Nei primi giorni dell’aprile 1920, Franz Kafka scrisse due lettere a Milena Jesenská, una giovane ceca, che conduceva una vita triste a Vienna, accanto a un marito torturatore. L’aveva conosciuta a Praga nell’ottobre 1919, quando Milena aveva manifestato l’intenzione di tradurre in ceco i racconti di Kafka. Con rapidità e naturalezza, come se l’avesse conosciuta da sempre, Kafka confidò subito a Milena i grandi segreti della sua vita: la tubercolosi, la spiegazione psicologica della tubercolosi, il Processo al quale era sottoposto, i suoi fidanzamenti, il suo senso di colpa. Non solo le aprì il cuore, ma cercò di farle aprire il suo, insinuando che anche i polmoni di lei erano malati per ragioni psichiche, e presentandosi come confidente e medico.
Molta parte di quest’amore a distanza, la creò Kafka; ma la fantastica Milena collaborò con la sua inventiva. Subito Kafka avvertì, in lei, «il fuoco» della passione: lei era fuoco e le sue lettere generavano fuoco, e lui era come il moscerino o la farfalla dell’apologo iranico, che si bruciava alla fiamma. Senza essersi mai conosciute, le due anime si accesero l’una dell’altra: la divisione le teneva unite più della vicinanza; non era necessario il gesto dei corpi, bastava l’impulso incontaminato del desiderio, come se solo la distanza potesse cancellare il limite della persona.
Davanti all’assalto amoroso di Milena, Kafka si arrese subito: passivo, sfibrato, in una condizione di dipendenza totale, perduto, ridotto a un’ombra. Con lei perdeva tutto: persino il nome. A volte, gli sembrava «un sacrilegio» dipendere così da un’altra creatura umana; e questa dipendenza faceva nascere l’angoscia della soggezione amorosa. Da lei non voleva il matrimonio come l’aveva voluto da Felice: soltanto la felicità — la piena, bruciante, intollerabile felicità. Le sue lettere erano già un anticipo di questa felicità futura: egli ne traeva gioia, allegria, salvezza: gli sembrava che Milena s’immolasse per lui; e con quale slancio di gratitudine la ringraziava per il semplice fatto di esistere. Si abbandonò, si sciolse e si donò, con una immediatezza che non aveva mai conosciuto. Per la prima volta nella sua vita, intuì cosa fosse essere libero.
Subito presentì che l’amore, tra loro, non avrebbe potuto essere che angoscia e tremore. Temeva che Milena, dopo averlo attirato, lo avrebbe respinto nella sventura: ma proprio questo eventuale rifiuto lo affascinava. «Tu hai 38 anni — le scriveva — e sei stanco come probabilmente non ci si può stancare per la sola età. O meglio: non sei affatto stanco, ma irrequieto, e hai paura di fare un solo passo su questa terra irta di tagliole, perciò tieni sempre, per così dire, i due piedi sollevati contemporaneamente nell’aria; non sei stanco ma hai soltanto paura dell’enorme stanchezza che seguirà a quest’enorme inquietudine (non per nulla sei ebreo e sai cosa sia l’angoscia)». Qualsiasi minimo evento accadesse, diventava isterico: un’onda d’ansia e di frenesia lo sconvolgeva, senza capacità di controllo e di difesa.
La voce di Milena, che lo voleva con sé a Vienna, era per lui la terrificante voce di Dio che chiamava i profeti: come loro, lui era soltanto un piccolo bambino atterrito — o un passero che becca le briciole nella sua stanza, tremando, stando in ascolto, con le penne arruffate. Tutto il mondo gli crollava intorno. «Incomincio davvero a tremare come sotto la campana a martello, non posso leggere, e naturalmente leggo lo stesso, come l’animale che muore di sete beve, e ho angoscia e angoscia, cerco un mobile sotto il quale possa rintanarmi, prego tremando e del tutto fuori di me in un angolo perché tu, come sei entrata rombante in questa lettera, possa volare di nuovo via dalla finestra; tu devi avere la testa grandiosa della Medusa».
A fine maggio, Milena l’invitò a passare da Vienna, durante il viaggio di ritorno da Merano a Praga. Ma Kafka si difese, e negò, temendo che l’amore riprendesse per lui il terribile volto che aveva assunto durante il suo fidanzamento con Felice. «Io non voglio (Milena, mi aiuti! comprenda più di quanto non dico), non voglio (non è un balbettio) venire a Vienna perché non sopporterei spiritualmente lo sforzo. Sono malato spiritualmente, la malattia polmonare è soltanto uno straripare della malattia spirituale. Io sono tanto malato dopo i quattro, cinque anni dei miei primi due fidanzamenti».
Fece delle prove puerili: gettò a un passero del pane nel mezzo della sua stanza: se il passero fosse entrato, sarebbe andato a Vienna; dal balcone, il passero scorse il pane nella penombra; — e quando venne il momento della prova, egli lo rese vano, facendo fuggire il passero «con un piccolo movimento». Ribadiva che non sarebbe mai andato a Vienna: certamente non sarebbe venuto, ma se con sua paurosa sorpresa fosse arrivato a Vienna, non avrebbe avuto bisogno né della colazione né della cena, ma di una barella sulla quale coricarsi un momento. Infine chinò il capo davanti alla volontà e alla violenza amorosa di Milena: sì, sarebbe andato, alla fine di giugno.
Prima di conoscere Milena, aveva già formato in sé l’immagine di quella ragazza, che avrebbe dominato per anni la sua esistenza. Felice Bauer era stata, per lui, la moglie devota, che doveva condurlo nella terra di Canaan. Milena era invece una possente e irradiante figura erotica: il suo fascino non affondava nei sensi; l’eros di Milena respirava l’aria del paradiso terrestre, prima del peccato di Adamo e di Eva. Come Kafka disse esplicitamente, Milena era la «Madre»: l’immensa, vitale, nutritrice, figura erotica materna, nata dai sogni incestuosi che aveva rimosso per tutta la vita. Rispetto a Milena egli imitava la figura del figlio, del bambino e dello scolaro.
Milena era anche la figura simbolica opposta: la casta luna, intangibile nella sua lontananza, che attrae le acque marine; la fanciulla, la vergine, la Bella. Se Milena-madre allontanava con la sua mano soave ogni dolore, Milena-luna portava ogni dolore: dai suoi occhi irraggiava il dolore del mondo, soffriva e faceva soffrire. Eros, in lei, aveva il volto di Thanatos. Già agli inizi della loro corrispondenza Kafka la vide come l’angelo della morte, il più beato fra gli angeli, che toglie agli uomini la forza e il coraggio di morire. Ma Milena era anche qualcosa di più terribile. Dalle sue lettere, Kafka immaginò un’oscura storia di orrori, che aveva accompagnato la sua giovinezza; e scorse in lei Medusa, coi serpenti del terrore intorno al capo, che lo guardava con un occhio così penetrante da pietrificare. Aveva terrore della sua intelligenza, della sua forza, del suo coraggio, della sua energia vitale, della sua disperazione, della sua nascosta abiezione, della sua grandezza d’animo.
***
Il 24 giugno Kafka scrisse a Milena che aveva deciso di arrivare a Vienna il 29, martedì — «a meno che succeda dentro o fuori qualcosa d’imprevisto». Non aveva la forza di fissarle già ora un appuntamento: «Fino allora soffocherei, se oggi, adesso, ti dicessi un luogo e per tre giorni e per tre notti vedessi come è vuoto e come aspetta che martedì mi ci fermi ad un’ora determinata». Arrivò la mattina alle dieci, quasi svenuto dall’angoscia e dalla stanchezza. Non dormiva da due notti. Le scrisse subito, da un caffè della stazione Sud: l’aspettava la mattina dopo, mercoledì, alle dieci, all’Hotel Riva. Intanto, avrebbe consumato il tempo dell’attesa, «vedendo i monumenti», visitando i luoghi che Milena frequentava: la Lerchenfelderstrasse dove era la sua casa, l’Ufficio Postale, dove riceveva al fermo posta le lettere di Kafka; tutto, possibilmente, senza farsi vedere. Ma Milena non ebbe pazienza di attendere così a lungo: passò in rassegna tutti gli alberghi presso la stazione, e finalmente trovò Kafka, in un’ora che ignoriamo del 29 giugno.
Così, in quell’ora incerta — lui quasi svenuto, lei affettuosa e sicura — cominciarono i quattro giorni e mezzo di Franz Kafka a Vienna: gli unici di intimità con Milena. Non ne sappiamo molto: passarono molte ore nei boschi presso Vienna: sostarono in un giardino pubblico sotto una statua di Grillparzer; lui vide la casa e la stanza di lei, dove trionfava un pesantissimo armadio; e la domenica mattina, il giorno della partenza, lei portava un abito «follemente bello». Abbiamo due versioni: quella positiva e vitalistica di Milena e quella, più perplessa, di Kafka. Qualche mese dopo Milena scriveva a Max Brod: «Quando sentiva quell’angoscia, egli mi guardava negli occhi, aspettavamo un momento come se non riuscissimo a tirare il fiato, e dopo poco tutto passava. Non c’era bisogno di nessuno sforzo, tutto era semplice e chiaro, lo trascinai per le colline presso Vienna, lo precedevo correndo mentre lui camminava adagio pestando i piedi dietro a me, e se chiudo gli occhi lo vedo ancora con la sua camicia bianca e il collo scottato dal sole e lo vedo affaticarsi. Camminò per tutta la giornata, in salita, in discesa, esposto al sole, non tossì neanche una volta, mangiò tanto da far paura e dormì come un masso». Kafka distingueva i giorni: «Il primo fu l’incerto, il secondo il troppo certo, il terzo il contrito, il quarto fu il buono»; e l’anno dopo, scrivendo a Max Brod, disse che «felicità furono soltanto i frammenti di quattro giorni strappati alla notte».
Appena tornato a Praga, nella sera di domenica Kafka scrisse tre lettere a Milena. «Tutto il tempo e mille volte più di tutto il tempo e anzi tutto il tempo che esiste mi occorre per te, per pensare a te, per respirare in te». Ormai, al mondo, non esistevano altro che lei e lui: quel «noi» che declinava all’infinito; non esisteva più né passato né futuro, ma solo il presente irradiato dalla luce dei suoi occhi azzurri. Egli si annullava in lei, si perdeva in lei senza lasciare residui, e quel «noi» era così gigantesco da riempire il mondo. Non temeva più di morire: anzi desiderava morire di felicità amorosa, e poi rinascere grazie al dono di quella felicità. Nel cielo c’era un’immensa campana che suonava: «Lei non ti abbandonerà» — sebbene, ecco, mescolato a quella campana, un campanellino suonasse insistente nell’orecchio: «Lei non è più con te…».
Il giovedì mattina, arrivò la prima lettera di Milena. E subito l’Eden del presente, del puro ricordo, dell’estasiata felicità, in cui Kafka aveva vissuto quattro giorni, si frantumò. Milena gli parlava del marito: Kafka avrebbe voluto partire per Vienna e strappare Milena al marito e prenderla con sé a Praga. Questo lo avrebbe confermato nella sua esistenza: proprio lui, il paria, pedina di una pedina, avrebbe occupato per la prima volta il posto di un re nel gioco degli scacchi. Poi comprese che Milena non sarebbe venuta. La tosse lo riprese il giorno e la notte. Tutto diventò buio. L’effetto, «meravigliosamente tranquillante-inquietante», della vicinanza fisica di Milena svanì col passare dei giorni. Non aveva nessuno, tranne l’angoscia; e stretto e convulso si rotolava con essa attraverso le notti. Il venerdì non arrivarono lettere — e neppure sabato 10 luglio, domenica 11 luglio. Era disperato. Mai sarebbe arrivato più nulla. Il sabato andò ogni due ore in ufficio, per vedere se c’era posta. La domenica andò ancora peggio. Passò tutta la mattinata a letto: tornò in ufficio a chiedere se c’era un telegramma; e infine passò al Caffè Arco, che una volta Milena frequentava, cercando qualcuno che la conoscesse. Non c’era nessuno. Ma il lunedì arrivarono, tutte insieme, quattro lettere — «questa montagna di disperazione, dolore, amore, amore ricambiato».
In una di queste lettere, Milena gli scrisse qualcosa che lo ferì profondamente: «Si, hai ragione, io gli voglio bene. Ma, Franz, anche a te voglio bene». Lesse la frase molto attentamente, parola per parola: «Eppure, per non so quale debolezza, non riesco ad afferrare la frase, la leggo all’infinito e infine la trascrivo qui ancora una volta, affinché anche tu la veda e tutti e due la leggiamo insieme, tempia contro tempia». Lo feriva quell’anche, con cui Milena lo posponeva al marito. Aveva compreso che Milena amava profondamente il marito — con un amore fatto di passività, di soggezione erotica, di complicità e di abiezione. Eppure lo accettava. Kafka chiedeva l’esclusività delle attenzioni coniugali: di queste era gelosissimo, voleva che le cure, le gentilezze, il denaro con cui mantenerla, venissero soltanto da lui.
In quei giorni, Kafka scrisse a Milena una strana e accesa rivendicazione di sé stesso — forse l’unica che abbia mai avanzato. Lui — disse — non era nemmeno un suonatore: era uno dei merciai che, nell’anteguerra, percorrevano i sobborghi di Vienna; o era piuttosto, nell’economia della grande casa di Milena, un topo al quale si può permettere al massimo una volta l’anno di attraversare liberamente il tappeto. «Eppure, se tu volessi venire da me, se dunque — giudicando con metro musicale — volessi abbandonare tutto il mondo per scendere da me, non dovresti scendere, bensì passare in modo sovraumano sopra te stessa, in alto, sopra te stessa, a un punto tale che dovresti forse dilaniarti, precipitare, scomparire». Egli viveva nelle bassure — ma per giungere nel suo grigiore da merciaio o da topo, ci volevano ali.
Continuò per qualche mese a immaginare e a ricevere lettere: non faceva altro che scrivere lettere, leggere lettere, prendere in mano lettere, posarle, riprenderle, posarle e riprenderle ancora. Malgrado tutto, queste lettere — le care, fedeli, allegre lettere portatrici di felicità e salvezza — gli davano gioia. C’era mai stato, nella storia universale, un imperatore che stesse meglio di lui? Entrava nella stanza, ed ecco lì tre lettere: non aveva che da aprirle — come erano lente le dita — e appoggiarsi a loro, senza osare credere alla propria felicità. Poi arrivava un ritratto di Milena: qualcosa di inesauribile— «una lettera per un anno, una lettera per l’eternità» —; che poteva guardare solo col batticuore. Quando la posta non arrivava, viveva col fantasma di Milena. Oppure la sognava.
Sognava ancora di vivere insieme a Milena. Come sarebbe stato bello: domanda e risposta, occhiata e occhiata. Qualunque cosa potessero dire gli altri, lei aveva ragione. Per amor suo, sia pure a denti stretti, era disposto a sopportare tutto: lontananza, ansietà, preoccupazione, mancanza di lettere. Spesso, come a Merano, voleva sciogliersi in lei: posarle il viso nel grembo, sentire la sua mano sul capo, e rimanere così per sempre. Avrebbe voluto smarrire il nome e la figura, ed essere soltanto uno dei suoi oggetti, come l’armadio della sua camera. Da principio, scrivendole, aveva firmato Franz Kafka, poi solo Franz, e poi solo «tuo»: voleva perdere il nome, gettarlo nella sua ombra, dimenticare la propria identità. Infine scrisse: «Franz sbagliato, F sbagliato, tuo sbagliato, non più, silenzio, bosco profondo». Lui, il possesso, l’amore si erano perduti nella tenebra del bosco di Vienna.
Come erano lontani, a distanza di un mese, i quattro giorni passati insieme a Vienna, sebbene fossero stati soltanto brandelli di felicità. Ora c’era solo buio: sopra tutte le cose. E la tortura. Le spade si avvicinavano lentamente al corpo: quando cominciavano a scalfirlo, era talmente spaventoso che subito, col primo grido, tradiva lei, sé, tutto. Milena cercava di consolarlo, proponendogli una futura vita insieme. Non c’era nessuna possibilità: non c’era in nessun caso la possibilità che credevano di avere a Vienna. «Il mondo è pieno di possibilità, ma io non le conosco».
Alla fine di luglio, Milena seppe da Max Brod che Kafka era gravemente malato e decise di vederlo subito. Non lo amava: era troppo angelico e irreale, mentre lei posava i suoi fermi, coraggiosi e fantastici piedi sul terreno colorato della realtà. Ma lo capiva — con quale intelligenza, esattezza, e forza femminile. Da principio, Kafka rifiutò. Sentiva in lei un’angoscia segreta, non sapeva se per lui o contro di lui, un’inquietudine, una fretta improvvisa. Il convegno fu fissato: si sarebbero incontrati a Gmünd, alla frontiera fra Austria e Cecoslovacchia. Poi il progetto fallì: Milena non poteva venire. Come una talpa, Kafka aveva scavato un passaggio dalla sua buia abitazione fino a Gmünd. Ora urtò d’improvviso contro la pietra impenetrabile del «prego — non partire», e fu costretto a ripercorrere all’indietro il cunicolo scavato con tanta fretta.
A Gmünd si incontrarono il 14 e il 15 agosto. La talpa ripercorse ancora una volta con gioia il suo buio cunicolo, scavando la terra, per arrivare alla luce. Vi giunse con una strana sicurezza. Ma non vi trovò alcuna gioia: si parlarono come due estranei, divisi da troppi pensieri. Lui ebbe l’impressione di affondare: dei pesi di piombo lo trascinavano nel mare profondo; oppure era strappato via, senza appigli di nessun genere a cui potesse aggrapparsi.
Tornato a Praga, non faceva che stare seduto, a leggiucchiare: non voleva vedere nessuno; e ascoltava un dolore leggero leggero che gli rodeva la tempia. Riprese a tossire: tutte le sere tossiva ininterrottamente dalle nove e un quarto alle undici, poi si addormentava, ma a mezzanotte nel girarsi da sinistra a destra riprendeva a tossire, fino all’una. Non amava più le lettere di Milena. Cominciò ad averne paura. Quando non arrivavano, era più tranquillo. Non resisteva al dolore: le lettere venivano dal tormento, inguaribile, e procuravano soltanto tormento, inguaribile: L’inquietudine e l’angoscia lo straziavano. «Sì, la tortura è per me importantissima, non mi occupo d’altro che di essere torturato e di torturare».
A Milena aveva scritto che l’angoscia era la sua parte migliore, forse la sua sola cosa amabile, e la sola di cui lei fosse innamorata. Non era soltanto la sua angoscia: ma l’angoscia assoluta, l’angoscia da sempre, e lo costringeva a tacere per sempre. Lo obbligava a ritirarsi dal mondo: egli pensava che così la pressione del mondo sarebbe diminuita: invece, via via che si ritirava e si chiudeva nel suo castello, la pressione del mondo aumentava, e si accresceva l’angoscia. Sentiva la sua mano contro la strozza — «la cosa più orrenda che abbia sperimentato e possa sperimentare».
Scrisse a Milena: «Sporco sono, Milena, infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso per la purezza. Nessuno canta così puro come coloro che sono nel più profondo inferno: quello che crediamo il canto degli angeli è il loro canto». Non era sporco: ma viveva nell’oscurità, nel sottosuolo, nel mondo animale, tra i topi e le talpe, scriveva di notte; e sognava il cibo celeste.
Era vissuto per qualche tempo alla luce e nella coscienza, come Gregor Samsa aveva vissuto giocando nella sua stanza oscura, mentre la sorella gli portava il cibo. Ora comprese che La metamorfosi aveva prefigurato il destino del suo amore per Milena. Come Gregor, aveva provato il desiderio del «nutrimento sconosciuto» e la brama di rintanarsi di nuovo nella selva, trascinando con sé Milena. «Se potessi portarla con me!» pensava, e anche: «Esiste il buio dov’è lei?». Ma comprese che non era possibile: buio e luce sono incompatibili; lui doveva scrivere nel buio e nell’angoscia della selva, Milena camminare radiosamente nella luce. Così, quasi senza volerlo, decise di ritornare nell’oscurità e nel silenzio dal quale era uscito. Interruppe la corrispondenza: l’unico mezzo per vivere era tacere; e per l’ultima volta, non in sogno, ebbe una visione. Il volto di Milena era nascosto dai capelli, lui riusciva a dividerli a destra e a sinistra, gli appariva il suo viso, le accarezzava la fronte e le tempie e le teneva fra le mani.
***
La lettera non fu l’ultima: altre, che si sono perdute, seguirono fino al gennaio 1921, mentre Kafka era in clinica in montagna, a Matliary. Milena non voleva lasciarlo: durante quasi due anni, andò all’ufficio postale di Vienna per vedere se, al fermo posta, c’erano lettere per lei; mentre egli cercava di evitare ad ogni costo la sofferenza. Al principio del gennaio 1921, raccogliendo tutte le forze, chiese l’ultima grazia: non scrivere più, impedire che ci si possa mai più rivedere. Indomabile, insaziabile, Milena gli scrisse un’altra lettera, che doveva essere «l’ultima»; e un’altra nell’aprile. Kafka pregò Max Brod di avvertirlo se Milena fosse a Praga, per evitare di scendervi, e di informarlo se Milena salisse a Matliary, per fuggire in tempo. Ma, alla fine di gennaio, verso il mattino, ebbe un sogno, che lo riempì di felicità. Alla sua sinistra stava seduto un bambino in camiciola: non era certo che fosse figlio suo: ma non gli importava: a destra, Milena; entrambi si stringevano a lui, ed egli raccontava loro la storia del suo portafoglio, che aveva perduto e ritrovato. Non amava altro che avere accanto a sé quei due, nel primo radioso mattino che poi si trasformava nella triste giornata.
Alla fine del settembre 1921, tornato a Praga, seppe che anche Milena era in città, e temette che ricominciassero le notti di insonnia. Pochi giorni dopo, all’inizio di ottobre, le consegnò i suoi Diari : nel doppio desiderio di essere completamente capito da lei e di liberarsi dal proprio passato. Tra ottobre e novembre, si rividero quattro volte: forse, tornarono a discorrere col «lei», che avevano usato ai tempi di Merano. Cosa si dissero? Si parlarono con l’antica passione, l’antica tensione, l’antica sincerità? Erano l’uno il coltello dell’altro? Soffrivano e amavano soffrire? O invece era già disceso, sopra di loro, il velo della passione sconfitta e mitigata?
Quando Milena tornò a Vienna, Kafka annotò nei Diari di essere «infinitamente triste» per la partenza di lei; e che Milena era «un principio, una luce nella tenebra». L’anno dopo, si rividero ancora: nel gennaio, forse Kafka le parlò dell’idea del Castello. Nell’aprile, la sognò ancora una volta. Compresero che esisteva un’ultima possibilità tra di loro: che qualcosa o molto era ancora vivo; ma entrambi costudirono con cura la porta chiusa, «perché non si aprisse o piuttosto perché noi non la aprissimo, dato che da sola non si apriva».
Due mesi prima, alla fine di marzo, Kafka le aveva scritto una lettera singolare, impiegando un Lei pieno di gentilezza, di distanza e di affetto. Gli uomini — diceva — conoscono solo due mezzi per comunicare: se sono distanti, si pensano a vicenda; se sono vicini, si afferrano. «Tutto il resto sorpassa le forze umane… Come sarà mai nata l’idea che gli uomini possano mettersi in contatto tra loro per mezzo di lettere?» In primo luogo, scrivere moltiplica i malintesi. Poi, non è altro che entrare in contatto con i fantasmi: col proprio fantasma, che sta apparentemente seduto alla scrivania: col fantasma del destinatario che attende da noi chissà quali parole, — e con tutti gli altri spettri che popolano il mondo, davanti ai quali ci denudiamo, e che aspettano al varco le lettere portate dai postini. «Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi durante il tragitto». Tutta la sventura della sua esistenza proveniva dalla perversa abitudine di scrivere lettere. Tutta la sua vita amorosa era esistita attraverso le lettere: qualche incontro a Berlino, a Marienbad, a Vienna e poi nient’altro che lettere e lettere: aveva creduto di evitare così il terrore della vicinanza — e, invece, si era perduto per sempre nell’inquietante, onniavvolgente spettralità.
Malgrado i fantasmi, l’amorosa e implacabile Milena continuò a scrivere. Kafka qualche volta rispose; e le raccontò dei suoi fantastici piani di emigrazione in Palestina, del viaggio sul Baltico, dell’emigrazione a Berlino, dove viveva quasi in campagna. Il 23 dicembre 1923, le scrisse l’ultima lettera. Stava male. Anche lì, a Berlino, i vecchi dolori l’avevano scoperto, assalito e abbattuto: ogni cosa gli causava fatica; ogni tratto di penna gli appariva troppo grandioso, sproporzionato alle sue forze. Se scriveva «Cordiali saluti», avevano poi davvero, questi saluti, la forza di arrivare a Vienna, nella rumorosa Lerchenfelderstrasse cittadina, dove lui e le sue cose non avrebbero potuto nemmeno respirare? Ecco, li mandava comunque, i suoi cordiali saluti. Cosa importava se cadessero a terra già al cancello del suo giardino, senza avere la forza di arrivare al Potsdamerplatz e tanto meno a Vienna, come l’ultimo messaggio dell’imperatore non arriverà mai nella casa dell’ultimo suddito, che l’attende seduto alla finestra, e lo sogna quando scende la sera?
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