Rebecca libri

Elogio (ed elegia) della punteggiatura

di Carles Álvarez Garriga

Se Lei, che con tanta amabilità solca queste linee con gli occhi – nel caso legga in braille diremmo “con i polpastrelli” [ovvero con la punta delle dita (di una, di due o di tre, non lo so)], se Lei, dicevo, che con un certo disagio prodotto dall’accumulazione di incisi, scorre queste parole a tutta velocità e, terminato il paragrafo, considera questo un modo di cominciare troppo arduo e ciononostante è arrivato fino a qui, possiamo rallegrarci: «Dunque non tutto è perduto!». Tuttavia è molto improbabile che un correttore/trice conceda il suo nihil obstat a un frammento introduttivo in cui, se non mi sbaglio… compaiono disseminati qua e là tutti i segni di interpunzione che la nostra grammatica ammette.

Con lo zelo proprio della professione così come la insegnano (?) ora, si direbbe che la correzione dei testi consiste nel tappare i pori lavorando sugli originali con una carta vetrata uniformante, grazie alla quale tutte le traduzioni suonano uguali e tutte le prose presentano lo stesso martellìo: tac-tactac, tac-tactac, tac; salto di paragrafo; tac-tactac, tac-tactac, tac; eccetera. Si potrebbe pensare che magari questa passione per la frase striminzita e il paragrafo minuscolo abbia qualcosa a che vedere con l’invenzione retorica di Alexandre Dumas, che saltava come un canguro perché si faceva pagare per pagina e la spugnosità visiva gli risultava a conti fatti più redditizia, e invece no; chiamatemi paranoico (ne ho tutta l’aria!) ma mi sembra che l’annientamento calcolato di alcuni segni di interpunzione faccia parte della congiura internazionale profetizzata da Adorno in Interpunzione, ovvero:

Fa parte di ciò la paura dei paragrafi che vanno avanti per pagine, prodotta dal mercato; e dal cliente, che non vuole affaticarsi e al quale per guadagnarsi la vita si sono adattati dapprima i redattori e poi gli scrittori, finché alla fine hanno inventato per il loro adattamento ideologie come quella della lucidità, della secchezza obiettiva, della concisa precisione. In questa tendenza però linguaggio e cosa non sono scindibili. Col sacrificio del periodo il pensiero si accorcia il fiato. La prosa viene fatta decadere a livello di frase protocollare, figlia prediletta dei positivisti, alla semplice registrazione di fatti, e mentre la sintassi e l’interpunzione si negano il diritto di articolarli e di formarli, di criticarli, già la lingua si adatta a capitolare […]. Comincia con la perdita del punto e virgola e finisce col frastornamento ratificato da una ragionevolezza purificata di ogni aggiunta. [Theodor W. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi 2012, pp. 39-45, trad. it. Enrico di Angelis]

Mi intrattengo con questi rompicapi mentre sto nella biblioteca pubblica all’angolo e ricordo con disperazione e nostalgia che quando la biblioteca venne trasferita nel nuovo edificio, i responsabili si sbarazzarono dell’Enciclopedia universal ilustrada europeo-americana, la Espasa di trentanove tomi, per via della sua mole eccessiva. Oggi ho fissato la mia attenzione su quattro fotografie esposte nel pannello all’entrata. In esse compaiono, da sinistra a destra e da sopra a sotto: nove persone che fingono di star ripassando appunti (nessuno studia con le spalle così dritte); una vecchina stravaccata su una poltrona che simula la lettura di un giornale, e sullo sfondo un ragazzo che sceglie dei CD; due individui che chiacchierano mentre navigano sui propri portatili e, attenzione, un bimbo seduto per terra come i sioux, che legge! Lo guardo con più attenzione: in grembo non ha un libro ma un album di calciatori; puro realismo sociale. (Ora capisco perché ogni volta che mi alzo per andare a cercare un volume da consultare tutti interrompono istantaneamente di scrivere messaggi sui blackberry silenziati e mi guardano sconvolti. Cosa credono, che io sia un pornografo incontinente? È meglio che me ne vada prima che mi denuncino alla Bibliotecaria Superiora, lei che si lamenta tutto il tempo perché, cavolo, la stanno distraendo e non può finire il sudoku).

Quando arrivo a casa e guardo i miei scaffali, mi domando che faranno i miei figli con questi libri quando io non ci sarò più: forse architetture, come quei bambini di un romanzo di Carpentier, che li utilizzavano per costruire fortezze e ponti levatoi, o magari diorami o presepi sfruttando le idee della serie Biblios dell’artista canadese Guy Laramée? Avrò la prova del nove sull’erosione della cultura: chiamo mio figlio maggiore, disegno un punto e virgola rotondetto in un foglio e gli domando se sa che cos’è. È al primo anno di secondaria e si è molto offeso. (Chiaro che lo sa da quando è piccolo perché quando era appena un moccioso giocava con la tastiera di una vecchia macchina da scrivere e mi domandava a cosa serviva ogni simbolo. Una mattina, stavamo facendo tardi a scuola, gli dissi: “Mettiti le scarpe, punto!” e mi rispose: “Beh, non penso proprio di mettermele, punto e virgola”). Gli chiedo se lo usa molto, questo segno. A destra del punto e virgola chiude una parentesi: “Serve per accentuare l’ironia in una mail ;)”. To’, riciclo tipografico!

Allora gli dico che è un’invenzione molto sottile, un semitono di valore insuperabile quando c’è da trascrivere un’intervista, e com’è e come non è, gli racconto che una volta Ramón Gómez de la Serna (quello che diceva che la morte è il punto e virgola dei credenti) uscì da un gravissimo stato di coma e, quando gli domandarono come si sentisse, mormorò: “Il coma non uccide, e nemmeno il punto e virgola; l’unico che uccide è il punto finale” [intraducibile gioco di parole: coma in spagnolo significa virgola, ndt]. Che, utilizzando lo stesso registro metaforico, Kurt Vonnegut disse che Hemingway si era suicidato mettendo il punto finale alla sua vita perché “la vecchiaia assomigliava troppo a un punto e virgola”. Gli ricordo anche che Tomasi di Lampedusa giudicava Stendhal uno scrittore prodigioso, “capace di riassumere una notte d’amore in un punto e virgola” e che anche l’uso della virgola ha avuto i suoi maestri: John Barth segnalava che Donald Barthelme con una semplice virgola poteva sconvolgerti; la virgola con la quale lo esemplificava era questa: “Visitai l’asilo nido di mio figlio, una volta”. Mi rendo conto che lo sto annoiando. Deve essere della stessa opinione che Gérard Genette, in uno dei suoi minidizionari delle topiche, sintetizzava così: “Punto e virgola: colmo della volgarità; opporsi sempre”.

Ovviamente, lascerò al margine il tema dei trattini e gli eviterò la citazione di quello che per me è uno dei migliori incisi della poesia castigliana: si trova in Albada, di Jaime Gil de Biedma, quando il poeta si sveglia melanconico e pensa che nei mercati delle Ramblas già stavano per accumularsi i fiori recisi “e canteranno gli uccelli – quei cornuti –/dall’alto dei platani”. (Neppure tesserò le lodi della prosa che si espande mediante parentesi consecutive ((non concentriche, come queste)) e che a uno studioso messicano ricordavano catene di salsicce). Mi piacerebbe raccontargli, tuttavia, che in una occasione il saggio José María Valverde conferì una nota di merito a uno dei suoi alunni di Storia delle idee e che, quando lo studente ringraziò per la nota ma aggiunse che forse aveva esagerato, gli rispose: “Nel suo compito c’era un punto e virgola talmente ben posizionato che era degno, anche solo per quello, del voto più alto”.

Come interpreteranno i giovani d’oggi la frase attribuita a Oscar Wilde secondo la quale l’irlandese si lamentava di aver passato un giorno orribile? Ebbe bisogno di tutta la mattinata per decidere che doveva includere una virgola in un paragrafo del libro che stava scrivendo, e tutta la sera per decidere che doveva eliminarla. Come riescono a scrivere con pollice e indice in tastiere così piccole e così in fretta? Sono i veri cyborg, gli uomini-macchina, e il contatto con la carta tende a stressarli. Perché dovrebbero aver bisogno di queste anticaglie? E non siamo apocalittici: i classici greci e latini non disponevano della punteggiatura né di libri come i nostri e non gli fece certo male.

Senza voler essere troppo pedante, vorrei raccomandare in questo spazio camuffato la bellissima trilogia teorico-aneddotico-autobiografica di Genette, composta da Bardadrac (2006), Codicille (2009) e Apostille (2012), tutti e tre apparsi presso la casa editrice parigina Seuil.

Ah, e non dimenticate di dare un’occhiata all’opera di Guy Laramée.

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