Con Dante in esilio (Nicola Bultrini, Ares, 2020)
Prefazione
La poesia, cioè la vita dalla morte, né più né meno
di Andrea Monda01
Questo libro parla dell’inferno. Del resto parla dell’arte e della letteratura e quindi non potrebbe evitare di farlo, se vuol essere onesto. E l’autore, il poeta (e tante altre cose, avvocato, musicista…) Nicola Bultrini è un uomo onesto. Al punto che mette subito in chiaro le cose e il libro si apre con questa citazione di Antonin Artaud: «Nessuno ha mai scritto, scolpito o dipinto, modellato, costruito, inventato, se non per uscire letteralmente dall’inferno». Artaud (e Bultrini) hanno ragione: ogni storia è storia di salvezza. I nostri antenati, gli uomini primitivi, poco tempo fa, se confrontiamo la distanza che ci separa da loro con il tempo di presenza dell’uomo sulla terra, si riunivano intorno al fuoco e raccontavano storie. E se non le raccontavano le disegnavano, come dimostrano le struggenti pitture rupestri di diecimila anni fa che rappresentano la caccia al bisonte o altre simili avventure. Nel suo saggio L’uomo eterno ci si è soffermato con il solito acume G.K. Chesterton su quelle pitture, osservando che l’uomo è l’unica creatura a essere in pari tempo creatore. Quelli erano racconti di storie di salvezza: chi tornava a casa, nella caverna, sano e salvo, raccontava di aver visto la morte negli occhi e di esserle sopravvissuto. A metà degli anni ’90 Emanuele Trevi ci ha ricordato che la letteratura può essere vista come delle «istruzioni per l’uso del lupo», l’inferno per lui è il lupo, quello smarrimento che assale l’uomo, «gettato» nel mondo, a fare i conti con il mistero della propria esistenza. E con «smarrimento» già ci avviciniamo al protagonista di questo saggio, un uomo che nel mezzo della sua vita (cioè ogni giorno) ha smarrito la «diritta via» e si trova nella selva oscura, letteralmente all’inferno.
Ma ripartiamo da quegli uomini primitivi alle prese con il bisonte, il lupo e l’inospitalità di un pianeta che era tutto una selva oscura. Di quello smarrimento essi fecero racconto e ancora oggi i loro figli e nipoti fanno lo stesso raccontando la vita che viene dalla morte, l’avventura di chi ha attraversato la morte ed è tornato indietro per raccontarla, da Omero a Melville fino a Tolkien gli uomini cantano quello smarrimento facendosi forza contro l’assurdità del male proprio con il canto, perché sentono che quel mondo in cui si trovano a vivere, senza preavviso né preparazione, non è dato una volta per tutte in modo inevitabile e ineluttabile, senza via di uscita. «There must be some way out of here», l’incipit di All along the watchtower di Dylan ripete lo stesso concetto: un mondo altro è possibile, non siamo fatti solo per stare al nostro posto, ma per cercare ancora, altrove. Un altro verso tra i più famosi di Dylan, Martin Scorsese l’ha usato come titolo per il documentario che gli ha dedicato, suona «No direction home», canta l’esilio come condizione intrinseca dell’esistenza umana. Nella lettera del 30 gennaio 1945 al figlio Christopher, lo scrittore inglese J.R.R. Tolkien afferma che «sicuramente c’era un Eden su questa infelicissima terra. Noi tutti ne abbiamo nostalgia, e lo intravediamo costantemente: tutta la nostra natura, nella sua forma migliore e meno corrotta, più gentile e più umana, è impregnata della sensazione di esilio». L’esilio è il tema di questo saggio, esilio come volto dell’inferno insieme all’altra faccia, la prigionia. Non ho alcuna competenza per dirlo, ma sono convinto che la parola «es-ilio» viene da Ilio, il nome antico di Troia: provenire, essere lontani (ex-) da Ilio. Tutto comincia da lì, per la poesia occidentale, da quelle spiagge bagnate dal Mediterraneo dove l’Asia e l’Europa si incontrano, sotto le mura della città di Priamo. I primi due grandi poemi della letteratura raccontano quella vicenda, del viaggio di andata e ritorno e in mezzo la gloria, ma anche l’orrore della guerra, l’inferno. Non è un caso che uno dei protagonisti dei due poemi, Ulisse, il viaggio all’inferno, nell’oltretomba, lo farà per davvero, così come Enea, il primo vero «esule», nell’Eneide di Virgilio. E Dante, con l’aiuto di Virgilio, parte proprio da lì, dal viaggio all’inferno che però non smentisce (ma anzi prelude) l’altro viaggio, non la discesa ma l’ascesi al cielo, «a riveder le stelle». Sempre Tolkien in un’altra lettera del 1956 scrive: «Io sono cristiano, e cattolico romano, e quindi non mi aspetto che la “storia” sia qualcosa di di verso da una “lunga sconfitta” – benché contenga alcuni esempi e intuizioni della vittoria finale».
Questo è un libro che «sa di vittoria», ma non comeil napalm di mattina nel delirio della guerra del VietNam raccontata da Coppola in Apocalypse Now (altro film che, scaturito da Cuore di tenebra di Conrad, racconta proprio l’orrore eretto a sistema), ma anzi al contrario: una vittoria che è tutt’uno con la pietà. È la vittoria della «pietà che non cede al rancore», per dirla con il buon ladrone di De Andrè, della pietà di Achille per il vecchio padre Priamo che piange in ginocchio per il corpo del figlio, della pietà di Omero che apre il poema con l’ira di Achille ma lo chiude con i funerali di Ettore, della pietà di Enea che porta con sé, sulle sue spalle, il passato, Anchise, ma si apre al futuro sapendo che anche l’esperienza dell’esilio può avere un senso, un riscatto.
C’è un orizzonte religioso e precipuamente cristiano che fa da sfondo a questa indagine che Nicola Bultrini conduce «con Dante in esilio», sulla «poesia e l’arte nei luoghi di prigionia», che può essere riassunto nella famosa definizione del lavoro del narratore secondo la scrittrice cattolica Flannery O’Connor: descrivere l’opera della grazia in un territorio per lo più occupato dal diavolo. E c’è quindi una precisa visione dell’arte e della poesia che non sono e non potranno mai essere un fatto esclusivamente estetico e formale, ma anzi esprimono la spiritualità dell’uomo quando l’uomo si (es)pone alla visione del mondo e della vita, e quindi ancor più quando l’uomo è posto di fronte al mistero ineluttabile del suo destino. Se ogni storia è storia di salvezza, allora l’arte e la poesia possono rivelarsi strumenti di riscatto della dignità, rivendicazione dell’umanità di ogni singolo individuo. Ciò è stato vero anche nelle tragedie più cupe, e tanto più vero è anche oggi nella nostra travagliata e nevrastenica attualità, perché il lupo ogni giorno esce dalla sua tana e non smette mai di aggirarsi nel mondo e solo un canto, una parola, può placarlo.
C’è infine un motivo anche biografico e familiare che lega l’autore al tema dell’esilio e della prigionia, lo si intuisce nelle ultime pagine, ma già prima nella forza che vibra in ogni riga di questo saggio che non è solo una bella prova letteraria, un’esercitazione delle capacità di ricerca e di racconto dell’autore, ma un mettersi in gioco autentico, senza sconti, intrecciando un corpo a corpo con gli autori che si incontrano e con i lettori che vorranno accettare la sfida della lettura di un libro che come tutti i veri libri finisce per toccare e trasformare chi ne incrocia il cammino.
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