Il colore dei libri
Lo scalpore appena suscitato dalla sensata e coraggiosa decisione della Penguin di «rispecchiare la varietà della società britannica» quanto ad assunzioni e scelte editoriali ha subito risvegliato i soliti sospetti, grossolani e semiciechi nei loro insistiti timori e tremori: tutti quelli convinti, cioè, che i concetti di «varietà» o «discriminazione positiva» porteranno alla diluizione della loro cultura. La loro stupidità e lo strepito delle loro patetiche lagne sarebbero ridicoli, se non costituissero una tragedia per la Gran Bretagna. Come atteggiamento è quasi autolesionistico, se vogliamo; e certamente meschino e antipatriottico. Tutti i settori in cui ho lavorato per gran parte della vita – cinema, televisione, teatro, editoria – sono sempre stati appannaggio quasi esclusivo di maschi bianchi di stampo Oxbridge, e perlopiù è ancora così. Questi signori e i loro sodali hanno beneficiato di secoli di discriminazione positiva, per non dire di peggio; il mondo è sempre stato a loro disposizione, e adesso credono di possederlo.
Alcuni di noi sono stati così fortunati da riuscire ad aprirsi un varco nel labirinto e a vivere d’arte; ma il viaggio è stato faticoso e spesso umiliante, credetemi. Molta la degnazione e molte le offese lungo il percorso, e ancora non è finita: da noi si continua a pretendere riconoscenza, malgrado i veri fortunati – non avendo mai dovuto lottare per nulla – siano sempre stati quelli che comandano. E questi fortunati – così ricchi, potenti e privilegiati che neppure se ne accorgono – iniziano a rendersi conto di avere i giorni contati. Una volta, tra senso di superiorità e spocchiosa arroganza, riuscivano a intimidire chiunque; ora non più.
Diventare artisti non è mai stato facile, se si è circondati da razzismo, pregiudizio e supponenza, visibili e invisibili. Nei primi anni Novanta, subito dopo la pubblicazione di Il Budda delle periferie, ricordo un’occasione in cui mi ritrovai con Salman Rushdie a chiederci come mai noi due fossimo gli unici non bianchi presenti; e anzi, gli unici non bianchi presenti più o meno ovunque, se si trattava di libri. Ed era così in tutta l’industria culturale; il primissimo produttore televisivo che conobbi mi chiese perché i miei personaggi dovessero per forza essere asiatici. «Fossero bianchi ci faremmo qualcosa» mi disse.
Non è una coincidenza, in quest’epoca di Brexit con la sua prospettiva rozza, ristretta e xenofoba, che la classe dominante e i suoi custodi temano una pluralità di voci democratiche provenienti da altri luoghi e vogliano zittirci a tutti i costi: muoiono dalla voglia di dirci fino a che punto siamo indegni di essere ascoltati. Ma dovrebbero tenere presente una cosa: avranno anche provato a chiudere la porta in faccia all’Europa, ai rifugiati e alle persone di colore, ma non riusciranno a fermare il nuovo dentro la Gran Bretagna. Siamo rumorosi, insistenti e pieni di talento.
Quando nel 1984 mi presero da Faber&Faber, l’editor di narrativa era Robert McCrum. Lui ai tempi era molto impressionabile, e io pure: non vedevo l’ora di entrare nel suo elenco di autori, dato che pubblicava Kazuo Ishiguro, Milan Kundera, Josef Škvorecký, Peter Carey, Mario Vargas Llosa, Caryl Phillips, Paul Auster, Lorrie Moore, Danilo Kiš, Marilynne Robinson e Vikram Seth. Poco tempo prima Rushdie aveva vinto il Booker Prize per I figli della mezzanotte e quel capolavoro, con i suoi echi di Günter Grass e Gabriel García Márquez, tutt’a un tratto ci apparve come una grande opportunità. Stava arrivando il mondo; un luogo che era stato angusto e sterile si stava aprendo. Questi libri ebbero molto successo: i lettori scoprirono di volerli, e oggi alla Penguin potrebbe accadere una cosa simile. Non si tratta di un gesto che può essere fatto una volta sola; bisogna ripeterlo di continuo. La cultura britannica – unico motivo per voler vivere in questo paese – si è sempre nutrita di ribellione, cocciutaggine e anticonformismo. Dal pop al punk, da Vivienne Westwood, Damien Hirst, Zadie Smith e Kate Tempest; da Alexander McQueen al vincitore di Oscar Steve McQueen, sono sempre state le voci dei giovani e degli esclusi a dare alla cultura inglese la vivacità per cui è ammirata. È risaputo ovunque che nessun paese europeo può vantare il capitale culturale britannico, e che per un artista non c’è posto più stimolante dove vivere. È qui che arte e mercato si incontrano: le opere di questi stessi artisti vendono in tutto il mondo.
La creatività inglese con cui sono cresciuto – nel pop e nella moda, nella poesia e nelle arti visive e narrative – è sempre sbocciata in luoghi diversi dal mainstream: dai club, dalle sottoculture gay, dalla classe operaia e dalla strada. Certo, molti suoi istigatori erano bianchi, ma non venivano dal ceto medio, classe sociale a cui, per come la vedo io, mancano la fantasia, l’audacia e il talento necessari a essere davvero sovversivi.
La verità è che la paura conservatrice davanti alle voci «altre» non si deve al timore che gli artisti esterni al mainstream manchino di talento e finiscano con il riempire gallerie d’arte e librerie di schifezze, ma che siano invece straordinariamente bravi: i conservatori dovranno mandar giù il fatto che, malgrado il successo degli artisti britannici, in giro c’è del talento autentico che l’egemonia culturale ha trascurato e avvilito, mediante la deliberata chiusura di scuole, mass media, università e mondo intellettuale a gente molto interessante.
È una bella notizia, che la razza padrona stia in ansia rispetto a chi dovrà stare a sentire. In questo terribile oggi della Brexit, che induce a riparare nel panico e nel nazionalismo proprio mentre la stessa cosa accade, in Europa è ora che gli artisti si facciano sentire e in specie quelli la cui voce è stata trascurata. Nessuno sa come sarebbe una cultura più democratica e inclusiva; ma dare per scontato che sarebbe peggiore di quella attuale è un futile esercizio di onniscienza. Il tentativo dei reazionari di mettere a tacere questo o quello dimostra sia paura, sia stupidità; ma è troppo tardi. Ci faremo vivi molto presto.
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«Il progetto della Penguin di dare più spazio a minoranze diverse – culturali, sessuali o legate alla disabilità? Molto interessante sul piano simbolico, ma ho qualche dubbio sulla traduzione pratica.» Giuseppe Laterza interviene sulla politica del politicamente corretto annunciata dal più grande gruppo editoriale inglese.
Perché ha dei dubbi?
Prima voglio dire che l’iniziativa di Penguin Random House mi sembra importante come reazione alla Brexit, anche se non viene mai citata. Penguin non è solo un autorevole marchio editoriale, ma è un publisher autenticamente pop, ossia capace di formare una cultura popolare: non dimentichiamo che è stato l’editore che ha riempito con i suoi tascabili gli zaini dei soldati che partivano per la guerra.
Quindi capace di influenzare l’opinione pubblica?
Per questo l’iniziativa va vista con interesse, specialmente in un momento storico segnato da esclusioni e barriere alzate. Però mi vengono in mente alcune domande che rivolgerei ai miei colleghi inglesi.
Quali?
Mettere insieme tutte le minoranze non rischia di creare discriminazione? Assumere un redattore perché disabile o gay non rischia di etichettare quella persona mettendo nell’ombra le sue qualità professionali? Insomma, bisogna procedere con molta accortezza per evitare che nascano nuovi ghetti.
Il politicamente corretto rischia di rovesciarsi nel suo contrario?
Il politicamente corretto funziona se è un ideale regolativo, non una prescrizione normativa. Se ogni volta che faccio una collana mi preoccupo che ci siano voci femminili, questo è giusto. Ma se una norma mi impone che almeno il trenta percento di quella collana sia fatta da donne, temo che diventi discriminazione.
Si è mai posto il problema degli autori gay?
No. Quando pubblico un libro non mi interrogo sulle preferenze sessuali di un autore. Non costituisce una questione. Se invece dovessi dargli una priorità in quanto omosessuale, mi chiedo se stia facendo realmente il bene dei gay o se non li stia riportando in un ghetto.
La formula di Penguin sembra difficilmente trasferibile nell’editoria italiana.
Nasce in un contesto culturale che è diverso dal nostro: a Londra il multiculturalismo si percepisce a occhio nudo. E diversa è anche la portata delle decisioni editoriali. Se pensiamo a questa parte di mondo come a una collina, loro stanno sopra e noi a mezza costa. In redazione, da Penguin, si possono permette di guardarsi intorno e di selezionare le cose più interessanti sapendo che le loro scelte sono «universali»: uscire in lingua inglese, sotto quella sigla, significa arrivare subito nelle biblioteche giapponesi, indiane, statunitensi, in altre parole nel resto del mondo. Noi non abbiamo la stessa potenza.
Resta il tema mosso da Penguin: come favorire l’inclusione.
Sì, soprattutto nell’attuale passaggio politico. Gli editori hanno una responsabilità civile molto grande. Ma alle quote per le minoranze discriminate preferisco il lavoro nelle scuole. Quello è il luogo dove possiamo educarci a capire cosa sia l’inclusione. Sarebbe bello se nel prossimo anno scolastico ciascun editore italiano s’impegnasse a «adottare» dieci scuole, mandando nelle classi i propri autori per parlare di multiculturalismo. Noi quest’anno l’abbiamo fatto a Torino, Roma e Bari: è stata un’esperienza straordinaria.
Lei dice in sostanza: più che rivolgersi all’élite colta che legge libri, meglio fare educazione civile tra gli studenti.
In parte è così, ma senza trascurare il pubblico di lettori forti. È la ragione per cui a gennaio pubblicheremo Politiche dell’inimicizia di Achille Mbembe, un filosofo del Camerun che insegna alla Sorbonne. Nel mercato librario italiano non vedo molta produzione saggistica dedicata al tema dell’inclusione, mentre la narrativa è ricca di voci che provengono da ogni parte del mondo.
Però è vero che gli intellettuali neri li scopriamo quando insegnano nelle grandi università dell’Occidente, quindi dopo essere stati selezionati dal ceto accademico bianco.
Sì. Qui si misura il problema sollevato da Penguin quando insiste sulla necessità di promuovere seminari contro i pregiudizi. Con la differenza che nelle grandi università anglosassoni c’è una forte tradizione di multiculturalismo, mentre in Italia siamo tragicamente impreparati.
Si riferisce anche all’università?
Sì, come dicevo prima non c’è una grande produzione scientifica sull’argomento. Da noi è mancata una discussione pubblica su come si possa fare inclusione e non assimilazione, ossia come sia possibile chiedere il rispetto dei nostri valori fondamentali ma senza imporre l’azzeramento delle altrui identità: un processo possibile solo quando anche gli italiani sono disposti a cambiare sé stessi. Ed è questo vuoto culturale a spiegarci perché oggi siamo succubi di una retorica leghista che identifica l’immigrazione con i barconi e i poveri disgraziati e non con i cinque milioni di persone che vivono nella penisola.
Eppure vantiamo un’antica storia di integrazione.
Sì, tutta la storia italiana è storia di inclusione, pur tra drammi e difficoltà. E invece ci ritroviamo in un paese che chiude i porti con il consenso di tanti.
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