Abbiamo molto parlato negli ultimi due o tre anni del longform e di come la scrittura su Internet, e in particolare quella forma di racconto della realtà che sta al confine tra letteratura e giornalismo, avesse trovato una nuova prateria in cui espandersi, grazie soprattutto all’assenza di gabbie e di limiti di lunghezze che siti e riviste on line consentivano. All’incirca nello stesso periodo, però, abbiamo sperimentato come la sproporzionata offerta di contenuti e, più in generale, tutte le interessanti distrazioni che ci capitano davanti agli occhi, rendesse complicato se non impossibile concentrarsi per il tempo, spesso lungo, necessario a leggere questi pezzi di venti, trenta o quaranta cartelle. Quante persone leggono un longform dall’inizio alla fine?
In queste settimane mi sono capitate davanti agli occhi due cose che mi hanno fatto riflettere sul presente e il futuro di questo formato: la prima è l’incredibile pezzo di giornalismo letterario fornito da Gay Talese sul New Yorker, ovvero la storia del voyeur nel motel; la seconda è il reportage di Carrère da Calais, uscito prima su giornali e magazine di mezza Europa, da noi sulla Lettura, e poi pubblicato a stretto giro da Adelphi nella collana Biblioteca minima. Ho letto il pezzo di Talese prima sul sito del New Yorker, poi mi sono deciso a stamparlo, poi mi è capitato tra le mani una copia della rivista e l’ho finito lì, ma è stata un’esperienza di lettura scomoda, a tratti faticosa, nonostante la bellezza del pezzo. Ho letto A Calais, di Carrère, invece, sul libricino stampato da Adelphi, me lo sono portato appresso in tasca, pensando che fosse un tascabile nel senso più giusto del termine, e mi è piaciuto tenerlo in mano come oggetto, ho fissato parecchie volte la bella copertina (foto di Jérôme Sessini), e l’ho finito dopo due o tre viaggi in metro, senza nessuna fatica. Ho pensato: non è che ci siamo sbagliati sulla forma lunga? E che l’editoria tradizionale potrebbe puntare di più su questo formato che si presenta da un lato, per la sua permanenza nella nostra memoria, assimilabile alla letteratura dei romanzi, dall’altro, per la sua comodità, la velocità di lettura, la sua trasversalità rispetto ai generi, è decisamente congeniale all’era delle grandi distrazioni? In Italia, una collana come Biblioteca minima esiste solo da Adelphi. Ne ho parlato con Matteo Codignola.
Il cosiddetto longform è un formato molto amato da Adelphi ancora prima che si chiamasse così (o che diventasse una parola di uso comune), sia dal punto di vista della lunghezza (la Biblioteca minima) sia da quello del genere (il giornalismo letterario, il lyric essay, la creative non fiction che dir si voglia). Mi potresti spiegare le ragioni storiche di questa predilezione?
Non è una predilezione astratta, nasce dalla pura constatazione che da vari anni i testi più interessanti non rientrano nella narrativa di finzione, ma in quella di non finzione. E hanno spesso un formato che non coincide con quello tradizionale del libro. Per questa ragione, molto concreta, abbiamo aperto la Biblioteca minima. L’idea – che peraltro non riguarda solo le cose scritte oggi, se si pensa che il primo libro della collana era un taccuino inedito di Nietzsche, il terzo un antichissimo testo sanscrito – era forzare un po’ i confini del pubblicabile: provare a trasformare in un libro testi nati magari altrove, che si riteneva, secondo noi in modo talvolta meccanico, non potessero uscire dalla loro forma o dalla loro sede originale.
Esistono editori (italiani e non) che considerate un modello o un concorrente rispetto a questo tipo di collana?
Trovo le pretese di primogenitura o di esclusività leggermente ridicole, ma al momento della sua uscita una collana come Minima non mi sembra esistesse. In Italia c’era stato un esperimento singolare come quello dei Millelire, che comunque partiva da un presupposto diverso. E in Francia, Allia faceva libri molto brevi prima di noi. Però erano casi isolati. Adesso notiamo che qualcun altro ci ha seguito. Come si diceva nell’Olocene, abbiamo alcuni compagni di strada, diversissimi fra loro. Penguin, ad esempio, o Minuscula, uno straordinario piccolo editore spagnolo che fa libri molto simili ai nostri. È un piacere, ed è anche molto utile.
Pensi che per cose simili a quelle pubblicate nella Biblioteca minima internet possa essere il medium giusto?
Non lo so. Da questo punto di vista, internet è un po’ una delusione. L’idea, qualche anno fa, era che grazie alla drastica riduzione dei costi di produzione e alle enormi potenzialità del mezzo potesse nascere una narrativa – di qualunque genere – molto diversa da quella tradizionale. La aspettavamo tutti, ma con qualche luminosa eccezione non è arrivata. Non ancora, almeno. Un po’ perché si è capito che il risparmio è un’arma a doppio taglio: agevola l’accesso, certo, ma tende a cancellare, o a ridurre al minimo, il controllo editoriale. Il che non rappresenta, almeno secondo me, un valore aggiunto, anzi. Poi, a un piano se vogliamo più alto, si è capita – credo – una cosa importante: quando è buona, la scrittura ha una forza, un’energia, una tensione rispetto alle quali il ricorso ad altri media, più che un aiuto, si configura come un’interferenza, un disturbo sulla linea fra chi scrive e chi legge. Tutto ciò in un certo senso costringe il discorso su queste cose a girare in circolo – o a ripartire da zero.
Che senso ha pubblicare un libro come A Calais dopo l’uscita su magazine e inserti di mezza Europa?
Il senso è tutto nella forma. Un libro è questo prima di tutto – una forma, una cornice diversa da qualsiasi altra. Chiude, limita, struttura – e trasforma. È un fatto fisico anche un po’ curioso. Provate a leggere un testo su uno schermo, su una bozza, o anche su un giornale. E poi provate a leggerlo su un libro. Qualcosa, cui per fortuna è difficilissimo dare un nome, cambia. Non so se quell’effetto è un incantesimo, o una banale illusione ottica: ma è comunque il movente profondo del lavoro editoriale. Poi ce ne sono molti altri, più superficiali. Rispetto a questo, il fatto che un testo sia disponibile altrove è irrilevante. A parte che oggi tutti i testi sono sempre disponibili altrove, volendo.
Biblioteca minima è una collana su cui state facendo ragionamenti alla luce di quello che viene pubblicato in Rete? Considerate il longform digitale uno stimolo? Cercate in qualche modo di differenziarvene o di prenderlo come uno spunto?
Credo di avere già risposto, più o meno. Ma, nonostante quello che ho detto, nessuno di noi è – se non in forme estremamente moderate – un luddista. Cerchiamo testi che ci convincano, e se li troviamo, non facciamo domande sul pedigree. Ad esempio, è possibile che un giorno alcuni degli – straordinari – post che Charles Simic pubblica sul suo blog vengano raccolti in volume. E questo nonostante presentino tutte le caratteristiche di leggerezza e occasionalità generalmente attribuite alla scrittura digitale. Ma il bello di tutto quello che diciamo su questo mondo ancora nuovo è che ogni posizione si trasforma, appena enunciata, nel suo contrario. O no?
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