“Credo ai miracoli”, il libro. Intervista al dott. Elpidio Pezzella
Intervista al dott. Elpidio Pezzella, autore del libro “Credo ai miracoli”
Credo ai miracoli
Perché Dio a volte risponde ed altre no? Perché alcuni vengono miracolati ed altri lasciati morire? Perché quel che è impossibile accade e quel che è normale no? Sono questi alcuni degli enigmi dell’esistenza, che possono tormentare chiunque. E da essi è partito il dott. Elpidio Pezzella nel suo ultimo libro “Credo ai miracoli”, edito dalla casa editrice fiorentina BE Edizioni ed in esposizione alla Fiera internazionale del libro di Torino. Noi lo abbiamo incontrato e siamo partiti proprio da questi interrogativi.
Ci dica subito la risposta?
Innanzitutto, il tema è forte. E non tutti sono disposti a credere. Ci sono molteplici ragioni per cui il miracolo è finito in soffitta. Anche se potrebbe far desistere qualcuno dal leggere il libro, la risposta più vera che ho, e per questo tanto condivisibile quanto inaccettabile è: “Non lo so”. A noi il compito e la fede di gridare contro ogni avversità.
E allora, cosa nasconde il libro?
Il tormento quotidiano è dovuto al fatto di doverci confrontare sovente con una malattia. Ed è per questo che siamo maggiormente colpiti da un malato guarito che da un peccatore redento. Tendiamo invece a enfatizzare quel che riguarda il nostro corpo, perché la verità è che nessuno vuole soffrire. Più la medicina progredisce più noi non vogliamo contemplare l’eternità, ma preferiamo allungare i nostri giorni sulla terra. In alcuni ambienti spirituali il tema della salute e della guarigione è stato purtroppo legato oltre il dovuto al tema del peccato e dell’allontanamento da Dio. In questo modo salute e salvezza sono diventati termini interdipendenti, la malattia è vista come una degenerazione causata dal peccato e di conseguenza ogni tentativo per guarire, oltre la preghiera e la fede nella guarigione, considerato legittimo.
Lei non cerca di condurre il lettore in un percorso mistico, tutt’altro.
Temo che a molti non piacerà questo scritto, particolarmente a chi ha già dovuto porre una lapide sulla preghiera inesaudita per un suo congiunto, a chi si è visto alzare il cartello “Non c’è più niente da fare”. Presento un percorso, che è anche, e soprattutto, il mio, di chi ha guardato in faccia la morte, di chi ha lottato e poi ha alzato bandiera bianca, di chi aveva un sogno e si è ritrovato a vivere un incubo. Sì, ho conosciuto la polvere, la disfatta, ma mai la sconfitta, anche quando ero pronto a dire l’ultima parola. E ho deciso di raccontarlo perché sono altrettanto tanti quelli che hanno bisogno di alimentare la speranza, di credere che fino a che c’è un alito di vita dobbiamo combattere.
Non parla solo di cose autobiografiche, ma racconta delle storie.
Ad alcune mie storie ho affiancato nove racconti che direttamente o indirettamente ho toccato con mano. Si tratta di fatti veri, certificati e documentati, di cui mi sono fatto voce amplificante. Di certo sarebbero potuto essere molte di più, ma come i redattori dei vangeli (perdona il paragone), ho lavorato a una raccolta di testimonianze, selezionate tra le tante conosciute in prima persona, con il solo intento di raggiungere il maggior numero possibile di persone. Sarà il singolo lettore a giudicare l’opportunità e la validità della scelta fatta.
In un modo o nell’altro, per esperienza propria o di un congiunto, prima o poi la vita ci mette di fronte qualche dura battaglia nel dover affrontare una malattia. Ci si ritrova così a fare i conti con la diagnosi di una malattia rara o di una certa gravità, durante la quale dai fondo a tutta la tua fede invocando un miracolo. Con il passare del tempo, il progredire della malattia mina le nostre certezze e cominciamo a chiedere perché Dio non operi, fino a dubitare della Sua esistenza. Ho conosciuto tante storie drammatiche che sentivo il bisogno profondo di volgere un pensiero a chi si sta spendendo al fianco di un congiunto disabile, paralizzato, a chi sta profondendo il meglio di sé a chi è bisognoso di assistenza… o a chi ha visto già spegnersi un familiare, un amico e non riesce ad accettarlo ancora. Il libro ha visto la sua realizzazione proprio in questo lungo periodo di pandemia mondiale, durante la quale si è percepita una così pressante ricerca dell’Ineffabile. E più la ricerca andava avanti, più diventava chiaro che si era sempre e soltanto sulla soglia del mistero.
Lei parla di un cammino nel deserto…
La malattia o un qualsiasi altro bisogno immanente può appunto paragonarsi a un passaggio nel deserto. Nessuno è indenne da una traversata che segna per sempre il proprio cammino. Si è soliti immaginarlo come a un lungo viaggio di espiazione, tuttavia il deserto è luogo di scelta, di formazione e preparazione, spesso luogo di rifugio, altre volte terra di fuga. A volte condotti, altre costretti, di rado una scelta, spesso una necessità non considerata. Il deserto come meta richiede che si decida di partire o di allontanarsi volontariamente. Si tratta di una temibile landa selvaggia, un luogo di combattimento. Se pensiamo ad esso come al luogo che la lingua ebraica definisce midbar, ossia “senza parole”, allora ne siamo ben lontani! Perché se un suo aspetto è quello di luogo del silenzio, tutto ciò che ci circonda ci dice l’esatto contrario. Nel reale siamo avvolti dal trambusto e rumori di ogni genere, e quando ce la caviamo siamo coperti dalla musica o dall’audio di un monitor. Nel virtuale siamo comparse consapevoli, raramente protagonisti, dei social che nonostante la solitudine non ci lasciano percepire il silenzio. Il caos è tale che facciamo oltremodo fatica a percepire un silenzio interiore. Per questo il deserto è anche sinonimo di ritrovare se stessi.
Cosa auspica per il lettore?
Al di là dei diversi hashtag che ci hanno accompagnati in questi due anni (#celafaremo, #restoacasa, #distantimauniti), spero di riuscire a infondere, anche se in minima parte, una dose di speranza, e, se non speranza, di determinazione a non mollare, perché dopo tutto e nonostante tutto la vita resta un miracolo da vivere quanto più appieno possibile.
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