Social network, morte di una persona cara, pandemia: sono realtà accomunate dall’esperienza della distanza fisica. Quello del distanziarsi è un approccio possibile per comprendere appieno se stessi e l’altro e maturare uno stile di relazione fatto di cura profonda e consapevole.
Il valore della distanza
In un contesto culturale in cui la riflessione filosofica fa i conti sempre di più con la necessità di scoprire chiavi di lettura inedite che rinnovino lo studio sull’essere umano come un essere per, con e tra gli altri, un lucido apporto è offerto dalla pubblicazione, per la casa editrice Mimesis, del volume L’io nella distanza. Essere in relazione, oltre la prossimità di Donatella Pagliacci. Occupando infatti il vivace spazio di confine tra l’antropologia filosofica, la filosofia morale e l’etica della cura, il testo non manca l’obiettivo di offrire importanti contributi e spunti interessanti all’interpretazione delle modalità esistenziali, relazionali e abitative umane.
Pagliacci riesce nell’intento di ripensare in maniera profonda e originale il tema della distanza, declinandolo nelle sue accezioni positive entro vari ambiti dell’esperienza personale e pubblica. A partire dall’interpretazione dell’essere umano come di un essere vivente eccentrico – secondo una definizione tipica dell’antropologia filosofica contemporanea1 – la cui disposizione relazionale si realizza innanzitutto attraverso la capacità di distanziarsi da sé, dagli altri e dal mondo, l’autrice rielabora infatti il concetto stesso
di relazione, intercettando i luoghi e i tempi nei quali avvengono incontri ed eventi segnanti.
Dalla consapevolezza che è impossibile concepire un rapporto di prossimità che non si realizzi pienamente e autenticamente attraverso un costante dialogo con la capacità di distanziarsi, nasce dunque un saggio che compie una fenomenologia della distanza o, meglio, delle distanze che vivificano le esperienze fondamentali della vita umana, a partire da quella grazie alla quale la generatività e la maternità si realizzano al modo di un’accoglienza che ama e si prende cura di un’alterità, senza possederla. Così, con uno stile elegante ed efficace, l’autrice rileva l’importanza di affidare la dimensione dell’amore a «un’equilibrata e sorvegliata distanza, che non serve a diluire il legame, ma a mantenerlo perché non reprime in modo asfissiante le rispettive alterità, ma le tiene in un sano e proficuo equilibrio, in cui circolano affetto e rispetto, donazione senza attesa, riconoscimento e fiducia» (p. 156).
Nel segno di tale “prossimità distante” si realizza anche un’altra relazione fondamentale che l’essere umano intesse: quella di cura, approfondita nel volume attraverso un percorso di analisi che affonda le radici sulla lettura del dolore, in primis di quello fisico, come di un evento che “cosalizza” la persona e ne riduce la complessità, inchiodandola a uno stare al mondo senza aver più possibilità di operare in esso. Al dolore è connessa la sofferenza, intesa dall’autrice come quella reazione al dolore stesso che consiste nel prenderlo su di sé e che spesso può costringere la persona a una paralisi che non lascia scampo. Accanto al risvolto individuale di questi eventi traumatici che colpiscono la vita umana, l’autrice riconosce e analizza anche quello sociale, cogliendo così l’importanza dell’alterità, attraverso la valorizzazione di alcuni elementi di supporto che essa può offrire, quali lo sguardo, la compassione e l’empatia. Questi rendono possibile una cura autentica e liberano l’atto dell’approssimarsi all’altro da determinazioni riduttive che impedirebbero di vederlo e sentirlo, quali un eccessivo distanziamento o un’esagerata vicinanza.
L’importanza del volume si attesta anche in relazione all’attualità della riflessione condotta, che rimane valida anche se contestualizzata nel tempo in cui viviamo, il quale riserva nuove insidie alla relazione stessa con gli altri. In un contesto che spesso fa dello spazio virtuale il luogo privilegiato dell’incontro con l’alterità, infatti,
prossimità e distanza rischiano di confondersi e di mescolarsi in modo malsano, trasformando la relazione in un gioco di indifferenze. Ancora di più, poi, l’invito di queste pagine vale nella difficile situazione che il mondo intero si è trovato a fronteggiare in seguito alla minaccia del Covid-19: quando, infatti, persino i rapporti educativi, luoghi privilegiati della relazione diretta tra persone, devono compiersi “a distanza”, c’è il forte rischio che si faccia affidamento a modalità deleterie di posizionarsi reciprocamente, che non favoriscono alcuna crescita e alcun tipo di sana formazione.
In aggiunta a ciò, il volume rappresenta un’importante occasione per ripensare un altro elemento che segna la vita delle persone: quello della colpa, che talvolta investe in maniera radicale l’esperienza umana nel mondo, precludendo possibilità relazionali positive e costruttive. Un’intelligente rivalutazione della figura del colpevole è compiuta dall’autrice attraverso un’analisi di tre momenti della colpa: il primo, quello del senso di colpa di chi ha provocato la sofferenza di altri; il secondo, quello del rapporto tra la colpa e la responsabilità; il terzo, quello della memoria della colpa, sanabile attraverso il processo del perdono. Rispetto a tutte queste determinazioni della colpa, interviene nuovamente la necessità di scoprire il corretto posizionamento – sempre nel gioco di vicinanza e distanza – tra la vittima e il carnefice e tra il colpevole e la propria colpa, cosicché non si identifichi la persona a un ruolo, quello appunto di colpevole, inchiodandola per sempre ad esso. L’auspicio è quello che si possa «scoprire qualcosa di nuovo e di ulteriore, perché vi è sempre un irriducibile positivo nell’essere umano, che senza liquidare del tutto la colpa, consente di passare dal piano della colpa a quello della responsabilità» (p. 241).
Un’altra distanza che il volume affronta, con la lucidità che sorregge tutte le sue pagine, è quella che richiama la persona a un sano rapporto con la morte, propria e altrui, nei pressi della quale, di nuovo, una salutare distanza rende possibile un autentico approssimarsi a se stessi, agli altri, pur nella consapevolezza della fine. In questo rinnovato modo di incontrare e incontrarsi, la persona può trovarsi, ancora una volta e per l’ultima volta, nella cura e può riconoscersi all’interno di un illimitato permanere nell’amore, che, oltre il tempo che scorre, non finisce neanche quando finisce la vita.
Attraverso dunque una straordinaria chiarezza stilistica e una profondità contenutistica non indifferente, l’autrice consegna al lettore un saggio importante, che si delinea al modo di un elogio della distanza contestualizzato in un’analisi efficace di alcune importanti tappe del viaggio umano lungo la vita. Di esso vengono riconosciuti come fondamentali i momenti, densi di senso, nei quali la relazione con l’alterità riceve nuova linfa se ripensata entro uno spazio in cui, grazie al dispiegarsi di una prossimità che si mantiene a una giusta distanza, diviene possibile incontrarsi reciprocamente senza fondersi gli uni negli altri. La valorizzazione della dimensione della distanza diviene dunque il punto di originalità e di forza di una pubblicazione che dà prova di grande approfondimento delle questioni affrontate e che, anche avvalendosi del contributo autorevole di svariati riferimenti bibliografici, riesce a delineare un percorso volto a decostruire una lettura esclusivamente negativa della distanza, pur senza cedere ad apologie ingenue.
Strappando infatti il concetto stesso dalle grinfie di un senso comune che spesso lo identifica solo come un’inopportuna mediazione che costringe due io all’incomunicabilità, l’autrice riesce a intuire e a far intuire quanto sia fragile l’equilibrio della distanza, che sempre deve fare i conti con il rischio di atrofizzarsi o annullarsi, da una parte, e, dall’altra, con quello di estendersi fino a cancellare qualsiasi tipo di interesse empatico.
Così, dunque, il lettore può cogliere, nel corso delle circa trecento pagine che il volume ospita, un’occasione per rintracciare quella che si delinea come una vera e propria grammatica della relazione, nella quale sempre c’è il rischio di trovarsi “troppo lontani o troppo vicini”.
Né troppo lontani né troppo vicini, quindi, ma «prossimi nella distanza»: è questo l’invito all’amore che l’autrice propone attraverso il suo libro, che, come una carezza, mostra la via per lenire quelle ferite personali, sociali e culturali provocate da modalità di incontro malsane.
Note
1 Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando Editore, Roma 1998; H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
Francesca Petetta è dottoranda in Neuroscienze all’Università di Camerino. Presso l’Università di Macerata ha conseguito le lauree triennale e magistrale in Filosofia e in Scienze filosofiche, mentre all’Università Politecnica delle Marche ha seguito il master in Medicina narrativa, comunicazione ed etica della cura.
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