L’esperienza del Natale è fondamentale nel pensiero e nella religiosità di un grande poeta del calibro di Clemente Rebora, che alla natività di Gesù dedica alcune tra le poesie più intense. Rebora è un uomo che sceglie l’eterno e la sua dimensione in una totalità di adesione e cerca continuamente un rinnovamento durante il tempo natalizio. In occasione del Natale 1955, in una poesia già riassume la necessità di rivivere in sé il fuoco d’amore che il Bambino gli dona e a lui si rivolge in forma di preghiera: «Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale/ di fuoco interno nell’umano gelo,/ tutta una pena in celestiale pace/ che fa salva la gente e innamorata».
È il tempo della Redenzione che il poeta-sacerdote riconosce, in profondità, nella venuta del Salvatore, grazie alla possibilità concreta che dà all’uomo di unirsi a Dio, di sentire non solo il senso ma la realtà del Divino che invade il nostro essere precario sulla terra. Del resto la celebre «Davanti al Presepio», un adattamento che Rebora fa da Jacopone da Todi, prende avvio proprio dalla constatazione del senso di beatitudine che Cristo porta a tutta l’umanità: «Dolce Amor, Cristo bello! Il Signor del creato/ è nato poverello/ a far, chi vuol, beato». Il senso di questa bellezza viene poi spiegato in altri versi che mettono in luce come la precarietà dell’umano riesca a prendere valore e senso proprio dentro questo incontro, non solo nella contemplazione, ma nell’accettazione totale del mistero: «O nostra umanità/ come sei ingrandita!/ con la divinità tu ti sei pur unita». È proprio in virtù di questa unione che Rebora supplica Gesù costantemente, nella preghiera, affinché possa dargli «il Suo Natale». E dal letto dell’infermità, nel 1956, scrive: «Resta, Gesù!/ Non partir più! Resta, resta./ Con Te risplende il mondo, / con te è bello e santo/ viver in gioia e in pianto:/ oh Buono, fammi Te».
Dal nucleo fondamentale della scrittura poetica, che culmina in quel capolavoro che è «Gesù il Fedele», il discorso sul Natale in Rebora si estende anche a tutta un’altra serie di scritti e di annotazioni, come viene ricostruito nel libro Il tuo Natale di fuoco (Interlinea, pp. 224, euro 12) curato da Roberto Cicala e Valerio Rossi, che raccoglie oltre al corpus poetico anche lettere, pagine di diario, postille e inediti vari. Sono le trascrizioni degli appunti e dei pensieri del giovane sacerdote, che sente il tempo natalizio centrale nella sua formazione in quanto corrisponde al tempo della sua conversione religiosa e al voto che aveva fatto a Maria il 30 dicembre 1929 «di porre interamente la mia vita al servizio del Signore».
La maggior parte di questi scritti, molti dei quali inediti (qui ne pubblichiamo due), riguardano il periodo dei primi anni Trenta, quando Rebora è novizio dell’Istituto di Carità presso i padri Rosminiani al Monte Calvario di Domodossola, e mettono in luce una tensione a vivere dentro l’eternità, intesa come capacità di aderire totalmente alla possibilità che offre il Natale di «vedere Dio manifesto a noi – non nella Sua onnipotente Maestà – ma nel velo di una umanità umile, povera, debole che è accessibile a noi». Rebora rimane fedele a questa tensione, che si rigenera ad ogni Natale e nelle varie occasioni che ha di meditare sul Vangelo: sia essa il commento delle omelie o anche la preparazione degli incontri con i ragazzi che gli sono affidati sul finire degli anni Trenta nel Collegio Rosmini di Domodossola.
Rebora del resto è convinto che dall’unione con Gesù possa nascere la fraternità e quindi il desiderio di aderire totalmente a lui. Infatti scrive che «la grande opera affidata a Gesù non è stata solamente esteriore (cfr. la stella): ma ben più, è stata quella di rinnovare l’uomo interiore, di creare, nell’uomo vecchio e cieco per il peccato, un uomo novello e veggente». Per il sacerdote poeta, l’uomo che Gesù cambia radicalmente non ha più come fine il raggiungimento delle «terrene vanità», ma riesce ad aderire alla pienezza della realtà, attraverso «il possesso di Dio (santità: carità: felicità)».
Per giungere a questa pienezza Rebora indica un percorso che attraversa tutte le sue riflessioni sul Natale all’insegna di una conquista e di una disposizione, quella che porta a ritrovare il senso e lo stupore di «un’innocenza cristiana». Così il Natale, prima ancora della Bellezza, rivela all’uomo il senso di «una grande nostalgia della bontà», che riguarda proprio questa forma di innocenza.
Per lo scrittore «il Santo Natale riaccende l’anelito all’innocenza cristiana, con l’ideale della verginità; e l’attenzione devota è chiamata presso il Bambino, fatta di simbolo e emblema di ogni cosa pura, veniente da Dio e a Lui richiamata». È un’intuizione teologica e poetica di grande rilievo, che viene espressa anche in altri appunti, in forma più lapidaria ed epigrammatica, quando ad esempio sul Messale sottolinea e appunta: «L’infanzia spirituale è il segreto della santità (La semplicità)».
Il poeta, a compimento del mistero del Natale, pone grande importanza alle figure dei Re Magi, anch’essi emblema di questa “innocenza” che si manifesta in modo pieno con l’Epifania che per lui rappresenta «la luce della fede» e «la luce della grazia». I Magi ne diventano l’immagine simbolica, dopo i pastori e i poveri. Per Rebora sono «i sapienti che – delusi da questo mondo e da se stessi – cercano con sincerità la verità, un Maestro che gliela insegni, per farla trionfare nel mondo. E Dio esaudisce chi cerca il Signore in verità». Sono coloro che si lasciano guidare dalla fede, lasciando tutto dopo aver avuto la possibilità di essere nella luce che era loro apparsa, senza lasciarsi sopraffare da paure quando la stella sparisce, ma continuando il loro cammino, guidati da una «fede viva e vera».
I Magi racchiudono il senso di quell’innocenza cristiana cui Rebora anela e diventano per il poeta «figura della nostra vita di Cristiani», attraverso la capacità che hanno di far propria quella luce e quel «fuoco interiore che si verifica in ogni credente» e che diventa «dono della grazia», che accompagna ogni possibilità di vero Natale.
6 gennaio 1931
Nato in Gesù da Maria nel 1929 – ho celebrato oggi la vera Epifania del Signore, giorno in cui io venni a questo mondo. Benedico in Dio benedetto i miei genitori che mi permisero, schiudendomi alla esistenza, di aprire infine nella Vita gli occhi alla Fede, la quale prego sia loro pure data, e a tutti. Questa mattina, dopo aver servito la S. Messa, sono uscito, verso le 6.30, al monte in vista del lago, ch’era nell’incanto medesimo in cui i pastori, e poi i Magi, videro e adorarono accanto a Maria Gesù. C’era l’immissione delle chiarezze celesti nel paesaggio – e la stella rifulgeva proprio dal Paradiso. Santo Santo Santo. Deo Gratias.Durante le 3 S. Messe del S. Natale nell’anno SS. 1933
L’infanzia eterna di Dio: tutto nasce e invecchia e va in polvere, tranne Dio che è sempiterna natività ineffabile, manifestata per noi e a noi da Gesù Bambino: il Suo Santo Natale è il tono giusto di ogni vita vera, spirituale: occorre incessantemente riportarci e intonarci là e a quel là per cantare lodi e benedizioni in gloria di Dio, vivendo Cristo, sempre in culla e in braccio della SS. Vergine. Ma si deve intanto crescere: e questo importa (non perdere l’innocenza divina, l’incomparabile tenerezza, la freschissima grazia – rorate! – dell’intatta creazione e ricreazione di Dio. Oh!) svolgere e fruttificare quella divina infanzia. Ma perché Dio nasca bimbo sulla terra – nel nostro fango – occorre esser poveri non aver nulla né voler nulla del mondo, consci con vagito del nostro niente peccatore, sentirci con volontà ardente e amante umiliati e umili, d’anima e di corpo, invocando che la sublime freschezza soavissima della grazia di Gesù Bambino ci avveri nella santa ubbidienza in umiltà e penitenza, tutta già scoppiante dentro di gloria in excelsis Deo! O Gesù Bambino, da Maria, presente Giuseppe, ch’io sia neonato ex hoc nunc et usque in saeculum vostro, con voi, puro e puro e puro, in te e te, Gesù Bambino! cfr. E mentre ci è già dato il segno, della gloria eterna, intanto dobbiamo sostenere l’umiliazione della croce sulla terra. E nascondere il segreto, di Dio, in una vita comune, fin che venga l’ora di spenderci e consumarci. «Dio, che è, opera attraverso chi non è». Colui che fa le cose, opera per le cose che non sono affinché siano.
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