In questi racconti inediti, Luigi Santucci fa riaffiorare dallo sguardo curioso dell’infanzia episodi buffi e fantasie, per esempio l’impresa di stipare in un’auto tutte le persone care per sfuggire a un cataclisma. Attraverso un filtro che sa tenere viva la prospettiva dell’infanzia si possono raccontare persino le imprese del primo veterinario della storia o, in una vivace messa in scena, ideata per la radio, il mondo dal punto di vista degli animali.
Introduzione
di Giorgio Tabanelli
Sono diversi gli scrittori italiani che hanno dedicato una parte importante del loro lavoro alla letteratura per ragazzi: fiabe, favole, racconti, poesie per bambini e perfino saggi e riflessioni sulla «letteratura per l’infanzia». Un posto del tutto singolare lo occupa Luigi Santucci – per gli amici Lillo – il quale, nel corso della sua lunga attività di scrittore, non ha mai abbandonato questo filone, prodigioso e creativo, ritenendolo non un genere inferiore o un’attività secondaria, ma il cuore stesso del suo fecondo laboratorio. Santucci scrive per i ragazzi poiché egli sa che un vero scrittore non può permettersi di abbandonare la condizione di ragazzo aperto alle curiosità del mondo e alle suggestioni della vita. In altre parole – questa è la sua posizione – per essere vero scrittore, non può essere dimenticato quel bambino che è in ciascuno di noi: occorre farlo rivivere e raccontare.
Non a caso, il suo lavoro Santucci lo avvia proprio sul tema della letteratura infantile affrontato con la tesi di laurea pubblicata a Firenze, nel lontano 1941. Fino a quel momento, come ricorda Piero Bargellini, suo primo recensore, il problema della letteratura infantile «restava una lodevole preoccupazione di maestri e genitori», ma non «saliva mai dal piano moralistico a quello artistico. Esisteva, ma i critici maggiori lo ignoravano». Il Santucci studioso – pioniere e ricercatore che si addentra nella selva oscura della «letteratura per ragazzi» – divide il mondo infantile da quello adulto e quasi li contrappone, ponendo il primo sotto il segno della fantasia, il secondo sotto il segno dell’esperienza. L’unico senso possibile di una letteratura per fanciulli è per lui la pura narratività, non la lirica. Il fanciullo, rispetto all’adulto, è creatura differenziata dal mito. Ne sono prova i segni rintracciabili nell’universo fantastico di questo particolare mondo: il miracoloso, l’avventuroso, l’orcale, il minuscolo, l’animalesco, l’accovacciato e infine i personaggi e i paesaggi della letteratura per ragazzi. Santucci arriva a queste conclusioni dopo un grande lavoro di lettura: i racconti di Giambattista Basile, le fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm, le fiabe romantiche di Andersen, Pinocchio, Peter Pan, fino ad approdare al Robinson Crusoe, ai Viaggi di Gulliver e al libro Cuore. A Collodi dedica perfino un saggio.
Con Poesie con le gambe corte del ’66, dedicate alla prima infanzia, Santucci entra nel magico mondo dei ragazzi attraverso la poesia; ma è il racconto che lo attrae e lo stimola. È attraverso la narrazione che la sua memoria ritorna ai primordi della vita, quando persone, cose e paesaggi compaiono magicamente alla visione e si animano come uscissero dall’istante della loro creazione e dall’incanto. Il confine tra narrazione per adulti e per ragazzi è in qualche modo attenuata, indistinta e in alcuni casi abolita. Libri come La lode degli animali, L’almanacco di Adamo – che risalgono alla prima metà degli anni Ottanta –, e anche diversi altri titoli, si rivolgono idealmente a una platea composita: bambini, ragazzi, genitori, zii, nonni, amici. Santucci scrive come se avesse di fronte un enorme caseggiato di un quartiere affollato o una grande città e tutti i suoi abitanti stessero lì ad ascoltare i suoi racconti intriganti e avvincenti. Lo scrittore ama la famiglia, la folla, gli amici e per loro scrive e racconta: le sue storie sono storie di tutti e da esse è possibile rintracciare quel filo della vita, in fondo l’unico filo della vita, che ci lega alle altre esistenze e agli altri destini.
Anche il teatro è per Santucci una particolare forma di racconto nel quale agiscono e rivivono gli attori delle comuni vicende quotidiane. In Il buco nel presepio del ’56 lo scrittore immagina una scena di vita la sera di Natale. Protagonisti non sono gli umani, ma il formicaio del signor Emilio con le formiche in attesa della mezzanotte; e, come in tutte le famiglie, anche in questa famiglia di formiche si discute e si litiga. Ma un evento improvviso fa riflettere ed è occasione per vivere il Natale nel suo vero significato. Ebbene, anche questa è una favola che unisce e coinvolge adulti e bambini, spettatori e attori.
Con i primi anni Novanta, dopo la stagione matura dei romanzi, lo scrittore avverte la necessità di tornare alla letteratura per ragazzi con un libro speciale: L’uomo del flauto. Vita di Gesù per ragazzi. Nelle bozze di lavoro annota i particolari delle vicende, il quadro del tempo, i legami fra i personaggi. Egli fornisce all’illustratore i connotati delle sembianze e persino i dettagli del volto di Gesù. Anche i particolari, nell’opera della creazione – sembra dirci lo scrittore – hanno un loro significato e non possiamo trascurarli.
La notte di Natale, le avventure tra pirati e delfini, la vita degli gnomi e della cuoca tartaruga Clorinda, gli angeli e il bandito sono i temi dei racconti che impegnano lo scrittore in nuove magiche avventure. Egli ama scherzare con i suoi personaggi: li fa muovere fra città e cielo, fra terra e mare e, come pirati, navigare su rotte sconosciute, seguire mappe a volte sbagliate, fare incontri non sempre fortunati e affrontare accidenti imprevisti. Santucci è un grande umorista che si diverte e diverte. E, come i grandi umoristi, ama scherzare con sé e con gli altri e possiede l’eccezionale capacità di far apprendere con maggiore e straordinaria efficacia rispetto a chi non sa ridere.
Nell’occasione del centenario della nascita sono stati rinvenuti dai figli dello scrittore alcuni racconti inediti che risalgono a diversi periodi della sua produzione. Essi hanno un comune fondamento e ispirazione: il sentimento di fraternità nei confronti della vita e degli uomini. Due dei racconti, L’amico Fritz e Gli scampati, descrivono in modo immaginario i pericoli che minacciano l’uomo e che insorgono nel passaggio dalla condizione di bambino alla vita adulta. In L’amico Fritz è la guerra, mentre in Gli scampati un esercito di nemici, un’epidemia o un incendio. Fatto sta che il pericolo è incombente e minaccioso. C’è un solo modo per porvi rimedio: vedere nell’altro il proprio fratello. Al sentimento di odio lo scrittore contrappone l’amicizia e il rapporto umano, la vita in comune. Nella geografia del cuore di Santucci c’è posto per tutti: persone, animali e cose. Non è possibile vivere se non in viaggio e in altro modo che in compagnia.
Negli altri racconti – Un troglodita, Il primo veterinario, Il cavallo dei carbonai, Quattro passi allo zoo – i protagonisti sono gli animali, figure mitiche e ancestrali, compagni di vita e di giochi, amici fedeli e spassosi, con i quali condividere gioie e dolori, paure e speranze. Il cavallo – scrive Santucci – non è tanto un animale ma un mito, una fiamma dell’anima nella quale bruciano confusi la storia e il sogno dell’uomo. In Il primo veterinario lo scrittore torna alle origini di quel rapporto, quando Noè, già prima di costruire l’Arca per salvare la specie umana e la specie animale, era un uomo giusto, con un cuore grande, che aveva cura di ogni vivente. In Quattro passi allo zoo lo scrittore segue il viaggio di un nonno col nipote all’interno dello zoo e i loro dialoghi divertenti e spiritosi con gli stessi animali. In questo racconto, che ha forma teatrale, il punto di osservazione è duplice: conta anche il punto di vista degli animali. In che modo essi ci vedono? E come ci giudicano?
Il mondo che ci racconta Santucci è variopinto, vorticoso, coloratissimo, alla Chagall. Ed è pieno di musica e di suoni. Egli ci mostra l’eterno luna park della vita, la festa gioiosa e divertente e ci aiuta a districarci nei pericoli e nei tranelli della fitta boscaglia e a ritrovare l’armonia perduta. E ci ricorda che la vita è pur sempre meravigliosa. E allora, buona lettura e buon viaggio.
Un troglodita
Fu la sera del nostro ritorno dalla campagna, appena aperta la casa e apparecchiata alla meglio la tavola con gli avanzi del viaggio.
«Un gatto», disse mia madre zittendo i rumori delle stoviglie «dev’essere rimasto chiuso in cantina».
A scovarlo, seguendo il filo della sua voce di vetro sotto le volte buie del sotterraneo, impiegammo qualche tempo.
«Mamma, mamma», dicevo io pallido con la candela che sfrigolava «che gli staranno facendo?».
Mia madre mi stringeva incoraggiante la mano, ma sentivo dal contrarsi nervoso delle sue dita a ogni nuovo lamento che condivideva il mio timore di fare una raccapricciante scoperta.
La candela navigava a zig zag con la sua vela di luce tremula, simile a un piccolo veliero che ricercasse un naufrago alle foci d’un tenebroso fiume. E in quella mandorla luminosa mia madre e io, quasi abbracciati, cercavamo a tastoni la voce come una spina misteriosa che ci tardasse di strapparci dalle carni.
Finalmente dietro una porta dura a cedere lo trovammo: lo zampetto prigioniero d’una trappola da sorci, disperatissimo.
Il gattino era scarno e aguzzo come una resca: una caricatura di gatto color letame, con spropositati orecchi e occhi strani che gli picchiavano sulla fronte come due pesci per uscire da un vaso troppo angusto. Mia madre e io non trattenemmo il riso: e fu un riso nervoso e salubre, d’incubo dissolto e un poco di vendetta per l’ansia patita.
La bestiola come ci vide non dette segni di spavento, ma raddoppiò i suoi gridi e fece qualche passo in tondo trascinando la trappola come un’enorme ciabatta. Allora mia madre si chinò a raccattarlo. La molla serrava solo debolmente lo zampetto che non era rimasto offeso dallo scatto.
«Cattiva trappola!» disse mia madre scaraventando lungi l’ordigno. E risalimmo.
Di sopra, nella gran luce elettrica della cucina, fu il più buffo e peregrino gatto che mai avessimo mai sentito narrare. Del gatto gli mancava la mimica arabescata e accorta, si sarebbe detto l’indole.
Aveva una goffaggine credulona, era spaventosamente distratto e sporco, inventava dinoccolati minuetti da guitto, non sapeva spiccare il minimo salto.
«È un gatto sbagliato» disse mia madre alzandolo per la collottola controluce come un impiccato.
Lo deponemmo sulla tavola ancora apparecchiata per cimentarne le reazioni. Fiutò l’ala di pollo ch’era rimasta nel mio piatto, le pelli di salame in quello di mia madre: ma lo affascinò il calice di vin bianco ancor pieno. E con gli occhi socchiusi, fermandosi spesso per far lappe, se ne ingollò avidamente tre dita.
«Birbante d’ubriacone» disse mia madre con gli occhi sperlati di meraviglia. Ma io correvo già, il lume acceso nella destra, la mano di lei che trascinavo nella sinistra, giù pei gradini sbrecciati della cantina, con un grottesco sospetto che le cose subito mi svelarono fondato.
«Guarda… guarda…» dissi. Sul pavimento del celleraio cocci di bottiglie brillavano, contenenti ancora un fondiglio di vino. Era stato quello l’alimento coatto del micio troglodita che una strana e misteriosa sorte aveva costretto a passare dal latte materno alla barbera, rompendo, per non morir d’inedia, qualche polverosa bottiglia.
«Poveraccio… poverino…» esclamammo insieme abbracciandoci d’intenerimento mia madre e io. E così abbracciati, ridendo e strabiliando, risalimmo da lui.
Si leccava i baffi, in mezzo alla tavola, con una cera di bevitore soddisfatto, incurante della sua coda sporca ancora di ragnateli e del laniccio della cantina. Il rocchetto legato a un filo che gli feci ballonzolare dinnanzi agli occhi per ingalluzzirlo lo lasciò immobile e tonto.
«Ora è ubriaco… ora che farà?» pensavamo mia madre e io torcendoci le mani, mentre una strana ripugnanza e una pungente perplessità ci paralizzava di fronte a quello snaturato. E la premurosa pietà di poc’anzi poteva mutarsi, da un istante all’altro, in ostile paura per il piccolo mostro. Aspettavamo da lui un segno che rompesse l’incantesimo, che lo riscattasse da quell’equivoco proteiforme. Un segno di gatto, insomma.
«Le fusa!» gridai d’improvviso a mia madre.
Sia lodato Dio, era vero. Dalla sua gabbietta d’ossa aveva preso a ronzare certe sue fusa pastose e baritonali simili a uno stormo di calabroni in volo. Furono le più belle fusa che avessi mai udito: un vero inno alla beatitudine gattesca. Tutta la casa ne vibrò come se l’armonia linda delle suppellettili ben collocate, l’intimità delle tele pigiate nei canterani, l’umiltà delle scope nell’ombra dei ripostigli trovassero la voce del loro poeta che liberava le cose da un greve e silenzioso letargo.
«Bisognerà rieducarlo» disse mia madre sollevando il petto in un sospiro.
E andammo a coricarci, cullati da quelle fusa che ci tennero desti a lungo nel buio, come il rullio d’una puerile navigazione. Ne rifacemmo un astemio. Ma per molti mesi, quando si volle riascoltare quella sinfonia casalinga, bisognò mescergli – nel piattino sotto l’acquaio – qualche cicchetto di vecchio marsala.
Le immagini che corredano gli articoli del Pensare i/n Libri sono immagini già pubblicate su internet. Qualora si riscontrasse l'utilizzo di immagini protette da copyright o aventi diritti di proprietà vi invitiamo a comunicarlo a info@rebeccalibri.it, provvederemo immediatamente alla rimozione.