La Terra è del futuro (Emilio Gabrielli, Gabrielli Editori, 2021)
Dalla Prefazione
L’UTOPIA DI EMILIO GABRIELLI, UNA PROPOSTA DI FUTURO SOSTENIBILE
di Paolo Farinella
Il libro, anzi “la lettera agli Amici” come familiarmente dice Emilio Gabrielli, non è un libro nel senso classico della editoria, pur avendone veste e forma. Esso è un desiderio che sogna un progetto per altro “già vissuto”, eppure “non ancora” realizzato, per utilizzare la geniale categoria del grande teologo Oscar Cullmann. Occorre cercare ancora questa realizzazione in cammino perché manca una progettualità complessiva “politica” della società e della ecclesialità che dia il senso dell’insieme nell’unità dell’idea e nella molteplicità o diversità della composizione.
Il libro o “lettera” affettiva di Emilio non è nato a tavolino né nella ricerca speculativa in cui spesso si accomoda la teologia – o quello che resta di essa –, ma nel silenzioso ascolto delle rotative della macchina da stampa che, nell’imprimere ogni foglio, ne accarezzava le singole parole e quindi l’anima, di cui ogni parola, detta o scritta, è dotata perché porta in sé il germe della comunicazione interpersonale come mezzo primario di condivisione di vita.
Il tema del libro è la Vita in tutta la sua pienezza, fatta di terra e territori individuabili, di azioni politiche in parte sperimentate dall’autore (fu sindaco apprezzato di San Pietro in Cariano in Valpolicella), di speranze di fede (l’autore è un laico teologo) e anche un tessitore di reti tra il Veneto (il Veronese) e le zone terremotate del Piceno (dove sono le sue antiche radici) come anche con le Agorà della memoria dell’abazia di Fonte Avellana, in provincia di Pesaro. Se dovessi sintetizzare la “visione”, metterei di fila alcune parole che insieme formano la costruzione base del sogno, che pur restando un’aspirazione, l’autore ha vissuto tutta la vita, insieme alla moglie Lidia e, in seguito, anche alle loro figlie che oggi continuano il lavoro di stampatori-editori. Le parole sono:
Agorà della Memoria, come flusso di vita sempre in azione.
Agricoltura, come fondamento della “cultura” generazionale.
Comunità, come misura laica e anche credente del “con-vivere” e del “con-dividere”.
Ecclesialità, come assunzione del paradigma vissuto dall’uomo di Nazaret.
Eucaristia, come “luogo” prototipo del convivio nella “spezzare il pane”.
Giovani, come stato di passaggio e custodi della Memoria ricevuta
Giubileo, come costante ritorno al principio nel segno della remissione di ogni debito.
Terre Picene e Valpolicella, una macroregione per una Europa nuova.
Territorio, come luogo dell’anima e geografia di cultura, simbiosi tra terra e interiorità.
Economia, come banco di prova delle prospettive precedenti.
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Il punto di partenza dell’utopia di Emilio Gabrielli è la sinagoga di Nazaret in Galilea in un sabato imprecisato dell’anno 27ca., quando un giovane rabbi, Yòshua bar Josèph – Gesù figlio di Giuseppe, falegname, intraprese la carriera di rabbi itinerante. La storia affidata alle Amiche e agli Amici, quasi in una conversazione nel tinello di casa della famiglia Gabrielli, parte anche da un’altra sinagoga, questa volta romana, quella che nel 1964, a concilio Vaticano II ancora in corso, gli indicò a Roma, Tommaso Federici il suo insegnante di Scrittura e relatore della tesi di laurea in teologia
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Nazaret, dunque come punto di partenza e di arrivo, perché uno degli aspetti dell’operaio nazareno è che egli chiude sempre il cerchio, non lasciando mai aperta una iniziativa o progettualità. Gesù è concreto, così concreto che non parla mai astrattamente, ma utilizza solo immagini e argomenti “umano-terrestri”: il campo, la vigna, gli uccelli, il mare, il bue, il grano, i bambini, i malati, ecc. Quando inizia il suo magistero di rabbi itinerante, non presenta un programma asettico, elaborato da un algoritmo, ma s’inserisce “dentro” una storia, di cui egli respira la vita e di cui si sente parte viva. Va in sinagoga, cioè nel luogo della comunità e riprende un progetto antico di almeno cinque o sei secoli che fa suo senza la presunzione di volere essere “nuovista” a ogni costo. Egli s’inserisce nel solco di una tradizione profetica e culturale che coinvolge il culto, la vita, le scelte di ogni giorno.
Un vero capovolgimento.
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Emilio Gabrielli coglie l’urgenza di portare ad armonia tutti i temi che elenca con puntiglio come tappe della sua vita, assunta a paradigma di un percorso personale, coniugale, familiare, comunitario per approdare all’ultimo passo, quello economico e politico che è e resta il banco di prova di ogni scelta. È un atto di profezia compiuta. Il profeta non è colui che anticipa o predice il futuro, ma nella Bibbia il profeta è colui che sperimenta nella propria vita la parola che gli viene affidata sul conto delle generazioni future.
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Partire da Nazaret, significa assumere le parole di Gesù come progetto di vita integrale e domandarsi in che modo, oggi, possiamo tradurle in progetto politico ed economico
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Il discepolo del profeta Isaia (sec. V a.C.), esiliato tra gli esiliati di Babilonia, intese proporre lo statuto del Giubileo biblico, che avrebbe dovuto essere alla base della ricostruzione della nazione giudaica dopo l’editto di liberazione di Ciro (538 a.C.). Se oggi siamo alle prese ancora con la proposta di un giubileo, ed Emilio Gabrielli ne descrive un’esigenza ineludibile e improcrastinabile, è segno che i tempi sono maturi. Lo sono anche i cristiani? I laici, credenti e non credenti? Occorre una grande intelligenza per vedere, con gli occhi dell’immaginazione, l’arcobaleno che dal dopo diluvio di Noè si estende alle generazioni future (cfr. Gn 9,12-17), fino a noi per impegnarci nella costruzione della “Casa comune” di cui non siamo mai proprietari, ma usufruttuari temporanei col compito entusiasmante di consegnarla ai figli e ai figli dei figli… dei figli, ai quali dovremmo offrirla migliore di quanto l’abbiamo ricevuta.
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Ai laici non credenti non resta che prendere in mano la Costituzione italiana del 1948, cui è dedicato tutto il capitolo VIII del libro di Emilio Gabrielli, condividerla con i giovani che rischiano di perderla, mentre ai laici credenti, dopo essersi muniti della stessa Costituzione in quanto cittadini, non resta che prendere finalmente sul serio il progetto di Gesù di Nazaret, esposto nelle Beatitudini (cfr. Mt 5, 1-10; Lc 6,20-26), nel Padre Nostro (Mt 6,9-15; Lc 11,2-4) e nel Magnificat di Maria anche lei di Nazaret (Lc 1,46-56), e al canto del “Veni, Creator Spiritus”
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Ora può cominciare il Giubileo perenne che Emilio Gabrielli richiama a ogni pagina del libro che abbiamo finito di leggere per realizzarlo nella vita di ciascuno e nella storia umana. Porremo le basi per un cambiamento di mentalità e di cultura, iniziando ciascuno nel proprio ambito affettivo, nel proprio luogo di lavoro, nella propria esperienza di spiritualità condivisa. Realizzare il “giubileo permanente” non sarà più una rievocazione storica o religiosa moralistica, ma il fondamento di un nuovo mondo costruito sulla giustizia e sulla fratellanza che non si esauriscono in un singolo atto. Come i discepoli di Emmaus, staremo sempre sulla strada col cuore ardente di gioia nel vivere e condividere la Parola di Gesù di Nazaret.
Finalmente, qualcuno o molti lettori vedranno realizzato il sogno di Giorgio La Pira, il profeta laico che visse di utopia evangelica: sul finire degli anni ’50 del secolo scorso annunciò che il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei contadini, dei poeti, degli artigiani e degli artisti. In fondo la fede altro non è che indossare un paio di scarponi e camminare per i sentieri che altri hanno aperto e che noi manteniamo agevoli e praticabili anche per le generazioni future.
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Dall’Introduzione
UN CAMMINO CULTURALE
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Nella sinagoga di Nazaret
Giunto alla mia tarda età, ormai ragguardevole, continuo a sentire l’importanza e l’urgenza che consiste nell’intraprendere il cammino radicale e gioioso che Gesù di Nazaret offre come prospettiva di vita piena a un uomo ricco: «Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”» (Mt 19,21). Siccome sono cristiano questo cammino lo propongo a me e “oggi”. Sono come incastrato: è mai possibile rifiutare a priori la proposta a me fattami di raggiungere la pienezza dell’esistere, è come negare me stesso, o, anche, continuare a cercarla rimandando però il servizio al povero? Non è possibile, soprattutto alla luce di un’altra affermazione di Gesù ancora più stringente: «Nessuno può servire due padroni […] Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24), si escludono l’un l’altro. Su questo tema è impossibile tergiversare; è grave perché, per definizione, i poveri non possono attendere.
Ma una seconda cosa sto imparando e, cioè, che sarò nella pienezza umana se avrò dato i miei beni a più poveri contemporaneamente aiutandoli ad essere solidali tra loro.
Ma una terza cosa il Maestro mi sussurra, con amorevole attenzione: sappi fratello mio che la povertà è un pozzo senza fondo, è figlio della malvagità umana; dice Gesù: «I poveri, li avrete sempre con voi» (cfr. Mt 26,11). Se continuerete a fare sempre un nuovo tutt’uno con loro persisterete nel cammino verso la pienezza umana.
Ma una quarta cosa fa il maestro: il povero e i poveri di umanità, al singolare e al plurale, sono al centro del suo cuore e della sua sofferenza tanto da impegnarsi di fronte allo Spirito del Padre e della comunità, e chiamando a testimone il profeta Isaia, nella sinagoga di Nazaret consacra tutta la sua vita a loro servizio. Sapeva bene che inginocchiarsi davanti ad un povero per servirlo era inginocchiarsi di fronte a Dio.
La formulazione profetica del dire di Gesù sembra assumere il Giubileo come remissione universale dei debiti e, quindi, la possibilità di ristabilire lo stato di dignità e di libertà, evidentemente compromessi. Gesù, all’inizio della sua attività di rabbi, senza mezzi termini fa suo l’insegnamento del profeta; infatti, riavvolto il rotolo e messosi a sedere (posizione propria del maestro), mentre gli occhi di tutti erano fissi su di lui, disse: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Oggi, come dire: sappiate che faccio il discorso di Isaia perché è attuale e vi riguarda personalmente.
Portare ai poveri la notizia della loro salvezza: è questo il compito primario che Gesù – maestro laico ed operaio – si pone e che propone a quanti accettano la sua sequela. Compito che richiede una profondità etico-morale e spirituale per chi accetta di spezzare e donare la propria vita, poiché i nemici di un tal progetto sono veramente tanti e camuffati in mille fogge.
Si suol dire: “Ad una persona per bene tocca tutto, ma non la sua sicurezza economica”. Invece, per annunciare ai poveri la loro salvezza, occorre mettersi, camminando, nella loro insicurezza ed arrivare a una sicurezza comune, che sta nel giocare in solido la vita di tutti. In ciò consiste il giubileo, pensato da Gesù come permanente, partendo dalla tradizione dei padri che ipotizzavano degli anni giubilari tra i sette e i quarantanove anni a livelli diversi.
Il giubileo di Gesù voleva essere un movimento di riposizionamento permanente di tutto un popolo di fronte ai beni fondativi dell’esistenza. Riposizionamento dei beni attuato non solo attraverso strutture giuridiche, ma soprattutto attraverso la conversione del cuore.
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Schema del lavoro
Come il lettore ha già avuto modo di annotare lo stile adottato è colloquiale, come se si fosse in un’aula scolastica e l’autore si fa insegnante, o in casa attorno al tavolo di cucina, e quindi partecipe con tutta la sua vita narrando di sé, evocando storicamente l’evolversi dei vari cammini comunitari, magari a volte solo sognati.
Il libro si divide in due parti e un’appendice. Nella prima parte con 14 capitoli si tende ad illuminare altrettante stanze che, pure abitate, sono rimaste a lungo con le imposte chiuse, al limite dell’asfissia; hanno invece bisogno, gradualmente, di nuova luce e di pieno e risanante ossigeno. Si tratta di reimparare a pensarsi come comunità e territori con cuori rinnovati in modo da risplendere in novità di Essere. La meta finale è quella di realizzarsi come giubileo, come anno di grazia (di giustizia) permanente.
Nella seconda parte presento il programma formativo-politico del Padre nostro. Programma assertivo di Gesù: quando pregate, pregate così (cfr. Mt 6,9-15). Nel linguaggio di Gesù il pregare è assunzione di un impegno, di un mettere in pratica, è la proposizione di un programma e di un impegno politico, che si cadenzano in sette quadri.
Conclude, infine, una appendice dedicata a un primo accen37 Introduzione – Un cammino culturale
no descrittivo dell’organizzazione e della vita delle comunità del Guaraní, chiamate reductiones ripiene dello spirito giubilare proposto da Isaia e da Gesù di Nazaret. Potrebbe rappresentare un’occasione per uno studio sistematico di quella esperienza e così rinverdirne i fasti. Si scoprirà che la teologia della liberazione della seconda metà del ‘900 ha radici secolarmente più profonde.
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Dal Capitolo VIII – Costituzione italiana e giubileo
Vivere e convivere
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Mi torna alla mente l’affermazione di un oste che ci ospitò nel nostro viaggiare, mio e della mia compagna di vita, tra Verona e Trento; dopo avergli raccontato che il motivo del nostro essere lì dipendeva da un problema di relazione che ci sconfortava, se ne uscì con questa solenne affermazione: «Vivere è abbastanza facile, convivere è veramente difficile» e, aggiungo io, terribilmente faticoso.
Vedo allora come la profonda e comune sensibilità dei Padri costituenti fosse ancorata alla palpabile e tremenda fatica della guerra frutto perverso della dittatura e, soprattutto, quella (fatica) della conseguente lotta di liberazione, che ancora continuava nelle loro coscienze: comune sensibilità che li portava, positivamente, a dipanare i nodi della convivenza.
Per quelle tremende fatiche riuscirono a dare, senza alcuna ambiguità, forza e chiarezza, all’art. 1. In esso, infatti, dopo aver affermato che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», affermarono, con altrettanta fermezza e lapidarietà, che «la sovranità appartiene al popolo».
Ma affermare ciò significa che la sovranità di tutti decade laddove anche un solo individuo, con la sua fatica del vivere e del convivere, viene escluso dall’esercizio di tale sovranità.
Purtroppo, da quel momento costituente, anche a causa del progressivo deteriorarsi della memoria dell’abisso della guerra, la sovranità di tutto il nostro popolo ha iniziato a svanire piuttosto che a consolidarsi. La marginalità di milioni di persone aumenta in questo Paese e, soprattutto, sono messe al letargo le immense e positive risorse dei giovani, non tanto perché non trovano occasioni per nutrirsi e nutrire in occupazioni che oggi vengono retribuite ma, soprattutto, perché non riescono ad esercitare la loro sovranità in attività che sentono vitali per sé e per l’intera comunità ma a cui, nella normalità politica ed amministrativa, viene dato marginale rilievo, se non nullo. I soldi, ad esempio, ci devono sempre essere per gli armamenti e, di conseguenza, possono sempre mancare se qualcuno voglia allietare il popolo con il suono del violino e del contrabbasso…
Che dire poi della maggioranza della popolazione che viene tenuta ad arte lontana dalle urne, o la si induce a votare scheda bianca, divenendo la maggioranza silenziosa che non esprime la propria sostanziale sovranità, che è poi la propria ricchezza di vita e di relazione?
L’impressione è che ci sia come un disegno che dobbiamo smascherare: di svuotare la sovranità di molti a favore di un sempre minor numero di persone che tentano, giorno dopo giorno, con un impegno degno di miglior causa, di abbindolare tutti con un linguaggio politico vuoto e inconcludente per il popolo nel suo insieme.
Si svuota di funzioni e di forza il Parlamento e si dà sempre più spazio a lobby camuffate da partiti, impegnate in patti segreti che determinano la vita economica, politica ed istituzionale del Paese.
A freddo si parla di riforme costituzionali, maturate in segrete stanze e tra pochi, e poi le si impone in forme varie a molti, preparati mediaticamente ad essere pedine del gioco da leggi elettorali che non potranno mai esprimere la reale vita del Paese, gravemente malato.
Troviamo la risposta a questa grave malattia istituzionale nella lettera e nello spirito dell’art. 2. Si tratta di riprendere il cammino della solidarietà.
Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Solo una Repubblica intessuta di solidarietà fa sussultare il cuore dei cittadini che si riscoprono portatori di diritti primari il cui positivo esercizio espande la gioia della cooperazione democratica. Di conseguenza quando l’art. 2 parla di doveri in119 Capitolo VIII – Costituzione italiana e giubileo derogabili di solidarietà, economica e sociale, non intende promuovere una società appesantita di doveri, ma una comunità libera e liberante di energie rigeneratrici. E questo lo potremo conseguire soprattutto attraverso la socializzazione del lavoro. Si tratta, allora, quando parliamo di lavoro, delle sue forme e dei suoi contenuti, di ridare, attraverso il lavoro stesso, sovranità a tutti attuando i due passaggi fondamentali della prima parte della nostra Costituzione.
Questi passaggi devono essere letti secondo il paradigma della solidarietà, che è appunto l’anima dell’art. 2 e non un optional personale: è la conditio sine qua non della possibile realizzazione dello Stato democratico. La solidarietà di tutti fa nascere la cittadinanza di ciascuno.
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Promuovere la Pace
Senza la pace il rischio è che tutto l’impianto costituzionale della prima parte salti o venga sospeso. È quanto sta avvenendo. Non dispiaccia al lettore se lo sospingo a meditare sul problema della pace e della guerra scaldandoci insieme il cuore con una pagina sublime di Isaia (2,2-5).
Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.
Con questa luce riprendiamo i nostri conclusivi ragionamenti per questo capitolo su giubileo e Costituzione. Isaia propone tutto il suo percorso giubilare dentro una condizione assolutamente necessaria: una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra.
L’eco di Isaia arriva a Gesù di Nazaret che con fatica predica il regno giubilare di Dio e della sua giustizia per liberare il cuore dei suoi discepoli dalla tentazione di risolvere i problemi della convivenza con la forza, e questo fino agli ultimi momenti della sua esistenza, nonostante la catechesi al Cenacolo.
Tutti i Vangeli narrano che al momento dell’arresto i discepoli pongono mano alla spada, ma in Giovanni (18,11) risuona forte su tutti il «rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». Ed è certamente un calice amaro quello di non poter rispondere alla violenza con altrettanta violenza, perché con questa logica non si va da nessuna parte e l’ingiustizia regnerà sempre. Gesù risponde all’orizzonte di salvezza d’Isaia accettando il calice amaro: di subire anche la morte e di perdonare quanti gliela infliggono come non coscienti del carico negativo della violenza.
Ed è un calice amaro anche per il Padre, perché un Padre/Madre non può permettere che un suo figlio/a, pur se malvagio/a, possa essere ucciso/a.
I nostri Padri costituenti hanno colto queste profonde risonanze storiche, proprio perché avevano toccato con mano che l’uso della forza violenta si sa dove nasce ma non si sa dove finisce nello spazio e nel tempo. Sentono nelle loro coscienze l’altolà per cui scrivono, gridando: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E se continuate la lettura troverete le tracce del brano di Isaia di cui sopra. L’Italia, «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni».
In definitiva, i Padri costituenti dicono agli Italiani: riponete la spada nel fodero e rendetevi forti della forza della nonviolenza e incamminatevi, imparando ad amare i nemici, verso il disarmo assoluto.
È solo attraverso il disarmo che si possono ripartire le risorse per andare incontro alle sempre rinascenti situazioni di disparità nel popolo.
Non si può percorrere la via della giustizia in una situazione di violenza, di guerra. La strada della guerra va fermata con la pratica della nonviolenza, non solo individuale ma anche collettiva e istituzionale, che si solidifica rafforzando la fiducia nella capacità di dialogo insita nell’uomo. In ultima analisi la guerra si ferma se cresce la stima nella e della realtà umana.
Fermare la guerra tra i popoli e tra le persone è far risuscitare i morti, dare la vista ai ciechi, far camminare eretti gli storpi: è opera messianico-giubilare. Trovare il bandolo della matassa di odi personali, di gruppi e di nazioni, è far riesplodere la speranza e la gioia di poter camminare insieme nella libertà.
E, allora, ci accorgiamo che la gioia, la giubilarità della pace, che è anche qualche cosa di più della gioia stessa perché essa si è tradotta in istituzione che ne prolunga nel tempo la durata, dipende da una grande visione. Visione intessuta dentro un ampio e articolato discorso educativo.
Questo percorso è da costruire insieme e da realizzare con pervicacia giorno dopo giorno. Risolvere i conflitti fin dalla più tenera età superando l’egolatria sia personale che di gruppo è il fondamento e a un tempo l’imperativo fondamentale della scuola e di ogni percorso culturale del popolo italiano in nome dell’articolo 11 della Costituzione.
Ma non è forse questo l’orizzonte di tutto il Vangelo? Se sì, il Vangelo, solo perché si chiama vangelo ed esiste tutta una storia che su quel vangelo ha realizzato una istituzione religiosa, può essere considerato anche, e soprattutto, un messaggio laico per tutti?
Ebbene, di fronte al possibile e tremendo incrocio con la guerra, se il messaggio evangelico è utile per sbarrarle il passo, laicamente va assunto in proprio e gli va data forza.
Vangelo, Costituzione, Giubileo sono dunque tre grandi fiumi di vita che s’incontrano nel mare per dare una vita ancora più sovrabbondante. Ridistribuire i beni non è forse ridistribuire la gioia di vivere e nella gioia del vivere la salvezza di tutto il popolo? E se è così, chi è in dovere di indire un giubileo? Solo il Papa che non “ha la cassa” di tutto il popolo o solo l’autorità politica che molte volte non ha l’autorità morale per metterlo in movimento? Qui nessuno può barare, soprattutto coloro che soffiano sotto perché il giubileo diventi un’occasione per fare cassa. È invece un’occasione seria per la remissione dei debiti.
Liberiamoci da un ossessivo bigottismo e facciamo risuonare, credenti e diversamente credenti, il Padre nostro come preghiera giubilare che invoca un permanente e libero giubileo per abbattere o, almeno, alleggerire i pesi degli innumerevoli debiti pubblici, a partire da quelli dell’Italia, dentro i binari culturali fondanti della nostra Costituzione, avviando così, come Nazione posta sul monte, un percorso universale che nell’abolizione dei debiti pubblici o nell’alleggerimento degli interessi trovi la soluzione per abolire la guerra.
Si tratta di salvare e sostenere, per dare forza alla pace, ogni altra economia creativa promossa dai cittadini per tutti i cittadini.
È nostro compito scovare e valorizzare le voci profetiche che raccolgono la sfida del Padre nostro variamente percepito.
Diamoci forza reciprocamente per diventare donne e uomini di buon volere; ritorniamo giorno e notte ad ogni parola e ad ogni rapido passaggio del Padre nostro, sintesi del messaggio giubilare; incominciamo a prenderci per mano; realizziamo una cordata indistruttibile sulla cui forza possano riposare, in un clima di gioia misericordiosa, gli stranieri, gli orfani e le vedove. In una parola, rifondiamo un’economia dove tutti siamo debitori a vario titolo gli uni verso gli altri, ma nessuno più creditore l’uno sull’altro senza pari reciprocità.
È il percorso della seconda parte di questo libro dedicato interamente al tema “Padre nostro e debito pubblico” che si fa proposta ed azione per poter entrare “ora” nel regno di Dio e la sua giustizia, memori che «non chiunque mi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
Art. 12. La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
Per entrare vieppiù nel nostro ulteriore cammino giubilare ruminiamo spesso la preghiera del Padre nostro immaginando che oggi sia nata per noi una bambina, la Costituzione Italiana, che vorrebbe accompagnare il proprio popolo verso la felicità e che ha scelto la propria costituzionale bandiera carica di storia da assimilare e di un sogno da realizzare: accompagnare la crescita di un orizzonte giubilare da narrare e sostenere.
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