuta, lo scrittore si limita a riportare; ma, già col Visconte, la presagita linearità della vicenda porta con sé risultati insospettati e, laddove Medardo aveva la pretesa di essere protagonista assoluto, l’attenzione muove in realtà verso le sue due manchevoli metà. È quindi nel Gramo, tanto crudele quanto infelice, e nel Buono, caritatevole ma fallibile, che il lettore ritrova un intrinseco e vitale dinamismo, che conserva la spinta da un lato a trincerarsi in quel che di sé si crede di comprendere, dall’altro a ricercare, irrequieti, nuovi gesti in cui riconoscersi.
Questa prospettiva ci accompagna anche nella lettura del secondo testo della Trilogia. Analizzando infatti il Barone nella sua interezza, svariati critici hanno rilevato una difformità, un cambiamento di tono fra la prima e la seconda parte, arrivando ad ammettere una progressiva riduzione della godibilità della lettura, imputabile proprio all’assetto strutturale dell’opera. Tale osservazione trova una sua verità se si considera che una narrazione con l’intenzione di ripercorrere le tappe di una biografia non può esaurirsi nell’interesse per lo slancio iniziatico, ma ne deve affrontare anche le conseguenze e il suo stesso affievolirsi, che pur costituiscono i dati essenziali della vita. Da ciò ne consegue la possibilità di giudicare il Barone come un “romanzo a due facce”, nel quale allo slancio propositivo dato dall’autoaffermazione costruttiva del protagonista, si unisce l’irriducibile permanenza di alcune zone d’ombra, che anche la più strenua ed eccezionale volontà non è in grado di eliminare. Se dunque Cosimo per alcuni tratti ricorda il protagonista di una fiaba, adesso però è la fiaba stessa a non funzionare più. Se l’eroe all’uscita del bosco ritrovava amore e ricchezza, il baroncino d’Ombrosa non scende dai suoi rami, i quali per giunta, nel finale del romanzo, tornano a farsi ricami d’inchiostro lasciati dalle peregrinazioni della penna dello scrittore.
Giunti a questo punto non deve allora stupire che l’ultimo “antenato” sia proprio un cavaliere, la cui funzione narratologica è definita in virtù del suo stato di ricerca, dell’essere, per l’appunto, errante. Rispetto a una prima fase di ricerca letteraria, caratterizzata da figure che si muovono all’interno della struttura chiusa propria della fiaba, ne consegue, dunque, una successiva in cui la figura del cavaliere, con il suo carattere esplicitamente aperto, arriva a costituire il nuovo personaggio-emblema. E infatti, fra la tensione tutta intellettuale di Agilulfo e la completa fusione col mondo fisico del suo scudiero Gurdulù, c’è il giovane cavaliere Rambaldo che insegue, galoppa e percorre metaforicamente il tracciato della vita stessa. Contemporaneamente, però, gli itinerari esplorati sono tutt’altro che lineari, e, se nella tradizione folclorica i luoghi deputati apparivano fissi e segnavano le tappe del percorso del personaggio, nel Cavaliere il contesto muta assieme ai movimenti delle sue figure fino ad arrivare all’epilogo, in cui lo spazio si fa completamente metanarrativo. Conseguentemente, nell’ultima pagina del testo a un topico lieto fine fra i due amanti è preferita un’armonia dinamica e sospesa, tutta rivolta a un futuro ancora incerto, la cui rappresentazione tuttavia conserva l’idea di “slancio” cara a Calvino.
Sarà poi a partire da questo primo approdo e dall’incontro con lo strutturalismo francese e l’Oulipo che nell’enciclopedia calviniana si vedrà collocare un nuovo elemento simbolico, vale a dire la città, non più personaggio, ma spazio infinitamente percorribile. È dunque anche in quest’ottica che va osservato un libro come Le città invisibili, perché se esse si qualificano agli occhi di qualunque critico come infinitamente scomponibili e analizzabili, questo avviene anche in virtù della struttura che regge il fluire del discorso, in un percorso variamente ramificato in cui il simbolo della città si incastona come un prezioso manufatto da custodire. A questo proposito, Domenico Scarpa definisce l’opera come “un libro-arca”, il cui ultimo scopo pertanto risulta essere quello di salvare ciò che già inesorabilmente si sta incamminando verso l’estinzione, vero nucleo tematico dei dialoghi fra gli stessi protagonisti Marco Polo e Kublai Khan. E infatti Le città invisibili sono anche un testo intrecciato su un sottile reticolo memoriale, nel quale il passato non è qualcosa di chiuso e abbandonato dietro di sé, ma, al contrario, un luogo verso cui guardare e soggetto a mutamento poiché il percorso compiuto successivamente ne legittima la rielaborazione, escludendo qualunque concezione meccanica dell’atto memorativo.
Se, però, il recupero del ricordo e delle città è funzionale a delineare un processo conoscitivo, quest’ultimo non manca tuttavia di tingersi di nero, rivelando le sue zone d’ombra. La ricerca di Marco Polo, per l’appunto, avviene in negativo: egli non acquisisce nulla, non si arricchisce; l’estraneo che egli riconosce come tale rimane non possedibile, i futuri non realizzati che egli interroga rimangono rami secchi che, per lui, non potranno più germogliare, ed è una medesima sorte quella che attende Kublai Kan, destinato a diventare “emblema fra gli emblemi”. Non solo le città enumerate, bensì anche gli stessi personaggi dialoganti si riducono, dunque, a dei segni narrativi a cui non è più concesso recuperare il filo del racconto, e procedere lungo il lineare svolgimento della fiaba, ma è richiesto il passaggio attraverso una memoria che si è ormai fatta combinatoria e artificiale. I luminosi ideali di un tempo si sono polverizzati, eppure, le rimanenti luci fioche invitano a percorrere tornanti e vicoli ciechi, nella speranza di scovare i frammenti in cui il sogno è ancora intravedibile.
In questo senso, passato e futuro sono inevitabilmente intrecciati tra di loro, e se «ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere», è dalla regressione alla memoria, anche buia e artificiale, che può costituirsi un’impalcatura su cui restano sospesi fili di sentimenti e fantasie future. A questo proposito non va infatti dimenticato come Calvino scelga di ritrarre non pure e asettiche metropoli, ma luoghi vivi in quanto luoghi abitati; e le bizzarre topografie che li caratterizzano, pur essendo sempre passibili di sconfinare nella deriva labirintica, permangono nell’essere luoghi di incontri e crocevia.
Per concludere, quindi, se allo scadere degli anni ’50 si è perso il sicuro incedere di Cosimo fra i rami e tutto ciò che esso rappresentava, è pur sempre vero che il fallimento del progetto iniziale non ha scalzato nell’autore il desiderio di comunicare, di continuare idealmente l’eredità della Resistenza, scegliendo di esistere con e per gli altri. Dalle boscaglie in cui si avventurava con le Brigate Garibaldi, Italo Calvino ha imparato a camminare in città, e come la letteratura ci insegna da secoli, ciò può essere sinonimo anche di perdizione, ma tra case, palazzi, grattacieli, se dalla finestra si vede anche solo una luce accesa, vale forse la pena di provare a bussare alla porta.
Per saperne di più:
Barenghi M., Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, in «Quaderni piacentini», Nuova Serie, No. 15, quarto trimestre 1984.
Petersen L. W, Il fantastico e l’utopia. Percorsi e stratégie del fantastico in Italo Calvino con spéciale riguardo a Le città invisibili, «Revue Romane», 1989.
Sandrini G., Le linee d’una mano: Italo Calvino e la memoria ne “Le città invisibili” in «Studi Novecenteschi», vol. 18, n. 42, dicembre 1991.
Scarpa D., Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Milano, Hoepli, 2023.
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