Italo Calvino, le sorprese di uno scrittore inatteso
«Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati : messaggi che mi sarebbe difficile comunicare ad altri, definire, tradurre in parole, ma che appunto perciò mi si presentano come decisivi. Sono annunci o presagi che riguardano me e il mondo insieme, e di me non gli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d’essere generale di tutto».
Questa espressione da Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) può essere una chiave di lettura di ogni opera di Calvino, perché ne giustifica la profondità e l’universalità delle affermazioni, pur mascherate sempre da una ironia e divertente fantasia.
La vediamo realizzata perfettamente e in modo diverso, in tre opere, che non sono quelle che hanno ottenuto maggior successo di pubblico e consensi della critica ufficiale, ma in pagine da alcuni poco apprezzate e, forse, meno comprese nella loro provocatoria acutezza.
La Luna per capire la Terra
“Una volta, secondo Sir Gorge H. Darwin, la Luna era molto vicina alla Terra. Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano: le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia”.
È l’incipit de Le Cosmicomiche del 1965, nel primo dei 12 racconti, La distanza della Luna.
Le fantasie dello scrittore sono imprevedibili: il vecchio Qfwfq si ricorda che una volta la Luna passava nella sua orbita ellittica vicino alla Terra e le persone vi salivano per prendere il latte lunare. Ma una volta si fermò un mese perché innamorato della moglie del comandante della navicella spaziale, che ricambiava suonando l’arpa e non volle più scendere sulla Terra.
Bastano questi cenni per cogliere al volo i suggerimenti che lo scrittore suscita e i richiami all’Astolfo sulla luna di Ariosto, al primo scrittore di fantascienza J. Verne e alle sonate di Chopin e Beethoven. Il gioco tra scienza e finzione si ripete all’infinito in tutta l’opera, come si può intuire dai titoli degli altri racconti: Sul far del giorno parla del primo giorno della creazione e , quando alla sera piomba il buio, sembra la fine del mondo, invece è l’inizio di un nuovo giorno e di una settimana e di un mese, finché cambia la luna e la vita continua.
Altri titoli: Un segno nello spazio, da ritrovare 200 milioni di anni dopo (cos’è il tempo? può rispondere S. Agostino, Pascal, Einstein); Tutto in un punto, Senza colori, Giochi senza fine, in cui si gioca a far volare le galassie, Lo zio acquatico, Quanto scommettiamo?, I dinosauri, La forma dello spazio, Gli anni luce, La spirale.
Si è molto parlato dei rapporti di Calvino con la scrittura fantascientifica. Per lui non fu un caso o un tentativo. I suoi genitori erano studiosi e docenti universitari di queste discipline e lui nacque a Las Vegas presso L‘Avana in un bungalow del coloratissimo giardino botanico tropicale, diretto dal padre Giacomo, agronomo di origine sanremese e dalla madre Evelina, sarda, laureata in Scienze Naturali e assistente di Botanica all’università di Pavia. Nel 1926 decidono di ritornare in Italia, perché un uragano ha distrutto la casa e il terreno per le culture. Però lui costruisce le storie in modo diverso: mentre la fantascienza tratta del futuro, egli si rifà ad un passato remoto, una sorta di mito delle origini (vedi la trilogia araldica Gli Antenati, dove inserisce sempre spunti di poesia e richiami alla creazione artistica.
Lo scrittore della leggerezza
Calvino spiega cosa intende per “leggerezza” in Lezioni americane, che fu invitato a tenere all’università di Harvard nel Massachussetts nell’anno accade-mico 1985 – 1986 e che preparò tutte al completo, eccetto l’ultima e comprendono : la leggerezza, la rapidità, la esattezza, la visibilità, la molteplicità e la coerenza (solo progettata).
«Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo penso che sulla leggerezza ho più cose da dire».
Così inizia Lezioni americane e subito esplicita il senso di «definizione complessiva per il mio lavoro» e propone questa : «La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere il peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città, soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».
L’opera, di massima importanza per capire il metodo di lavoro dello scrittore e i suoi criteri sul linguaggio, offre anche appunti utili per orientarsi nelle trasformazioni che apparivano davanti ai suoi occhi negli anni Ottanta. L’informatica è ancora configurata nell’ambito numerico, ma Calvino propone suggerimenti che vanno ben al di là di queste applicazioni. In tutte Le lezioni egli sottolinea la sua predilezione per testi brevi e aggiunge osservazioni meno ovvie: considerare la scrittura come sistema di controllo del pensiero e l’importanza del ritmo, anche nelle narrazioni in prosa.
Ogni lezione si riferisce a sue opere precedenti, quasi una rivisitazione critica, sottolineando per ciascuna , uno specifico valore della composizione, che lui riteneva importante e che considerava alla base della letteratura per il nuovo millennio.
Troviamo inattese citazioni dalle Metamorfosi di Ovidio nell’episodio di Perseo e la Medusa e da Piccolo testamento di Montale, con riferimenti anche agli ultimi risultati della ricerca scientifica: «oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quark, neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…bit senza peso…».
Palomar, l’uomo nuovo per il terzo millennio?
Il mondo guarda il mondo: in seguito ad una serie di disavventure intellettuali , poco importanti, il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. Un po’ miope, distratto, introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in quel tipo umano, che di solito viene definito un osservatore. Assomiglia un po’ all’ingenuo Marcovaldo del racconto I boschi dell’autostrada. Eppure gli è sempre successo che certe cose – un muro di pietre, un guscio, una conchiglia, una foglia, una teiera – gli si presentino come chiedendogli un’attenzione e prolungata (potremmo aggiungere: come guardare una natura morta di Giorgio Morandi!).
Egli si mette ad osservarle, quasi senza rendersene conto e il suo sguardo comincia a percorrere tutti i dettagli, e non riesce più a staccarsene. Il signor Palomar ha deciso che d’ora in avanti raddoppierà la sua attenzione: primo, nel non lasciarsi sfuggire questi richiami che gli arrivano dalle cose; secondo, nell’attribuire alla operazione dell’osservare l’importanza che essa merita.
Risulta chiaro che Palomar non è così dipendente dalle cose, come a prima vista, sembrerebbe, ma ha con loro un duplice legame di attrazione – controllo: “ l’universo come specchio”. Capita anche nei rapporti con il prossimo: invidia le persone che hanno il dono di trovare sempre la cosa giusta da dire, il modo giusto di rivolgersi a ciascuno, che si sentono a loro agio con chiunque si trovino e che mettono gli altri sempre a loro agio.
Però tendono a muoversi con leggerezza tra la gente, capiscono quando devono difendersi e quando guadagnarsi la simpatia e la confidenza; danno il meglio di sé nel rapporto con gli altri e invogliano gli altri a dare il loro meglio: ma, poco o tanto, non siamo tutti anche noi dei Palomar?
La risposta ce la dà Calvino stesso, facendo capire che Palomar non è una persona! Il nome è quello di un celebre telescopio di un osservatorio della California, potente nello scrutare i particolari anche più piccoli degli astri: il comportamento umano deve seguire le medesime norme: concentrarsi ogni volta su un fenomeno isolato, chiaramente distinto. Senza questa “messa a fuoco” preliminare, nessuna forma di conoscenza è possibile, anche se, all’atto pratico, risulta ogni volta meno semplice di quello che si credeva. Galileo ha scritto di limiti, difficoltà e grandezza del sapere umano, massimo dono, affidato da Dio Onnisciente ad ogni persona.
Anche il difetto di Palomar è speculare: taciturno, forse, perché ha vissuto troppo a lungo in un’atmosfera inquinata dal cattivo gusto della parola, intercetta segnali fuori di ogni codice, assorbito dalla massa, intreccia dialoghi muti, tenta di costruirsi una morale, che gli consenta di restare zitto il più a lungo possibile. Forse è per rintracciare il filo del discorso, che scorre là dove le parole tacciono, che egli tende l’orecchio al silenzio degli spazi infiniti o al fischio degli uccelli, e cerca di decifrare l’alfabeto delle onde marine e delle erbe di un prato.
Articolo già apparso in Dimensioni Nuove, Gennaio 2011.
Per gentile concessione dell’editrice Elledici.
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