Il tramonto del romanzo letterario nei consumi culturali italiani
Non abbiamo problemi a consumare centomila parole al giorno scrollando testi sparsi su internet, ma non riusciamo a finire un’opera di narrativa. Lo scrittore Paolo Di Paolo interviene sul dibattito aperto su Linkiesta da Guia Soncini sull’editoria e svela che, a leggere poco, pochissimo, sono soprattutto gli scrittori
«Ogni giorno consumiamo insaziabilmente circa trentaquattro Gigabyte, l’equivalente di centomila parole, grosso modo quante ne contiene un romanzo». Così scrive Giovanni Solimine, studioso di editoria e biblioteconomia e presidente della Fondazione Bellonci (Premio Strega), in un saggio di prossima uscita per le edizioni Aras intitolato “Cervelli anfibi, orecchie e digitale. Esercizi di lettura futura”.
Illuminante, in senso letterale: ricco di dati e di prospettive sulla rivoluzione della circolazione e delle forme di appropriazione del testo scritto, sull’era della distrazione e su come si sta erodendo – in tutti! – l’abilità della “lettura profonda”.
Altra citazione: «In un’epoca in cui svolgiamo molto più rapidamente lavori e attività che in passato richiedevano molto più tempo, la lettura di un libro esige lo stesso numero di ore necessarie uno o due secoli fa, e ciò può sembrare insopportabile».
Ricapitoliamo: ogni giorno, nell’insieme, leggiamo – tutti! – più o meno le parole contenute da un romanzo, ma fatichiamo a leggere romanzi.
Le riflessioni di Guia Soncini sull’irrilevanza dei libri (qui e qui) dovrebbero, anziché – come è accaduto – irritare qualche editore, spingere “coloro che scrivono” (userò questa espressione per indicare il vasto numero di scrittori, scriventi, aspiranti tali) a interrogarsi più a fondo sul senso del loro gesto e sugli effettivi destinatari. E non mi riferisco in prima battuta a chi incautamente si affida all’editoria a pagamento, rischiando di finire in quella zona grigia dell’invenduto perché non distribuito. Mi riferisco anche agli autori e autrici dei cosiddetti grandi marchi, trasversalmente delusi dall’inefficace lavoro dell’ufficio stampa, e poco propensi a porsi domande più radicali ed eventualmente auto-sabotanti sulla necessità del libro che hanno sfornato.
Beninteso: mi metto nel mucchio (e sì, mi esce un romanzo nuovo a breve). E sto dicendo che fa bene Soncini a porre il tema proprio perché nessuno se lo pone o intende porselo. Meglio: tutto si riduce al ritornello generico sull’Italia che legge poco, ogni volta che i dati lo confermano, ma è curioso che siano proprio gli scrittori e le scrittrici a interrogarsi meno di tutti sul perché.
Sul fatto che, come osservava Soncini, la fascia dei lettori resta grossomodo quella di sempre, benché si sia allargata la platea degli alfabetizzati (a saper leggere/scrivere, un secolo fa, era circa il trentadue per cento della popolazione mondiale. Oggi è l’ottantacinque per cento). Sul perché i libri entrino rarissimamente – se non sono quelli di un generale omofobo – nel dibattito. Sul perché anche i lettori forti, che pure sono il famoso zoccolo duro, si siano piuttosto indeboliti, impigriti, leggano più o meno sempre le stesse cose (come prendere sempre gli stessi gusti in gelateria) e forse con passione appannata.
Se non ci interroghiamo noi che scriviamo libri sulla fatica che facciamo a farli comprare, chi altro dovrebbe? Ma non lo facciamo perché è un argomento fastidioso, che intristisce, e perché richiederebbe una messa in discussione del nostro stesso fare, del pilota automatico con cui pensiamo al prossimo romanzo e lo scriviamo, pretendendo che fra infinite opzioni narrative debba esserci per forza qualcuno interessato a quella che abbiamo prodotto noi.
Gli scrittori attivi a Parigi nel 1750, secondo un curioso censimento, pare fossero trecentocinquantanove. Provate a pensare a quanti sono oggi. E a ciò che producono (a ciò che produciamo): non sempre roba originalissima e imperdibile, ammettiamolo, nonostante gli aggettivi in quarta di copertina e in bandella.
Una volta Alessandro Baricco – lo cito anche io – trovò una geniale e crudelissima espressione per definire larga parte della narrativa attuale. La trovò a una pompa di benzina: «olî esausti». Ingenerosa? No. E comunque, se vogliamo continuare a friggere con questi olî, non possiamo ignorare il problema della – non vogliamo dire irrilevanza? Bene, della sempre minore presa, capacità di infiltrazione, durata dei libri e in particolare dei romanzi, che pure fanno ancora la parte del leone, insieme alla “varia”, nei dati di vendita complessiva (ma i megaseller internazionali e nazionali lasciano quasi solo posti in piedi; per quanto – come dice Soncini – con numeri meno imponenti di quindici anni fa).
In un saggio che ho pubblicato qualche anno fa e che – dati alla mano – ha raggiunto circa seimila persone (tante? Poche? Philip Roth, pensando a numero simile che lo riguardava, disse che per tirarsi su bastava immaginarseli tutti e seimila in attesa fuori alla porta di casa), in un saggio, insomma, di cui mi permetto di riprendere un brano considerati i milioni di parlanti italiano che non l’hanno sfiorato, proponevo una sequenza di domande. Queste: perché hai più voglia di scrivere un tuo libro che di leggere quello scritto da qualcun altro? Qual è l’ultimo romanzo che ti ha fatto saltare sulla sedia e a cui non vedevi l’ora di tornare? Quando è stata l’ultima occasione in cui a tavola ti sei acceso parlando di un romanzo appena pubblicato? Sapresti definire in che modo un romanzo è alternativo rispetto ad altre forme narrative? Hai ancora – sii sincero – la voglia di leggere i libri che non si leggono in fila alla posta (una volta si diceva così), i libri difficili? (Nell’ultimo maestoso fosforico romanzo che ha lasciato, “La storia da dentro”, Martin Amis dice che i lettori dei libri difficili sono morti. Che un patto è stato tradito tra autori letterari e lettori. Che il romanzo “deduttivo” è morto, perché non esistono più lettori deduttivi. Esagerava? Non lo so. Il suo collega e connazionale Nick Hornby si è nel frattempo convinto che la lettura sia ormai «soltanto un’altra religione»).
Voglio aggiungere ancora un elemento: a non leggere, in Italia, non sono solo quelli a cui imputiamo la colpa. In Italia non legge nemmeno la classe dirigente (una volta, su Repubblica, difesi Lucia Borgonzoni, allora sottosegretaria forse proprio alla cultura, che candidamente confessò di non leggere un libro da tre anni. La difesi perché chi la attaccava lo faceva ipocritamente. Mi presi comunque gli strali degli stessi editori irritati che si sono accaniti su Guia Soncini).
In Italia non leggono i ministri ma non leggono nemmeno i manager, che parlano l’italiano più orrendo che sia stato mai emesso da apparato fonatorio. Non leggono mai. Non leggono niente. E voglio rovinarmi: secondo me leggono poco, pochissimo anche quelli che per mestiere si occupano di libri. I giornalisti culturali: per carità, assediati dai volumi, anzi sommersi. Però leggono poco. Non hanno tempo. Leggono poco anche gli editori: poco i libri che pubblicano, poco i libri pubblicati dagli altri. Non hanno tempo. E d’altra parte «non ho tempo», per chiudere il cerchio con la citazione dal libro di Solimine, è l’attenuante che si oppone quando qualcuno apre il discorso sulla lettura. Io non dico nemmeno che sia un problema in senso assoluto l’eventuale tramonto del romanzo letterario nei consumi culturali –a patto però che fra i consumi resti qualcosa di definibile come culturale.
Resta legittima – scrive Giuliana Benvenuti, italianista a Bologna nell’interessante e recente La letteratura oggi. Romanzo editoria transmedialità (Einaudi) – la domanda «se e fino a che punto si possa parlare oggi di “specifico letterario”, chiedersi se la posizione che la letteratura occupa nel sistema mediale non sia in fin dei conti marginale; se la letteratura conservi una qualche autonomia; se esista un confine tra scritture legate alle logiche di intrattenimento, o destinate alla ricreazione personale, e testi dotati di capacità critiche e conoscitive sull’umanità, sul mondo e sulle stesse nuove dinamiche della produzione culturale». Per questo, male non fa andare incontro a quella che i francesi chiamano, gagliardi e compiaciuti come sempre, la rentrée editoriale con qualche sana preoccupazione di categoria. Perché la cosa che volevo tenermi per ultima, è quasi indicibile, o come direbbe Soncini, «è un’iperbole, ma non del tutto»: a leggere poco, pochissimo, in Italia, sono soprattutto gli scrittori.
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