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Come si può arrivare a Dio?

di Michela Dall'Aglio

Mio nonno era credente, praticante, viveva in una fede che mi è sempre parsa pesante. Ma non ne parlava, non la esplicitava mai; la posava sulla tavola e la tavola scricchiolava sotto il suo peso.

Inizia così Il volto di tutti i volti (Edizioni Qiqajon), un piccolo libro a metà tra narrazione e saggio, biografia e meditazione, vincitore del premio Spiritualités Aujourd’hui 2015, in cui l’autore, lo scrittore francese Alexis Jenni (vincitore nel 2011 del Premio Goncourt con il suo romanzo d’esordio L’arte francese della guerra, tr.it. Mondadori) ripercorre la propria esperienza di fede.

Jenni racconta di essere cresciuto in una famiglia permeata, da un lato, dalla religiosità del nonno, toccato dal dubbio una sola volta in tutta la vita e poi pervicacemente tornato alla sua fede pesante come un “blocco di ghisa”, fonte di “prescrizioni, divieti, precetti di vita inderogabili”, e dall’altro segnata dalla silenziosa contestazione della madre (la figlia di quel nonno), “né atea, nemmeno agnostica… semplicemente riservata”. Attraverso la figura materna si forma l’impressione che la religione sia ancora un peso, ma questa volta “un peso che non diceva nulla”. Da entrambi ricava, perciò, sia una naturale propensione alla fede, sia il desiderio di viverne una versione totalmente diversa, la volontà di “costruire una fede che non sia pesante né oscura, bensì forma di gioia; che non sia ripetizione di testi, applicazione di regole, ma fioritura di immagini attorno a una sorgente irraggiungibile …”

Cerca Dio, ne sente, come afferma ripetutamente, l’irresistibile richiamo, il gusto profondo, ma si chiede come farne esperienza, con quali strumenti, percorrendo quali vie. Così, come molti, s’immerge nella spiritualità orientale, pratica diverse discipline, tra le quali lo yoga grazie al quale sperimenterà quell’unione tra corpo, mente e spirito che sarà fondamentale nella sua ricerca religiosa. Ma scoprirà anche, alla fine, assistendo a un ufficio tibetano, che quel mondo non gli appartiene, che non avrà mai gli strumenti per impossessarsene al punto da essere qualcosa di più che uno spettatore sensibile e appassionato. E comprende di dovere cercare la propria strada nel suo mondo e nella sua cultura, come d’altra parte diversi anni fa lo stesso Dalai Lama aveva raccomandato. Rispondendo alla domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dell’attrazione crescente esercitata dal buddismo sugli occidentali, il Dalai Lama diceva di non conoscere alcuna persona che avesse abbandonato la propria tradizione e fosse felice, invitando esplicitamente a indagare innanzitutto nella propria cultura, dato che la verità e la spiritualità non hanno confini, non sono monopolio dell’una o dell’altra tradizione.

Jenni cerca, allora, se e dove, nel mondo cristiano cattolico, sia possibile un rapporto con il divino, fatto di serenità e gioia, come quello che aveva visto in Oriente, e gli sembra di coglierlo nella preghiera dei monaci e delle monache. Nei loro volti, racconta, scorge finalmente una fede che non rinuncia alla vita qua e ora in cambio di una promessa di vita eterna futura – la vita eterna, sostiene tra l’altro, se esiste deve essere già qui, deve cominciare già qui –, una fede che non è sottomissione né enunciazione di norme, ma vera “annunciazione”.

Come si può arrivare a Dio? Come è possibile sentirsi pienamente immersi in qualcosa, o meglio in qualcuno, che non si può toccare, sentire, vedere, ma ci attrae con un richiamo che è impossibile ignorare, pur senza sapere neppure se esiste veramente? A questo punto, questi interrogativi che hanno accompagnato lo scrittore francese per tutta la vita, cominciano a trovare una risposta che gli sembra avere senso: la strada per arrivare a Dio passa dal corpo e dai suoi sensi.

Quella che Jenni delinea è la sua personale via di accesso al senso del divino, non è la sola, naturalmente, ed è interessante non solo come lo sono tutti i racconti sinceri di esperienze vissute, ma anche per il ruolo determinante e interamente positivo che assegna al corpo, così a lungo penalizzato nella religione cristiana – e con pessime conseguenze –, anche per chi aspira a una vita spirituale. L’identità del corpo e dello spirito, di cui parla Alexis Jenni, in realtà appartiene al più autentico pensiero ebraico e cristiano, ancora libero dall’influenza del pensiero greco, egemone nel momento in cui il cristianesimo si diffondeva nel mondo e poi dominante per secoli sull’Occidente. È greca, non cristiana né tantomeno ebraica, la radice della visione del corpo come fonte del male e prigione dell’anima, e pertanto condannato e mortificato. Il corpo non è un fardello “pesante, inutile, oppure sofferente” come è stato dipinto da occhi malevoli o ingannati da ombre oscure del tutto estranee al cristianesimo reale, che si fonda proprio sulla risurrezione del corpo e non sull’immortalità dell’anima, come l’antica filosofia greca. “Essere ossessionati dal corpo sofferente, il proprio, quello degli altri, quello di Cristo, rende difficile l’accesso alla gioia”, sostiene Jenni, mentre Dio è gioia pura e libertà. E se tanto non bastasse, soltanto il corpo è “quell’intersezione di due mondi”, quell’unico punto in cui umano e divino possono incontrarsi e riconoscersi, amarsi o respingersi.

Alexis Jenni racconta, poi, come attraverso i sensi sia possibile fare in qualche modo esperienza di Dio, intersecare il divino, e comincia dal gusto, un “senso povero”, ma importante perché proprio seguendo il piacere che traiamo dalle cose, tracciamo il percorso della nostra vita. Per quanto lo riguarda, afferma: “Ho il gusto di Dio”, e questa inclinazione naturale lo ha portato a cercare, con tutto se stesso, di liberarsi dalla zavorra dell’esempio del nonno per conservare la fede grazie a un modo diverso di interpretarla e di viverla. Parla, poi, della vista che, pur essendo il nostro senso principale, è irrilevante per la fede, giacché “dello spirituale non si vede mai nulla”. Ma d’altra parte, come ci ha dimostrato la scienza confermando l’intuizione che Saint-Exupery mette in bocca al Piccolo Principe, l’essenziale è invisibile agli occhi, e alla vista sfugge completamente la vera natura della realtà. Essa è importante per orientarsi nel mondo materiale, ma nel mondo dello spirito contano molto di più percepire e intendere.

A questo proposito, l’autore racconta di un’esperienza vissuta in una piccola chiesa romanica, raggiunta dopo un grande sforzo compiuto in bicicletta: nell’assoluto silenzio, sente che “questo” – così chiama il trascendente ancora indicibile – che cerca è proprio lì, presente, vivo e riconoscibile. E capisce che il suo volto, se gliene si vuole dare uno, non può essere altro che “il volto di tutti i volti”. È vero, Dio non ha un volto, ma il suo volto è quello di tutti gli uomini ed è riassunto nell’unico volto di Cristo “che assomiglia a tutti e a ciascuno”. In quel momento percepisce Dio come assoluta benevolenza per ogni vita e per ogni cosa, oceano di benevolenza, davanti al quale si sente sommerso da un’infinita riconoscenza e gratitudine per quella meravigliosa invenzione che è la vita.

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