Francesco giullare di Dio (Raniero Cantalamessa, Edizioni Francescane Italiane, 2021)
C a p i t o l o I
DELLA VITA DEL TROVATORE GUGLIELMO DA LISCIANO, DETTO “RE DEI VERSI”
Il mio nome è Guglielmo Divini. Sono originario di Lisciano, una località nei pressi della città di Ascoli. Il borgo vanta origini romane risalenti agli anni della guerra sociale. Da poco l’imperatore Federico Barbarossa lo ha posto di nuovo sotto la giurisdizione del vescovo-conte di Ascoli, Rinaldo I.
I frati conoscono già quale era la mia professione di un tempo. Ero un trovatore, o un troviere, come dicono qui nel Nord. Componevo i miei versi in lingua provenzale come era costume a quel tempo, ma in alcune occasioni usavo il volgare della gente del posto, e li declamavo sulle note di melodie conosciute dalla gente o composte da me. Oltre i versi scritti da me, a volte cantavo quelli di trovatori provenzali. I miei preferiti erano Guglielmo IX, duca d’Aquitania, nonno di Eleonora d’Aquitania, la madre di re Riccardo detto Cuor di Leone, inoltre Giraut de Borneil e Raimbaut de Vaqueiras.
Ci accompagnavamo con uno strumento a corde, che, a seconda dei luoghi, veniva chiamato cetra, viola o anche viella. Andavo per diverse contrade, in occasione di tornei cavallereschi, di feste religiose, di fiere, di matrimoni, o dell’arrivo di qualche personaggio importante. La festa più attesa da me era la giostra che si svolge nella mia città di Ascoli ed è chiamata “La Quintana”. Essa rievoca la lotta vittoriosa contro i Saraceni che due secoli prima avevano invaso il Piceno.
Qualche volta, come appunto nella Quintana, il contenuto dei nostri versi era di natura eroica: cantava le imprese dei cavalieri cristiani nella lotta contro i Saraceni. Ma il tema più ricorrente era il “fin’amor”, o l’“amor cortese”. L’oggetto dell’amore era una donna sposata, a cui l’amante esprimeva la sua devozione e sudditanza. Questo ci obbligava a esprimerci per allusioni e sottintesi. Il punto d’arrivo era rappresentato da un “casto bacio”. Ma a volte si era ben più arditi. Tutti noi trovatori conoscevamo i versi infuocati che la famosa trovatrice provenzale Beatriz, contessa di Dia, scriveva al suo innamorato segreto, e a volte li volgevamo al femminile: «Mia bella e dolce amica, / quando verrà l’ora che sarete mia? / e una notte con voi restare / per darvi un amoroso bacio!». Il legittimo marito appariva quasi sempre un uomo rozzo e senza cuore, incapace di capire la bellezza e le virtù della sposa.
Come tutti quelli della mia professione, disprezzavo i jongleur, i giullari. Essi non erano poeti come noi, ma giocolieri e a volte soltanto dei buffoni. Si esibivano nelle feste, ma anche nei giorni feriali, nelle piazze, nei crocicchi delle vie, dovunque c’era qualche concorso di gente. Alcuni erano deformi e facevano della loro disgrazia motivo di curiosità. A fine spettacolo, chiedevano la carità ai presenti, facendo girare intorno il loro cappello, ma a volte ricevevano soltanto scherni e sberleffi.
Più vicini a noi erano i menestrelli. Si chiamano così i giullari di grado elevato, quindi non semplici saltimbanchi o buffoni come i giullari minori, ma coloro che recitano e cantano le poesie composte da noi trovatori; non sono girovaghi, ma addetti più o meno stabilmente a una corte principesca o a persona altolocata.
Mi guadagnavo, dunque, da vivere scrivendo e declamando poesie. Ma più che il denaro a me interessava la gloria. L’ammirazione delle persone – soprattutto delle dame – era tutto per me. Un loro sorriso o un lieve cenno con il drappo che reggevano nella mano mi riempivano di orgoglio. Il mio nome – mi fu riferito – era giunto fino alle orecchie dell’imperatore che mi incoronò re dei versi. Ora, in Italia, so che un altro trovatore ha preso il mio posto nei favori della gente: Sordello da Goito, ma io non sono invidioso della sua fama. Da tempo essa è diventata per me quello che era il denaro per il nostro padre Francesco: fango, sterco.
Nei miei spostamenti, passai un giorno nei pressi della città di San Severino, non lontana dalla mia città natale. Molti la chiamano ancora con il vecchio nome latino di Septempeda e i suoi abitanti con il nome di septempedani. Decisi di approfittare per andare a far visita a una mia parente che era monaca in un monastero, a pochi minuti di cammino dal centro della città. Non mi allettava l’idea di andare da donne così diverse da quelle con cui solevo trattenermi, ma avevo promesso ai miei parenti di andarvi e non potevo tornare a casa senza averlo fatto.
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COME IL TROVATORE GUGLIELMO DA LISCIANO INCONTRA FRANCESCO D’ASSISI IN UN MONASTERO DI SAN SEVERINO E DIVENTA FRATE PACIFICO
Giunto, nel pomeriggio al monastero di Colpersito, vi trovai un’insolita animazione. Dapprima credetti che si trattasse di qualche trovatore come me, o di un giullare che dava spettacolo, ma non tardai a scoprire che si trattava di tutt’altra cosa. C’erano due uomini vestiti di un rozzo saio color cenerino tutto rattoppato e tenuto stretto da una corda, scalzi, la barba incolta, i capelli mal tagliati.
Mi fermai per curiosità ad ascoltare. Il più piccolo dei due, da un rialzo del terreno, con il volto tutto infuocato, si rivolgeva ai presenti e diceva: «Convertitevi, fate penitenza dei vostri peccati, perché il regno dei cieli è vicino! Credete al Vangelo! Io ero come voi: non pensavo mai a Dio e alla vita eterna, pensavo solo a me stesso e al mio avvenire, ma il Signore mi ha illuminato…». E altre frasi di questo genere. Sembrava che ci supplicasse, a tratti addirittura si interrompeva per la commozione. Il suo compagno prendeva in disparte le persone che avevano ascoltato Francesco e diceva loro: «Sentite bene, ciò che vi dice quell’uomo, perché sembra semplice, ma viene da Dio!».
Alcuni volevano sapere chi erano ed essi rispondevano di essere dei penitenti oriundi di Assisi. Quello che mi colpiva di più non era però quello che dicevano, ma la loro concordia, il volto lieto, l’amore e la meraviglia. Facevano pensare a persone che avevano scoperto un tesoro!
La reazione della gente intorno a me era contrastante. Alcuni li consideravano dei pazzoidi e dei fissati; altri erano convinti che discorsi del genere non potevano venire da demenza. Io dissi tra me: «Questi qui, o sono uniti a Dio in modo straordinariamente perfetto, o sono dei veri insensati, poiché menano una vita disperata: sono denutriti, camminano a piedi nudi e hanno dei vestiti da far pietà». Con questi pensieri cercai un luogo riparato vicino al monastero dove passare la notte, ripromettendomi di far visita alla mia parente il giorno dopo e tornarmene a casa.
Ma non andò così. Capii subito che quella notte non avrei dormito. Le parole di quell’uomo mingherlino mi rimbombavano nella mente, ora minacciose, ora piene di misteriosi richiami. Alla luce di quelle parole la mia vita passata cominciò a scorrermi davanti e a cambiare del tutto aspetto. Di colpo, l’amor cortese che cantavo nei miei versi mi apparve per quello che era in verità: un adulterio del cuore. Mi ricordai che uno dei dieci comandamenti diceva: «Non desiderare la donna d’altri» e, con i miei versi, io incitavo a fare proprio questo. Mi rivoltavo senza posa nel giaciglio di fortuna che mi ero allestito, nel tentativo di interrompere i pensieri e addormentarmi, ma invano. Era primavera, non faceva caldo, eppure sudavo.
Al ricordo della vita passata, si accompagnava la vergogna, l’orrore per la menzogna che praticavo e instillavo nell’animo dei giovani. Gli applausi e i riconoscimenti umani ricevuti, anziché riempirmi di dolcezza, avevano ora un sapore amaro. Conoscevo abbastanza il latino da ricordare quello che avevo sentito ripetere tante volte nelle prediche: Vanitas vanitatum! Vanitas vanitatum! Vanità delle vanità: tutto è vanità. Ma soltanto adesso, per la prima volta nella mia vita, mi rendevo conto della verità di quelle parole.
Verso la fine della notte la stanchezza mi colse e mi appisolai. In quello stato ebbi una visione. Sono sicuro che non era solo un sogno. Vidi un uomo segnato in forma di croce da due spade messe di traverso, molto splendenti: l’una si stendeva dalla testa ai piedi come se uscisse dalla sua bocca, l’altra, trasversale, da una mano all’altra, all’altezza del petto. Riconobbi immediatamente in lui l’uomo che la sera prima aveva predicato in piazza. Una delle due spade, dalla sua bocca, era penetrata nel mio cuore.
Da quel momento non vedevo l’ora che venisse il giorno per andare da lui e parlargli. Non pensavo ancora alla mia conversione, o a fare penitenza come dicevano essi. Volevo solo sapere perché lui e il suo compagno erano così felici, che cosa avevano trovato che io non conoscevo.
Uscito all’aperto, trovai Francesco, da solo, nella selva intorno al monastero. Era immerso in preghiera. Nello scorgere davanti a me, in carne ed ossa, l’uomo che avevo visto in visione con le due spade incrociate sopra di lui, quasi venni meno. Ma mi feci coraggio e prima ancora di rispondere al suo saluto, gli dissi chi ero, cosa facevo, la notte che avevo trascorso e cosa volevo da lui.
Non si scompose, anzi sembrava che mi aspettasse. Mi abbracciò e per un po’ rimase in silenzio. Poi, come se sapesse già tutto di me, mi ammonì con dolcezza intorno alla vanità del mondo, ricordandomi anche il giudizio di Dio. Ma non si trattenne a lungo su questo tono. Cominciò a parlarmi di sé. Sembrava che la mia storia gli ricordasse la sua. Anche lui in passato aveva vissuto inseguendo la gloria. Non tanto con i versi, che pur gli piacevano, quanto grazie a imprese militari e cavalleresche. Il suo sogno era meritarsi, lui figlio del mercante Pietro di Bernardone, di essere accolto nella compagnia della gioventù nobile della città.
Mi raccontò che anche a lui il Signore aveva parlato con una visione. «Volevo unirmi – diceva – a una spedizione militare in Puglia, per conquistarmi quella nobiltà che pensavo avrebbe riempito le mie attese. A Spoleto, di notte feci un sogno. Sai, di quei sogni, come il tuo, che non sono solo sogni. Una voce mi diceva: “Francesco chi ti può aiutare meglio, il padrone o il servo?”. Risposi: “Il padrone, Signore!”. E la voce: “Allora perché lasci il padrone per il servo, il principe per il vassallo?”. Capii cosa il Signore voleva dire. Abbandonai il progetto di andare a combattere al fianco di Gualtiero di Brienne. Tornai in Assisi; mi misi a pregare in luoghi solitari e a riparare chiesette diroccate. Avevo sentito una voce che mi diceva: “Va’, Francesco e ripara la mia Chiesa”. In seguito, mentre ascoltavo la Messa con il mio primo compagno che si chiama Bernardo, il Signore mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Mi sono messo subito a predicare la penitenza alla gente e questa è la seconda volta che vengo nella vostra Marca d’Ancona».
«Fratello – quasi gli gridai –, che bisogno c’è di aggiungere altro? Veniamo ai fatti. Toglimi dagli uomini, e rendimi al grande Imperatore!». Il giorno dopo, Francesco mi vestì di un abito di fortuna simile al suo e mi accolse tra i suoi compagni, imponendomi il nome di frate Pacifico, «perché – diceva – ti sei convertito dall’inquietudine del mondo alla pace di Cristo». Scoprii che si poteva essere giullari in modo diverso da quello che prima avevo conosciuto e disprezzato: giullari di Dio, come era Francesco. Il trovatore Guglielmo da Lisciano era diventato il giullare Pacifico di San Severino.
Ero felice come non ero stato mai. Quando, venerato ministro generale, leggo oggi il Testamento del nostro padre, mi colpiscono le parole con cui commenta il suo bacio al lebbroso: «Quello che mi pareva amaro mi fu convertito in dolcezza di anima e di corpo». Nel mio piccolo, avvenne lo stesso anche a me. Quello che prima mi pareva dolce mi divenne amaro e quello che prima mi era amaro mi divenne dolce.
Lo stesso giorno mi presentai in monastero a salutare la mia parente monaca. Non dico la sua gioia e quella delle sue sorelle nel sentire quello che era successo appena fuori delle mura del monastero. Più numerosa della turba dei miei compagni di vanità, fu in seguito la folla di quelli che rimasero edificati dalla mia conversione. Volevo tornare a Lisciano per salutare i miei, ma Francesco mi ricordò il detto del Salvatore: «Nessuno che mette mano all’aratro e si volge indietro è atto al regno di Dio». Fui ben felice di proseguire il viaggio verso Santa Maria degli Angeli, in compagnia di lui e del suo compagno.
Tre Comp. IX,33-34 (FF 1436-1437); 2 Cel. LXXII,106 (FF 693); Leg. mag. IV,9 (FF 1078); An. per. V,19 (FF 1509).
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