I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo (Vladimir Soloviev, EDB, 2021)
Prefazione
Quello che abbiamo di più caro
nel cristianesimo è Cristo stesso
(risposta dello starets Giovanni all’Anticristo)
Vladimir Soloviev è tra gli scrittori russi più noti e studiati in Occidente. Ma se questo da una parte dovrebbe avvantaggiarci nel riuscire a trat-teggiarne un profilo utile ad assumere la giusta postura per leggere in maniera fruttuosa l’ultima sua opera, I Tre Dialoghi e il racconto dell’Anticristo, la verità però è un’altra. Vladimir Soloviev si staglia come una figura posta al centro di un’ambiguità di interpretazioni che, in casi abbastanza famosi, non ricorre a mezze misure. Due esempi possono risul-tare significativi: per von Balthasar, Soloviev è un novello Tommaso d’Aquino capace di un originale riorganizzazione della storia del pensiero e artefice di un’opera che ha il merito di mostrare una filoso-fia del cristianesimo totale dei nuovi tempi.1 Agli antipodi è invece Georgij Florovskij: «Soloviev non superò mai l’abito ristretto e soffocante della teoso-fia e dello gnosticismo […] Egli cerca di arrivare a una sintesi ecclesiastica da un’esperienza che non lo è». Bastano questi due esempi a tratteggiare la complessità della sua figura e la fatica di proporre una chiave di lettura univoca ed esaustiva. Forse ad alimentare questa ambiguità del suo carattere e della sua opera hanno contribuito anche gli ele-menti biografici di cui è stato protagonista.
Nato nel 1853, Soloviev è figlio di un docente dell’Università di Mosca che più tardi ne divenne rettore. A lui si deve una celebre Storia della Russia in trenta volumi. Vladimir sembra aver ereditato dal padre proprio questa capacità enciclopedica di organizzare, scrivere, produrre. Dalla madre inve-ce eredita quella sensibilità al mistero, all’erranza spirituale, all’introspezione premonitrice che di-venterà per lunga parte della sua vita un alfabeto imprescindibile e punto di riferimento delle sue scelte. Vladimir è così una costante tensione tra sistema e superamento, tra ordine e caos, tra razio-nale empirico e razionale spirituale. Sarà proprio l’intuizione di una razionalità spirituale ad attra-versare la gran parte della sua opera tanto da avvici-narlo anche pericolosamente, così come abbiamo già sottolineato prima, a una sorta di gnosticismo teosofico. C’è da dire però che a salvare costante-mente il pensiero di Soloviev da una qualunque deriva c’è la conoscenza approfondita della patristica greca e latina studiata all’Accademia ecclesiastica che egli frequenta in via del tutto eccezionale come laico. Il periodo poi passato in Inghilterra gli permetterà di approfondire ulteriormente la filo-sofia orientale e la cabalistica e praticherà anche sedute spiritiche da cui si allontanerà deluso senza però mai abbandonare un certo interesse per l’oc-culto, a mio avviso tratto materno che si manife-sterà con forza in quelle che lui descriverà come le apparizioni della Sofia (sapienza divina).
Dopo la morte di Alessandro II nel 1881, la sua riflessione comincia man mano ad allontanarsi da un originario orientamento «slavofilo» per avvici-narsi sempre di più a posizioni liberali e occiden-taliste e, in ambito ecclesiale, filocattoliche. Non abbandonò mai la Chiesa ortodossa russa, ma rav-visa nello scisma con la cattolicità la causa vera dei mali del suo Paese, e ciò lo spinge a teorizzare sem-pre più un pensiero universalistico, ecumenico e progressista3 che gli provoca molti problemi con le autorità civili e religiose.
La delusione nel non vedere accolto questo suo impegno ecumenico e rivoluzionario della società e della Chiesa, spingono Soloviev a tornare a con-centrarsi nuovamente sulle tematiche filosofiche e …
I tre dialoghi
Nel giardino di una delle ville, che stringendosi ai piedi delle Alpi si specchiano nell’azzurra profondità del mare Mediterraneo, si incontrarono occasionalmen-te questa primavera cinque russi: un generale vecchio combattente; un «uomo di Stato» che si riposava dalle fatiche teorico-pratiche degli affari di governo – e io lo chiamerò l’uomo politico; un giovane principe moralista e populista che aveva pubblicato diversi opuscoli più o meno buoni, su problemi morali e sociali; una dama di mezza età interessata a tutto ciò che riguarda l’umanità; e ancora un signore di età e di posizione sociale inde-finita che io chiamerò il signor Z. Io assistetti alle loro conversazioni senza parlare; alcune di esse mi parvero interessanti e ne presi nota allora a mente fresca.
La prima conversazione incominciò prima che io arrivassi: essa verteva su un articolo di giornale o su un opuscolo riguardante la campagna letteraria contro la guerra e il servizio militare che sull’esempio del con-te Tolstoj stanno conducendo la baronessa Suttner1 e mister Stead. Alla domanda della dama su che cosa ne pensasse di questo movimento, «l’uomo politico» lo dichiarò pieno di buone intenzioni e utile; il generale a queste dichiarazioni si arrabbiò di colpo e prese a farsi malignamente beffe di quei tre scrittori chiamandoli autentiche colonne di alta saggezza governativa, costel-lazione guida sull’orizzonte politico e addirittura le tre balene della terra russa, al che l’uomo politico osservò: be’, ci si trovano anche altri pesci. Questa battuta, chis-sà perché, mandò in solluchero il signor Z., il quale, secondo quanto ebbe a dire poi, costrinse i due con-tendenti a confessare concordemente che avevano in realtà preso la balena per un pesce e addirittura, come per dare una comune definizione di che cosa sia un pe-sce, a precisare: è un animale che appartiene in parte al ministero della marina e in parte al dipartimento delle comunicazioni marittime. Credo però che questo se lo sia inventato lo stesso signor Z.
Comunque sia non mi è stato possibile ricostruire convenientemente l’inizio del colloquio. A compilarlo di testa mia sull’esempio di Platone e dei suoi imitatori non ho saputo decidermi e così ho cominciato la mia relazione con le parole che ho udito pronunciare dal generale quando mi sono avvicinato agli interlocutori.
Primo dialogo
Audiatur et prima pars
Il Generale (parla con rapidi gesti, alzandosi in piedi e di nuovo sedendosi). No, permettetemi solo una cosa: esiste ancora un esercito russo cristiano? Sì o no?
L’Uomo Politico (allungato su una sedia a sdraio, parla col tono che ricorda qualche cosa di mezzo tra gli spen-sierati dèi di Epicuro, un colonnello prussiano e Voltaire). Esiste dunque un esercito russo? Evidentemente sì. Avete forse sentito dire che è stato soppresso?
Il Generale. Via, non mi fate l’ingenuo! Voi capite benissimo che non parlo di questo. Io mi domando se ho il diritto ora come un tempo di ritenere le attuali forze armate come un esercito degno di gloria e cristia-no, oppure questo titolo non serve più e si deve mutar-lo con un altro?
L’Uomo Politico. Eh … di che mai vi inquietate? Be’, questa domanda non l’avete rivolta all’indirizzo giu-sto: fareste meglio a rivolgervi al dipartimento dell’a-raldica, là infatti tengono la gestione dei vari titoli.
Il Signor Z. (parla come spinto da un pensiero recon-dito). Però il dipartimento dell’araldica a una domanda come quella del generale risponderà che l’uso dei vec-chi titoli non è vietato dalla legge. Forse che l’ultimo principe di Lusignano non si chiama, senza alcun im-pedimento, re di Cipro anche se non soltanto non governa Cipro, ma, in ragione dei suoi beni materiali e finanziari, non può nemmeno permettersi di bere vino di quell’isola? E allora perché l’attuale esercito non po-trebbe darsi il titolo di armata di Cristo?
Il Generale. Ah, darsi un titolo! E allora bianco e nero sono titoli? Dolce e amaro sono titoli? Eroe e vigliacco sono titoli?
Il Signor Z. Io non parlo già per me, ma per i tu-tori della legge.
La Dama (all’uomo politico). Perché vi fissate su delle espressioni? Certamente il generale con la sua «armata di Cristo» voleva dire qualche cosa.
Il Generale. Vi ringrazio. Ecco, volevo e voglio dire questo. Da tempo immemorabile fino a ieri ogni mi-litare-soldato semplice o feldmaresciallo – non importa – sapeva e sentiva di servire una causa importante e bella, non soltanto utile e necessaria, com’è utile per esempio lo spurgo dei pozzi neri o la stiratura della bian-cheria, ma una causa bella in un senso elevato, nobile e degna di onore, una causa che hanno sempre servito i migliori, gli uomini di primissimo rango, i condottieri di popoli, gli eroi. Questa nostra missione è sempre stata benedetta ed esaltata nelle chiese, è stata glorificata con la preghiera di tutti. Ed ecco, un bel mattino veniamo a sapere che tutto questo lo dobbiamo dimenticare e che dobbiamo concepire noi stessi e il nostro posto nel mon-do di Dio in un senso del tutto opposto. La causa che noi servivamo, e di cui eravamo orgogliosi, è stata dichiarata una causa malvagia e perniciosa; essa, a quanto pare, è contraria ai comandamenti di Dio e ai sentimenti degli uomini, è il male più spaventoso, è una calamità e tutti i popoli devono unirsi contro di essa e la sua soppressione sarebbe soltanto questione di tempo.
Il Principe. Ma voi, non avete mai udito per l’ad-dietro nessuna delle voci che condannano la guerra e il servizio militare come un residuo dell’antico canni-balismo?
Il Generale. E come non avrei potuto sentirle? Le ho sentite e le ho lette in diverse lingue! Però tutte codeste vostre voci non avevano per noi maggior valo-re – scusatemi per la mia sincerità – di un colpo di tuono fra le nuvole: si sente e subito si dimentica. Ma ora la faccenda è di tutt’altro genere e non si può lasciar andare. Così io mi domando, come ci dobbiamo com-portare adesso? Quale stima, al pari di ogni militare, devo avere di me e come mi devo considerare: un uomo autentico oppure un mostro di natura? Devo forse ave-re stima di me stesso per il servizio prestato al limite delle mie forze come di un’azione buona e importante, oppure riempirmi di orrore per questa mia azione, pen-tirmi di essa e supplicare ogni civile di perdonarmi per questa mia infamia professionale?
L’Uomo Politico. Quale impostazione fantasiosa date al problema! Fate proprio come se qualcuno esi-gesse da voi qualcosa di particolare. Le nuove istanze si rivolgono non a voi, ma ai diplomatici e agli altri «uo-mini di Stato» i quali si interessano molto poco della vostra «scelleratezza» come della vostra «cristianità». Ma per voi, ora come un tempo, esiste un’unica istanza: eseguire senza discutere gli ordini delle autorità.
Il Generale. Siccome non vi interessate di cose mi-litari, è naturale non abbiate in merito, per usare la vo-stra espressione, un’impostazione «fantasiosa». Voi non sapete, come è evidente, che in certi casi gli ordini delle autorità consistono soltanto nel fatto che non si devono attendere ordini da esse né si devono domandarne.
L’Uomo Politico. Proprio così?
Il Generale. Proprio: figuratevi per esempio che per volere delle autorità io sia posto a capo di tutto un distretto militare. Vuoi dire che con questo mi viene or-dinato di guidare in tutti i sensi le truppe a me affidate, di sostenere e rafforzare in esse certe forme di pensiero, di agire in una determinata direzione sulla loro volontà, di influire in un certo modo sui loro sentimenti, in una parola di educarli per così dire sul significato del loro compito. Magnifico. A questo scopo mi è riservato, fra l’altro, di impartire alle truppe del mio distretto ordini generali a mio nome e sotto la mia personale responsabi-lità. Be’, se mi rivolgessi alle superiori autorità perché mi dettassero gli ordini oppure mi indicassero con quale in-dirizzo tracciarli, la prima volta mi darebbero in risposta del «vecchio scemo» e la seconda verrei semplicemente collocato a riposo. Questo significa che io stesso devo agire sulle mie truppe secondo un determinato spirito, ma si presuppone che questo spirito sia stato confermato ed approvato in anticipo una volta per sempre dalle su-periori autorità, cosicché domandare lumi in proposito sarebbe una sciocchezza oppure un’insolenza. Ed ecco che ora questo «certo spirito» che in sostanza è sempre stato il medesimo a partire da Sargon1 e Assurbanipal2 fino a Guglielmo II tutt’a un tratto viene messo in dub-bio. Fino a ieri io sapevo di dover sostenere e rafforzare nelle mie truppe nient’altro che lo spirito militare, cioè la disposizione di ciascun soldato ad uccidere il nemico e a sua volta ad essere ucciso, per la qual cosa è assolutamen-te necessario avere la piena convinzione che la guerra è una cosa santa. Ed ecco che a questa convinzione viene tolto ogni fondamento e il mestiere delle armi viene pri-vato, come si dice nel linguaggio scientifico, «della san-zione morale-religiosa».
L’Uomo Politico. Tutto questo è terribilmente esagerato. Nelle vedute attuali non è dato notare una svolta così radicale. Da un lato, tutti sapevano anche per l’addietro che la guerra è un male e quanto meno guerre ci sono tanto meglio è, ma d’altro canto tutte le persone serie capiscono anche adesso essere questo un male di un siffatto genere che la sua totale eliminazio-ne nell’epoca presente è impossibile. Significa dunque che la questione verte non sulla totale eliminazione della guerra, ma sulla sua graduale e sia pure lenta ri-duzione entro limiti più ristretti. Ma il punto di vista fondamentale sulla guerra rimane quello stesso che ci fu sempre: non è essa un male inevitabile, una calamità che si deve sopportare in casi estremi?
Il Generale. È tutto qui?
L’Uomo Politico. Sì, tutto qui.
Il Generale (balzando in piedi). E che, non avete dato qualche volta un’occhiata al calendario?
L’Uomo Politico. Come sarebbe a dire il calenda-rio? Sì, mi è capitato di consultarlo, per esempio in oc-casione di onomastici di donne e uomini.
Il Generale. E avete notato che santi vi sono se-gnati?
L’Uomo Politico. Di santi ce ne sono diversi.
Il Generale. Ma di quali categorie?
L’Uomo Politico. Penso che anche le categorie sono diverse.
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