Hans Christian Andersen, il figlio del calzolaio
I grandi autori, pensiamo ai classici, sono preferibilmente morti. Non frequentano i festival letterari, non si autopromuovono sui social network, in qualche modo ‘non esistono’: la loro scrittura si sostituisce alla loro persona e noi possiamo, anzi, non pensarli come persone, perché la loro arte li ha magicamente trasformati in voci narranti. Una di queste voci, e tra le più stupefacenti della storia della letteratura occidentale, appartiene al grande inventore di fiabe Hans Christian Andersen. Quando era vivo, i suoi contemporanei, specie i danesi che lo conoscevano bene, vedevano di lui soprattutto i difetti, le ragioni per cui risultava antipatico o sgradito; questo impedì loro di apprezzarlo fino in fondo. Dickens, un uomo del suo tempo, lo adorava prima di averlo avuto ospite in casa per diverse settimane, dopo le quali evitò di rincontrarlo e smise di rispondere alle sue lettere.
Di Andersen ci resta, oggi, un ricco patrimonio fiabesco. Scrivere fiabe è una locuzione che contiene quasi un ossimoro: ‘fiaba’, infatti, è il nome dato a quella forma di discorso che proviene dalla notte dei tempi e che, tramandata di bocca in bocca, non ha autore ma è di tutti, appartiene alle infinite generazioni che hanno continuato a raccontarla, modificandola nel tempo e nello spazio durante le sue molteplici migrazioni. Levigata e asciugata di tutto ciò che poteva sembrare non adatto, non più apprezzabile col mutare del contesto, la fiaba, quella popolare, è giunta fino a noi come racconto quanto mai essenziale, capace di condensare significati profondissimi e pieni di riverberi. Nessuna singola persona, si direbbe, può realizzare altrettanto, contando solo sul proprio talento.
In diversi ci hanno provato, prima alla corte francese del Re Sole e poi in epoca romantica, quando si scelse di cimentarsi in questo ‘genere’ o perché estremamente stratificato e complesso (in ambienti in cui era apprezzata la sofisticazione) o perché capace di parlare alle profondità del cuore (quando, con l’avanzare dell’industrializzazione, si profilò il rischio dell’automazione). Ma le fiabe scritte dalle nobildonne francesi o dai giovani romantici, per quanto belle e interessanti, non hanno raggiunto il livello di cristallina purezza, l’universalità, la forza e insieme la sintesi metaforica propria delle fiabe scritte dal danese Andersen intorno alla metà dell’Ottocento, non si sono rivelate altrettanto capaci di penetrare irriducibilmente nell’immaginario collettivo di bambini e adulti.
Come scrive Karl A. Mayer, un critico del tempo, «la fiaba di Andersen nel suo pieno sviluppo colma la distanza tra la fiaba d’arte dei romantici e la fiaba popolare come l’hanno restituita i fratelli Grimm».
Infatti, se è vero che le fiabe di Andersen nascono quasi tutte dalla sua testa, mentre quelle raccolte dai Grimm risalgono alla più lontana preistoria, tuttavia noi mettiamo mentalmente, e giustamente, insieme, nello stesso scaffale, Il brutto anatroccolo, La piccola fiammiferaia, La sirenetta, Il soldatino di piombo, La principessa sul pisello e altre storie anderseniane, e fiabe di ancestrale memoria come Cappuccetto Rosso, Pollicino, Hänsel e Gretel, La Bella Addormentata, Cenerentola; le consideriamo interscambiabili per forza evocativa e potenza semantica e, le une come le altre, presenze irrinunciabili in quell’archivio tradizionale di storie che continuiamo con ammirevole resistenza a raccontare all’infanzia.
A Andersen va riconosciuta una grandezza rara, dunque: quella di aver saputo scrivere fiabe che toccano corde profonde al pari dei racconti giunti da epoche arcaiche. Ci è riuscito perché caratterizzato da quel particolare sguardo che consideriamo tipicamente infantile, o aurorale (pur ben consapevole, nel suo caso, delle dinamiche del sociale), perché dotato di uno spontaneo animismo, per la sua speciale attenzione verso le cose piccolissime e più modeste, per la capacità di far parlare, sentire, patire il mondo in ogni sua forma naturale e artificiale, nonché per quello stile sentimentale ma in fondo ironico che rende ogni suo racconto sofisticato anche quando sembra semplice.
A tutto questo si aggiunge però un altro aspetto, che ha reso le sue fiabe memorabili più di altre ‘d’autore’. Nonostante fosse un inguaribile egocentrico, Andersen ha saputo farsi portavoce di una parte profonda e spesso inespressa di noi tutti: la parte che ha patito una mancanza di riconoscimento; quella che, nonostante la propria unicità e il proprio talento, si è sentita esclusa, invisibile, trattata in modo ingiusto.
Lungo queste ricorrenze si muovono le storie dei suoi personaggi esemplari, e simile è anche la storia della sua vita per come ce l’ha voluta raccontare in quell’opera maestosa che è la sua autobiografia, ora edita da Donzelli (curata e tradotta magistralmente da Bruno Berni) e non a caso intitolata La fiaba della mia vita (pp. XII-758, euro 35,00).
«Nell’anno 1805 viveva a Odense, in una povera, piccola casa, una coppia di giovani sposini che si volevano infinitamente bene, un giovane calzolaio e sua moglie. Lui non aveva ancora ventidue anni, una persona dalle doti sorprendenti, di indole veramente poetica, lei ignara del mondo e della vita ma piena di buon cuore. Il marito era da poco diventato “mastro” e si era costruito da solo il banco da calzolaio e il letto nuziale; per quest’ultimo aveva usato l’impalcatura che poco tempo prima aveva sorretto la bara di un certo conte Trampe. Invece del nobile cadavere circondato di fiori e candelabri, il 2 aprile 1805 giaceva lì un bambino vivo che piangeva: ero io, Hans Christian Andersen». Sin dall’inizio si conferma quanto a fondo Andersen avesse còlto la quintessenza della fiaba, capace come nessun altro discorso di mescolare idillio e orrore, rosse scarpette e rosso sangue, vita e morte. Ed è proprio perché ha raccontato la propria vita come fosse una fiaba che la sua autobiografia assume valore, e aggiunge alle sue storie altre 700 pagine di ‘finzione’ in cui possiamo leggere di come sia passato da giovanissimo e precoce talento impulsivo, incompreso, vilipeso al grande scrittore che l’Europa e l’America prima, e solo in seguito la sua patria danese, hanno riconosciuto, omaggiato e accolto con tutti gli onori, in un cammino di più di sessant’anni fatto di miserie, frustrazioni, malinconie, mescolate alla folle, criticatissima, determinazione a farcela comunque.
In un mondo, quello dell’Europa di inizio e metà Ottocento, dove non era prevista mobilità sociale, il cammino di Andersen, che partì poverissimo e arrivò alle corti di re e regine, dovette sembrare un tabù infranto. Non gli si perdonava la provenienza umile e una prima sconclusionata auto-formazione, mai recuperata fino in fondo negli anni di istruzione formale avvenuta in ritardo e grazie alla generosità dei suoi benefattori. E non gli si perdonava il modo esplicito, privo di etichetta, senza mezze misure, di porsi e di proporsi (forse anche in amore). Prima che le sue fiabe, la cui pubblicazione venne centellinata lungo tutto il corso della vita, vincessero anche le ultime resistenze dei critici del suo paese, e avendo sempre continuato a scrivere anche poesie, opere teatrali, romanzi mai pienamente apprezzati, ad Andersen furono riservate, per molti anni, recensioni e reazioni di disprezzo e di scherno (riportate con meticolosa e autolesionistica cura nell’autobiografia), non tanto riferite alle opere in sé, quanto alla sua persona non amabile e caratterizzata da un evidente bisogno di successo e di conferme, al suo carattere morboso, isterico, forse maniaco-depressivo, di certo ipersentimentale. Un carattere che lui del resto non negava.
Durante un viaggio in Germania, dove, già famoso e apprezzato, era stato invitato per settimane alle feste di tutte le più importanti famiglie, una vigilia di Natale accadde che «in tutto quell’eccesso di bontà e interesse per rendermi piacevole il soggiorno ci fu una serata vuota, libera, una serata in cui d’improvviso sentii la solitudine nella sua forma più opprimente. Quando venne la vigilia non fui invitato e rimasi tutto solo in albergo; mi sentivo così abbandonato, aprii la finestra, guardai il cielo stellato, era il mio albero di Natale; ero così malinconico, altri direbbero sentimentale: loro conoscono la parola, io conosco lo stato d’animo».
Per quanto possa essere stato antipatico in vita, le parole che ci ha lasciato, poetiche, per costruire la propria finzione, noi che non lo abbiamo conosciuto le leggiamo con ammirazione.
Se l’uomo Andersen è stato insopportabile, il personaggio che di sé ha saputo creare ci coinvolge e costringe a leggere fino in fondo la sua storia, per sapere come va a finire. E anche se già sappiamo, come in ogni fiaba, che finirà bene, restano più impressionanti in tutto il volume – come furono evidentemente più incisive nella sua esistenza – le sofferenze, le umiliazioni subite, le profonde insicurezze, le ferite che lo accompagnarono anche nel momento del trionfo, mai goduto fino in fondo. Neanche il giorno in cui Odense lo nominò cittadino onorario dopo averlo da giovanissimo deriso come freak e spinto a fuggire, si sciolse la sua tensione. Sentirsi appagato era impossibile per uno come lui, partito pieno di slanci sistematicamente inibiti e ricondotti a quelle che dovevano essere più modeste pretese. È così che han preso vita icone come la sirenetta, la piccola fiammiferaia, il soldatino di stagno le cui vicende, indiscutibilmente fiabesche, aggiungono però un tocco problematico del tutto nuovo e moderno al concetto di happy ending.
Di Andersen, che pure tracciò nella fiaba della sua vita una parabola di sé idealmente identica a quella del brutto anatroccolo diventato alla fine splendido cigno, cogliamo più forte di ogni altro aspetto l’impossibilità di essere felice. Non a caso, il suo esempio rimanda a quello di Oscar Wilde scrittore di fiabe, anch’egli eccentrico, insofferente a ogni maschera sociale e condannato dalle convenzioni del suo tempo, ma capace (forse per questo) di creare figure di ‘diversi’ indimenticabili e non destinati a un lieto fine nelle proprie storie per bambini.
La fiaba della mia vita diventa una lettura interessante anche e soprattutto quando si fa racconto di viaggio e si arricchisce di osservazioni antropologiche, di descrizioni del paesaggio, di informazioni sulla vita sociale, mondana, culturale di molte città europee dell’Ottocento, in cui si ritrovano tanti grandi personaggi del tempo.
Infaticabile viaggiatore, Andersen ripartiva da Copenaghen continuamente, diretto soprattutto verso quel Meridione che, in un’altra fiaba con problematico finale, si apprestava anche a se stesso a raccontare: «sperimentai Napoli in tutto il suo calore: non avrei mai immaginato una cosa così terribile oltre ogni limite! Il sole splendeva coi suoi raggi ardenti nella strada angusta, entrando da tutte le finestre e le porte; bisognava chiudere tutto. Lo scirocco soffiava la sua aria infuocata, ero distrutto. Cosa me ne venne da tutto questo? Una fiaba! Concepii lì la storia dell’Ombra, ma ero così debole, così sfinito. Il sole mi opprimeva il petto come un incubo, un vampiro che voleva uccidermi. L’aria sembrava succhiarmi le forze e il midollo; io che avevo creduto di essere un figlio del sole, tanto forte il mio cuore era legato al Sud, dovetti riconoscere che nel mio corpo c’era la neve del Nord, che la neve si scioglieva e io stavo sempre peggio».
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