Giallista, romanziere, testimone oculare, con più di quattrocento opere al suo attivo. Il 4 settembre di trent’anni fa moriva una delle grandi figure della Letteratura del Novecento. Qui, dall’archivio di Tracce (10/2001), un suo ritratto.
Il sibilo della sirena nel porto, il rumore di fondo dell’acqua che scorre impetuosa, il viso scialbo di un uomo intristito dalla vita. Nel mondo di Georges Simenon si entra con poche, decisive, pennellate. È sufficiente un bicchierino di Calvados fra le mani di Maigret o un mattino in cui l’umidità penetra fin dentro le ossa fra le brume del nord. «Mi bastano duemila parole per raccontare la realtà», ripeteva ai suoi ammiratori. Gli bastavano duemila vocaboli per apparecchiare un set cinematografico in cui allineava uomini e donne della borghesia, i loro vizi e i loro tic, le passioni, le speranze e i delitti di cui si macchiavano. Grandi tavole, come quelle dei pittori fiamminghi che l’avevano preceduto e del cui humus in qualche modo si era nutrito; dipinti in cui il dettaglio, descritto minuziosamente, ma risparmiando gli aggettivi e combattendo contro gli avverbi, è essenziale. Come lo è per ciascuno di noi.
Georges Simenon ha attraversato quasi tutto il Novecento e lo ha interpretato nell’unico modo che gli era congeniale: narrandolo. Come un testimone oculare: «Se scrivo tavolo, tutti sanno che cosa voglio dire. Se scrivo sublime, ognuno l’interpreta a modo suo». Dunque fedeltà assoluta. Fedeltà nell’inseguire fra le onde vecchi lupi di mare, nel soffermarsi in stanze soffocanti su impiegatucci incolori – esaminati al crocevia di circostanze eccezionali – e nell’entrare dentro la mente labirintica di sordidi individui, nel girovagare fra i vicoli di Parigi e fra le strade di un’infinità di villaggi delle Fiandre, nel raccontare trame aggrovigliate come lo è la vita e nel regalare atmosfere che, da sole, valgono il piacere della lettura. Difficile resistere alla seduzione di plot, infallibili per definizione, costruiti come sono meglio di un orologio svizzero. Altrettanto memorabile è la sua capacità di cogliere un clima, un’epoca, prendendo a spunto un pretesto, un episodio qualsiasi, un flash. Per esempio, nello straordinario Le finestre di fronte, il primo impatto, devastante, col Comunismo passa attraverso un funerale. Siamo nei primi anni di Stalin e Adii bey, il nuovo console turco, è appena arrivato a Batum, sul mar Nero. Il suono degli ottoni lo spinge come una molla verso la finestra. Guarda giù in strada e vede gli «uomini della fanfara vestiti come i membri di una società ginnica, in bianco con scarpe di tela e una grossa coccarda rossa sul petto. La bara era mal piallata, mal dipinta, ma di un rosso accecante. Quanto alla gente del corteo seguiva, come si segue una banda musicale».
Romanzo profetico L’autore non giudica – Simenon non giudica mai -, ma le cifre fondamentali della realtà sovietica, quel terribile impasto di trasandatezza e di astrazione impersonale, sono già entrate dentro il protagonista insieme a una sensazione di inquietudine. Più tardi Adii bey incolla la faccia al vetro, cerca la finestra di fronte, «individua prima un punto lucente, quella di una sigaretta, poi una manica di camicia, un braccio col gomito piegato, la testa di un uomo e, vicinissima, la donna che aveva sciolto i capelli sulle spalle». Un paio di frasi e il diplomatico turco è già prigioniero di una rete di ricatti, menzogne, desolazione. Il romanzo è il chiudersi, implacabile, di queste maglie, fitte e impalpabili, e insieme una nitida fotografia di quell’universo fatto di angoscia, squallore, ideologia. Un mondo in cui domina l’ossessione poliziesca, una cartolina cupa colorata solo con i colori necessari, senza mai virare verso il moralismo, la predica, la consolazione.
Basterebbe questo profetico romanzo del ’33 per cogliere lo spessore di uno scrittore dimesso e visionario. Ma Simenon non è un autore artigianale, è una strepitosa macchina per scrivere, che ha prodotto, con tecniche da catena di montaggio, più di quattrocento opere. Quattrocentodiciotto, a dar retta ai suoi, incerti, calcoli. E in quei quattrocento e passa scritti c’è spazio per tutti i registri. Come in Balzac, come in Maupassant, come in Stendhal. Difficile affibbiargli un’etichetta che non sia quella del genio: uno straordinario realismo. E più veritieri di una foto sono i ritratti, una galleria infinita e indimenticabile di ritratti: «La signora Loiseau, che da quando era entrato il marito non aveva aperto bocca, sorrideva sempre, con il sorriso di un manichino di cera, nella vetrina di un parrucchiere» (Il morto di Maigret). ancora, nello stesso libro: «Puzzava di viltà e di malattia. Faceva pensare a un foruncolo purulento…». Si potrebbe pensare a una scrittura disincantata e in un certo senso quella di Simenon lo è. Ma guai a pensare allo stereotipo del romanziere blindato nel suo pessimismo. La realtà è assai più articolata e può concedere, dentro la routine che schiaccia l’esistenza, squarci impensati. Maigret, il commissario Maigret, il personaggio più celebre uscito dalla fantasia del grande belga, è un tipo che vive a contatto con delinquenti da una vita. Ma non si è mai assuefatto al crimine. Soprattutto non ha perso la capacità di stupirsi, virtù essenziale per un grande investigatore e per ogni uomo che si rispetti. Nello stesso, bellissimo, racconto, ecco come Simenon ci introduce nella casa del poliziotto, a Parigi in boulevard Richard-Lenoir: «L’appartamento era piccolo e caldo. I mobili di quercia scura della sala da pranzo ancora quelli del matrimonio. Di fronte, attraverso il tulle delle tende, si leggeva a lettere cubitali nere sul muro bianco: Lhoste e Pépin. Utensili di precisione». Un microcosmo che dovrebbe aver annoiato l’occhio di Maigret. «Erano trent’anni che Maigret vedeva quella scritta, ogni giorno, mattina e sera, e, un po’ più in basso, l’entrata del magazzino, dove sostavano sempre due o tre camion con la stessa scritta sulle fiancate». È invece «ancora non se n’era stancato». Di più: «Anzi! Gli faceva piacere. In un certo senso lo accarezzava con lo sguardo. Poi, invariabilmente, guardava più in alto, verso il retro di una casa lontana, con la biancheria stesa ad asciugare fuori dalle finestre e, appena arrivava la bella stagione, un geranio rosso a una di esse».
Che sarà mai un geranio rosso? Per molti nulla, ma per Maigret può essere un indizio per andare molto lontano, un punto di partenza per cominciare nuove esplorazioni, perfino un punto di domanda, ironico, sulla vita: «Può darsi che non fosse lo stesso geranio. Eppure Maigret avrebbe giurato che quel vaso era lì, come lui, da trent’anni. E durante tutto quel tempo mai una volta che avesse visto qualcuno affacciarsi al davanzale della finestra, né annaffiare la pianta. Qualcuno doveva pur abitare la casa, ma evidentemente i suoi orari non coincidevano con quelli del commissario».
Si potrebbe continuare a lungo con queste descrizioni, mai rassegnate anche quando l’autore ha per le mani personalità luciferine e scorci tenebrosi. Il cordone ombelicale con l’uomo e la realtà non si spezza mai ed è lo stesso Maigret a spiegarci il perché, nel momento in cui butta nel cestino un’ipotesi cervellotica che aveva formulato in precedenza: «All’inizio avevo considerato questa eventualità, ma poi l’ho scartata perché mi sembrava troppo complicata e io sostengo che la verità è sempre semplice».
Duemila parole possono bastare: la realtà è complessa, la verità è semplice. E alla fine uno spiraglio per passare si trova sempre. Non si sa il momento in cui la fenditura si aprirà, ma prima o poi dalla roccia filtrerà la luce, come chiarisce ancora una volta Maigret in questo frammento di dialogo con un giudice che è una metafora, surreale, della condizione moderna: «E adesso in quale direzione pensa di indagare?». «In nessuna direzione. Aspetto. Non c’è altro da fare, non crede? Siamo a un punto morto. Abbiamo fatto, o meglio i miei uomini hanno fatto tutto quello che potevano. Non ci resta che aspettare». «Aspettare cosa?» «Qualunque cosa. Quel che verrà fuori. Magari una testimonianza. O un fatto nuovo». «Crede che qualcosa verrà fuori?» «Speriamo».
Più di una volta la scintilla scocca là dove non ce l’aspetteremmo: dentro l’animo di uomini esausti, provati, trascinati via dalla corrente della vita. Hector Loursat – Gli intrusi – è un esemplare di questa umanità avvilita, appena temperata dal decoro borghese con cui avvolge e ingentilisce la propria solitudine e il proprio male di vivere. Tutte le sere cena in compagnia della figlia, naturalmente senza mai rivolgerle la parola, poi si barrica nel suo studio tappezzato di libri, stappa una bottiglia di bourgogne e annega così la fragilità che lo corrode. Annega il ricordo, doloroso come uno spillo, della moglie Geneviève, che diciotto anni prima lo ha piantato in asso alla vigilia di Natale, lasciandolo solo con una bambina in fasce. Tutte le sere lo stesso rito. Ma un giorno, come accade in tutti i drammi di Simenon, un delitto manda a rotoli quella tranquilla precarietà. Dovrebbe essere la fine, ma Hector Loursat è sì un frutto vecchio, avvizzito precocemente a quarantotto anni, ma non bacato. Lo scrittore lo spacca e mette a nudo una polpa succosa, vitale, piena di risorse. Quell’avvocato, un tempo brillante ma ora più selvatico di un orso, ritrova energie lontane e sensazioni smarrite. «Gli era capitato qualcosa di enorme, di imprevisto, di sconvolgente! Era uscito dalla sua tana! Era sceso in strada, aveva girato per la città! A tavola poi aveva guardato in faccia Nicole, sua figlia Nicole che, in mancanza della domestica, ogni tanto si alzava, andava a prendere i piatti dal montavivande e li posava in silenzio sulla tavola… Aveva voglia di… Era un concetto difficilissimo da esprimere, anche solo col pensiero, soprattutto perché non ci era abituato e aveva paura di cadere nel ridicolo. Voglia di vivere? Non aveva il coraggio di dirlo. Voglia di lottare, allora? Sì, qualcosa di simile. Voglia di scuotersi, di buttare all’aria la paglia della sua porcilaia, di scrollarsi di dosso quegli strani odori che aveva ancora attaccati alla pelle, quel suo io inacidito che aveva covato per troppo tempo fra pareti tappezzate di libri. E voglia di gettarsi nel mucchio…». Loursat non si redimerà, verbo sconosciuto al laico Simenon, ma si riscatterà nel migliore dei modi.
Simenon ha avuto un’esistenza lunga, colma di onori e di gratificazioni e perfino lussureggiante – non saprei quale altro aggettivo utilizzare – nelle esibite manifestazioni di affermazione del proprio io. Ma soprattutto ci ha insegnato ad amare la vita, pur fra tormenti e orrori, come pochi altri maestri hanno saputo testimoniare nel secolo appena concluso.
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