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Gozzano e il segreto di una poetica degli oggetti

di Gino Ruozzi

Nel centenario della morte di Guido Gozzano (Torino 1883-1916) l’editore Einaudi ha riproposto nella collana “bianca” Le poesie nella storica curatela di Edoardo Sanguineti (1973), omaggio a due dei nostri maggiori poeti del Novecento. L’edizione contiene le raccolte pubblicate dal poeta, La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911), l’incompiuto poemetto Le farfalle e le poesie sparse, tra cui spicca, anche in copertina, La più bella, resa popolare dalla canzone L’isola non trovata di Francesco Guccini (1970).

La vita di Gozzano è stata purtroppo breve, ucciso a soli trentadue anni dalla tubercolosi. Quando scoprì la malattia egli aveva appena pubblicato il primo libro di poesie, La via del rifugio. Era il 1907, Gozzano aveva ventiquattro anni; in Italia era da poco scomparso Giosuè Carducci (premio Nobel per la letteratura nel 1906), dominava la poesia di d’Annunzio e più sottotono emergeva quella di Pascoli. L’omonima poesia che apriva La via del rifugio era una boccata d’aria fresca. La stessa che si respira ancora oggi leggendola: è ironica, acuta e divertente. Il brio e la pulizia di questo testo (e di tanti altri di Gozzano) sono sorprendenti per equilibrio e intelligenza, chiarezza e spessore. Gozzano è un autore che si fa leggere con grande piacere (e naturalmente anche studiare) e consiglierei di regalare le sue poesie in ogni possibile occasione.

Secondo Montale Gozzano aveva assimilato d’Annunzio e lo aveva capovolto, aprendo la strada alla nuova poesia del Novecento. In Meriggio d’Annunzio dichiarava che «la mia vita è divina». Ne La via del rifugio Gozzano abbassa decisamente il tono, ora colloquiale e giocoso; chi parla non aspira a vertici sublimi ma cerca una familiare e minuta quotidianità: «Socchiusi gli occhi, sto / supino nel trifoglio, / e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò»; e ribadisce: «Socchiudo gli occhi, estranio / ai casi della vita. / Sento fra le mie dita / la forma del mio cranio… // Ma dunque esisto! O strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!». Al vitalismo dannunziano Gozzano replica con una sottile e spiritosa filosofia dell’ozio e dell’attesa, la prospettiva del «non» invece che quella del «sì»: «sorrido e guardo vivere me stesso» afferma nella poesia I colloqui all’inizio del secondo omonimo libro di poesie (1911); e in Cocotte, in versi memorabili e ormai proverbiali: «Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state».

Gozzano pratica una visione delle «cose» che comincia da se stesso. È egli in primo luogo una «cosa», una modesta «cosa vivente» detta appunto «guidogozzano». C’è un materialismo di fondo, un pungente darwinismo in questa interpretazione della vita legata a una «poetica degli oggetti» (Sanguineti) inclusa in un arco di valori che va dal “Tutto” al “Niente”, mettendo in discussione ogni versione metafisica. Con levità e saggezza Gozzano suggerisce una resistenza esistenziale che si oppone a enfasi paniche e moralistiche («Verrà da sé la cosa / vera chiamata Morte: / che giova ansimar forte / per l’erta faticosa?», La via del rifugio e Nemesi); «lasciatemi sognare!» scongiura nell’Ultima rinunzia, invocazione poi ripresa dall’euforico «lasciatemi divertire» di Aldo Palazzeschi.

Proprio perché inutili e gratuite le «cose» sono importanti e possono essere, è vero, anche di «pessimo gusto». In quest’ottica di salutare disincanto tutto riceve premurosa attenzione e diventa dono. Il catalogo di ricordi borghesi che anima la poesia L’amica di nonna Speranza assume un rilievo vitale, nella coscienza che tutto va e viene, che ogni cosa perirà e sarà sostituita da altre (come Totò Merumeni, che «Un giorno è nato. Un giorno morirà»). Vale allora la pena di godere delle «buone cose» quotidiane e non rinviare i piaceri della vita, anche quello di non far nulla, come se si fosse «immuni dalla gara che divampa / nel triste mondo» (Paolo e Virginia). In sintonia con l’idea della «marea» di Verga, per Gozzano siamo tutti vincitori e vinti e anche chi si crede oggi vincitore sarà domani un vinto («E mi fan pena tutti, / contenti e non contenti, / tutti, pur che viventi, in carnevali e in lutti», Nemesi).

Pertanto l’incanto femminile («Donna: mistero senza fine bello!», La signorina Felicita) di Carlotta, Speranza, Felicita, di «cuoche diciottenni», «giovinette scalze» e «cameriste» («gaie figure di decamerone», Elogio degli amori ancillari) è un omaggio prezioso che va afferrato nella passeggera illusione di felicità. Nel Libro degli amici Hoffmansthal diceva che la profondità va nascosta nella superficie. Nella poesia Le golose, composta nel 1907 alla pasticceria Baratti di Torino, Gozzano scriveva di essere «innamorato di tutte le signore / che mangiano le paste nelle confetterie», confidando un unico cruccio: «Perché non m’è concesso / baciarvi nel sapore / di crema e cioccolatte?»

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