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La fatica del linguaggio

di Massimo Palombella
Fonte: Armonia di voci 2/2010

Spesso ci capita di ascoltare qualcuno che parla in pubblico e percepire che il suo modo di esporre, di ragionare, di comunicare o appartiene al passato o non dice nulla di davvero importante.

Ciò non significa che le cose dette non siano vere o che non siano giuste e magari possiamo anche condividerle. Il problema è che il tutto ha un odore di «vecchio», di «inutile», sembra rimandarci a qualcosa che si faceva una volta ma che oggi risulta essere non collocato, fuori luogo.

E purtroppo tante volte percepiamo questa sensazione anche in ambito ecclesiale. Possiamo seguire un’omelia bellissima, chiara, ben articolata e alla fine arrivare a domandarci a che cosa sia servito ascoltarla. E allora capita di chiedersi se tutto ciò che è stato detto sia capace davvero di comunicare qualcosa all’uomo di oggi e cioè all’adolescente che frequenta una scuola superiore, allo studente universitario, al giovane papà, alla giovane mamma, a chi cerca lavoro, al seminarista di oggi… In tutto ciò credo che la vera questione non riguardi i contenuti ma piuttosto se le modalità con le quali articolo i contenuti vengano incontro alla contemporaneità, si lascino sfidare dalle problematiche reali dell’oggi e a queste, dialogando, cerchino di dare risposta.

Mi sembra che lo stesso problema comunicativo dovremmo avvertirlo anche nella Liturgia e specificatamente in quell’istanza intimamente connessa con l’Azione Liturgica che è la musica. Dico che dovremmo avvertirlo perché forse è ancora una questione lontana, almeno in Italia. Infatti, ci troviamo spesso combattuti tra un orientamento scolastico di musica scritta bene, corretta dal punto di vista formale e grammaticale, e un orientamento un po’ dilettantistico che mira ad un’immediata cantabilità senza troppa preoccupazione formale e grammaticale.

Ho però l’impressione che entrambi gli orientamenti – oltre a farsi purtroppo una gratuita e continua critica vicendevole – in fondo non recepiscano la questione succitata, nel senso che in radice non si lasciano davvero sfidare dalla contemporaneità.

Cioè, non basta «scrivere bene» o avere l’immediato successo assembleare, credo che occorra affrontare la fatica del linguaggio che è un processo mai compiuto ma che in fondo ci mantiene vivi obbligando ognuno di noi a studiare e ricercare.

La fatica del linguaggio è ciò che ogni musicista ad un certo punto del suo cammino dovrebbe affrontare, operando quella separazione dai propri maestri necessaria a non esserne un clone, prendendo la distanza da un linguaggio scolastico dove gli unici problemi rischiano di essere le quinte, le ottave, le dissonanze preparate, la tecnica…

E tutto ciò, in un critico dialogo con il presente momento storico, cercando quel proprio linguaggio che dica plasticamente la propria storia, le proprie fatiche, le proprie gioie, i propri dolori, la propria forza, la propria fede… In sostanza che dica liberamente «me stesso». Ma se ci pensiamo bene la « fatica del linguaggio» è la sana fatica della vita, dell’essere papà, mamma, prete, insegnante…

È accettare che la realtà cambia, che brillanti schemi educativi, relazionali, musicali… non funzionano più e che per vivere nella realtà sono io – e solo io – che devo cambiare, e che questo cambiamento è la mia vera salvezza.

Sono convinto che possiamo affrontare la sfida linguistica solo se siamo persone che davvero studiano, si interrogano circa il passato e il presente e guardano intensamente il futuro, continuano ad avere una costante frequentazione critica delle fonti per comprenderne la grandezza, il limite e l’evoluzione. E dentro questo faticoso ed insieme affascinante processo impariamo forse ad apprezzare anche quei musicisti che istintivamente non ci piacciono e che non ascolteremmo mai. Forse riusciamo a non cadere nella sottile tentazione di affermare, ad esempio, che dopo Verdi non c’è stato più nulla. Forse riusciamo ad evitare la creazione del mito sia di Palestrina come di Schönberg, come di qualche musicista vivente. Insomma, possiamo affrontare la «fatica del linguaggio» se siamo persone libere e rappacificate, senza il bisogno di una «corte» che ci aduli, se non abbiamo nemici da combattere, status da difendere, assoluti da non negoziare.

Il servizio in una Chiesa maestra di umanità dovrebbe umanizzarci sempre di più, condurci alla vere sfide, darci il coraggio di percorrere nuove strade, la forza di spenderci per ciò che davvero resta oltre noi.

Fonte: Armonia di voci 2/2010
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