4. LA RISURREZIONE DI CRISTO E DELL’UOMO
4.1. SULLA MORTE E LA RISURREZIONE
La nostra esistenza umana può essere paragonata a un libro. La maggior parte delle persone vede la propria vita qui sulla terra come il vero testo, cioè la storia principale, mentre la vita futura – a condizione, ovviamente, che credano nella sua realtà – come una semplice appendice. Il genuino atteggiamento cristiano è esattamente l’opposto. La nostra vita presente in realtà non è altro che la prefazione, l’introduzione al libro; la vita futura, invece, è la storia principale. Il momento della morte non è la conclusione del libro, ma l’inizio del primo capitolo. Su questo punto finale, che in realtà è un inizio, vanno ricordate due cose, così ovvie che si dimenticano facilmente. Primo, la morte è un fatto inevitabile e certo. Poi che la morte è un mistero. Dobbiamo quindi osservarla con sentimenti opposti, con sobrietà e realismo da una parte, paura e meraviglia dall’altra.
Il metropolita Antonio di Sourozh (†2003, conosciuto anche come Anthony Bloom) ha affermato:
La morte è la pietra angolare del nostro atteggiamento nei confronti della vita. Chi ha paura della morte ha paura della vita. È impossibile non aver paura della vita con tutta la sua complessità e tutti i suoi pericoli […] Se abbiamo paura della morte, non saremo mai pronti a correre il rischio finale; passeremo la nostra vita in modo codardo, cauto e timido. È solo guardando la morte in faccia, dandole il corretto significato e determinando il suo posto, che potremo vivere senza paura e sino all’esaurimento delle nostre possibilità1.
Tuttavia, il nostro realismo e la nostra determinazione a dare un senso alla morte non dovrebbero portarci a ridurre la seconda verità: la misteriosità della morte. Sul luogo della morte nella nostra vita e sulla nostra posizione nei suoi confronti, dovrebbero essere tenute presenti tre cose. Primo, la morte è più vicina a noi di quanto immaginiamo. In secondo luogo, è profondamente innaturale, contraria al piano di Dio, pur essendo un Suo dono. Infine, è una separazione che non è separazione.
La morte non è solo un evento lontano che conclude la nostra esistenza terrena, è una realtà molto presente, che continua a manifestarsi incessantemente intorno a noi e dentro di noi. San Paolo dice: Ogni giorno io vado incontro alla morte, come è vero che voi, fratelli, siete il mio vanto in Cristo Gesù, nostro Signore! (1Cor 15,31). In questa esperienza quotidiana di morte, ogni morte è seguita da una nuova nascita: anche tutta la morte è una forma di vita. La vita e la morte non sono opposte, non si escludono a vicenda, ma sono intrecciate. Tutta la nostra esistenza umana è un misto di morte e risurrezione. Sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte (2Cor 6,9), il nostro viaggio su questa terra è una Pasqua incessante, un viaggio continuo dalla morte alla nuova vita. Tra la nostra nascita iniziale e la nostra morte finale, l’intero corso della nostra esistenza è costituito da una serie di “piccole” morti e nascite. Ogni mattina, quando ci svegliamo, siamo come ricreati. Forse la nostra morte definitiva sarà similmente una “ricreazione”, un addormentarsi seguito dal risveglio. Non abbiamo paura di addormentarci ogni notte, perché sappiamo che ci sveglieremo ancora una volta la mattina dopo. Non possiamo avere la stessa fiducia nel nostro ultimo addormentarci nella morte? Non possiamo aspettarci di svegliarci, ricreati, nell’eternità? Questo modello di vita-morte appare anche, in modo leggermente diverso, nel processo della nostra crescita. In ogni fase, qualcosa dentro di noi deve morire per consentirci di passare alla fase successiva della vita. Se diventare adulti è una forma di morte, lo è anche la partenza, il distacco da un luogo o da una persona che abbiamo amato. Queste separazioni sono necessarie nella nostra continua crescita verso la maturità.
Per molti credenti, la morte della fede – la perdita delle nostre certezze più profonde (o almeno apparenti) su Dio e sul significato dell’esistenza – è traumatica quasi quanto la perdita di un amico o di un coniuge. Ma anche questa è un’esperienza di vita e di morte che dobbiamo attraversare affinché la nostra fede maturi. La fede genuina è un dialogo permanente con il dubbio. Dio supera infinitamente tutto ciò che possiamo dire su di Lui, mentre i nostri concetti mentali sono idoli che devono essere frantumati. La nostra fede deve continuare a morire, solo così possiamo essere pienamente vivi. In tutti questi casi, si scopre che la morte non è distruttiva, ma creativa. È dalla morte che viene la risurrezione. Qualcosa che muore è qualcosa che prende vita. La morte che si verifica alla fine della nostra vita terrena non è dello stesso ordine? Non è forse la risurrezione di morte più definitiva e più formidabile di tutto ciò che abbiamo conosciuto dalla nostra nascita? Lungi dall’essere totalmente tagliata fuori da essa, la morte è l’espressione più ampia e completa di tutto ciò che abbiamo sperimentato nella nostra vita.
Per i cristiani, questo modello di morte-risurrezione, ripetuto all’infinito nella nostra vita, assume il suo significato più profondo nella vita, morte e Risurrezione del nostro Salvatore Gesù Cristo. La nostra storia va compresa alla luce della Sua storia, che celebriamo ogni anno durante la Settimana Santa, ma anche ogni domenica. Tutte le nostre piccole morti e risurrezioni sono unite, nel corso della storia, con la Sua morte e Risurrezione finale, la nostra piccola Pasqua viene risuscitata e riaffermata nella Sua grande Pasqua. Tuttavia, la morte non appartiene allo scopo pre-eterno di Dio per la Sua creazione. Dio ci ha creati non perché morissimo, ma perché vivessimo. Inoltre, ci ha creati come un’unità indivisibile. Da un punto di vista ebraico e cristiano, la persona umana deve essere vista in termini completamente olistici: non siamo un’anima temporaneamente imprigionata in un corpo e desiderosa di fuggire da esso, ma un tutto integrato che abbraccia il corpo e l’anima. Se la morte è qualcosa che attende tutti noi, è anche profondamente normale. È mostruoso e tragico. Gesù stesso pianse davanti alla tomba del suo amico Lazzaro (cfr Gv 11,35), e nel Giardino di Getsemani, era pieno di angoscia alla prospettiva, imminente, della propria morte (cfr Mt 26,38). San Paolo considera la morte un “nemico da distruggere” (cfr 1Cor 15,26) e la lega strettamente al peccato: il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge (1Cor 15,56). È perché viviamo tutti in un mondo caduto, contorto e disunito, che moriremo.
Se la morte è tragica, è anche, allo stesso tempo, una benedizione. Sebbene non faccia parte del piano divino, è comunque un dono di Dio, un’espressione della sua misericordia e compassione. Per noi umani, vivere senza fine in questo mondo decaduto, prigionieri per sempre nel circolo vizioso del peccato, sarebbe un destino terribile e insopportabile. Ecco perché Dio ci ha dato una via d’uscita, annulla l’unione di anima e corpo, in modo che possa poi ricrearli, riunirli nella risurrezione dei corpi nell’ultimo giorno, e riportarli così alla pienezza della vita. È come il vasaio osservato dal profeta Geremia: Ora, se si guastava il vaso che egli stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli rifaceva con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pareva giusto (Ger 18,4). Il vasaio divino posa la sua mano sul vaso della nostra umanità, danneggiato dal peccato, e lo rompe per essere capace di rimodellarla a sua volta e riportarla alla sua gloria iniziale. La morte, in questo senso, è lo strumento della nostra restaurazione. Come canta la Chiesa d’Oriente nel suo servizio funebre: Una volta che mi hai tirato fuori dal nulla per formare me stesso a immagine di Dio, ma ho trasgredito la tua legge e tu mi hai fatto tornare all’argilla da cui mi hai creato a tua somiglianza, riportami ora e ripristina la mia prima bellezza2. Il vasaio divino pone la sua mano sul vaso della nostra umanità, danneggiato dal peccato, e lo rompe per poterlo rimodellare col suo tornio e riportarlo al suo splendore iniziale. La morte, in questo senso, è quindi lo strumento della nostra restaurazione.
C’è quindi una dialettica nel nostro atteggiamento verso la morte: ma i due approcci, in ultima analisi, non sono contraddittori. Vediamo la morte come innaturale, non normale, contraria al piano originale del Creatore e ci ribelliamo con dolore e disperazione, ma la vediamo anche come parte della volontà divina, cioè una benedizione e non una punizione. È anche una via d’uscita dal nostro vicolo cieco, un mezzo di grazia, la porta della nostra ricreazione. Ci avviciniamo quindi alla morte con impazienza e speranza, dicendo con san Francesco d’Assisi: Lodato sii mio Signore per la nostra sorella morte corporale3, poiché attraverso questa morte corporale, il Signore chiama a sé il figlio di Dio. Al di là della loro separazione nella morte, l’anima e il corpo saranno reintegrati nella risurrezione finale. La morte è una separazione che non è davvero separazione. La tradizione orientale attribuisce la massima importanza a questo punto. I vivi e i defunti appartengono a un’unica famiglia. L’abisso della morte non è insormontabile, poiché tutti possiamo incontrarci intorno all’altare di Dio. La scrittrice russa Iulia de Beausobre (†1977) affermava: La Chiesa […] è il punto d’incontro dei morti, dei vivi e dei nascenti che, amandosi, si raccolgono intorno alla roccia dell’altare per annunciare il loro amore per Dio4.
Rimane una domanda, posta spesso e impossibile da risolvere allo stato della nostra conoscenza della risurrezione dei corpi. Abbiamo detto che la persona umana fu originariamente creata da Dio come unità indivisibile di corpo e anima e che attendiamo, oltre alla loro separazione per morte fisica, anche la loro riunificazione definitiva nell’ultimo giorno. Un’antropologia olistica ci porta a credere, non solo nell’immortalità dell’anima, ma nella risurrezione del corpo. Poiché il corpo è parte integrante dell’intera persona umana, tutta l’immortalità deve coinvolgere sia il corpo che l’anima. Qual è, allora, la relazione tra il nostro corpo attuale e il corpo della nostra risurrezione? Forse la risposta migliore è questa: il corpo sarà contemporaneamente lo stesso e un altro. A volte i cristiani interpretano la risurrezione dei corpi in modo semplicistico e ristretto. Immaginano che le parti materiali che costituiscono il corpo, che sono state dissolte e disperse dalla morte, saranno in qualche modo riunite nel Giorno del Giudizio, in modo che il corpo ricostituito conterrà esattamente gli stessi minuscoli frammenti di materiale. Ma coloro che affermano una continuità tra il nostro corpo attuale e il nostro corpo nell’ultimo giorno non hanno necessariamente una visione così letterale delle cose. San Gregorio di Nissa, ad esempio, offre un approccio più perspicace e fantasioso. L’anima, per lui, conferisce al corpo una forma distinta (εἶδος, eidos), segna il corpo con una particolare impronta, o sigillo, imposta non dall’esterno ma dall’interno. È attraverso questa impronta che il corpo esprime il carattere o lo stato spirituale interiore della persona. Durante la vita terrena le componenti fisiche del nostro corpo cambiano più volte, ma, nella misura in cui la forma impressa dall’anima ha una continuità che non è influenzata da queste alterazioni fisiche, si può veramente affermare che il nostro corpo rimane lo stesso. C’è un’autentica continuità corporea, poiché c’è continuità nella forma data all’anima. Durante la risurrezione finale, per il nisseno, l’anima segnerà il nostro corpo risorto con lo stesso sigillo che ebbe durante questa vita. Non è necessario mettere insieme gli stessi frammenti, lo stesso sigillo è sufficiente affinché il corpo sia lo stesso. Tra il nostro corpo attuale e il nostro corpo risuscitato ci sarà infatti una reale continuità, che non dovrebbe però essere interpretata in un modo troppo ingenuamente materialista.
Se il corpo in questo senso rimane lo stesso nella risurrezione, sarà anche diverso. Come dice san Paolo: si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale (1Cor 15,44). “Spirituale” qui non dovrebbe essere inteso nel senso di “non materiale”. Il corpo risorto sarà sempre un corpo materiale, ma, allo stesso tempo, sarà trasformato dal potere e dalla gloria dello Spirito, e quindi liberato da tutti i limiti della materialità come li conosciamo ora. Per ora, conosciamo solo il mondo materiale e i nostri corpi materiali nel loro stato decaduto, concepire le caratteristiche che la materia possiederà in un mondo non caduto è molto al di là dei poteri della nostra immaginazione. Possiamo solo vagamente intuire la trasparenza e la vitalità, la leggerezza e la sensibilità con cui il nostro corpo risorto, sia materiale che spirituale, sarà rivestito nel secolo futuro. Lasciamo il resto al silenzio, poiché ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2).
4.2. L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA OVVERO LA RISURREZIONE
È utile ricordare, che, nel corso del tempo, le verità della fede furono comprese e spiegate a partire dalle rappresentazioni mitologiche e dalle idee filosofiche dominanti vigenti nell’epoca e nell’ambiente in cui ebbero origine. Fu così che la dottrina dell’“immortalità dell’anima” si diffuse nel cristianesimo sotto l’influenza dell’ellenismo (anzi, da una certa filosofia greca), per questo la ritroviamo anche nella riflessione teologica: la morte era concepita come la separazione del corpo dall’anima, la risurrezione finale era propriamente riservata al corpo, unica parte mortale dell’uomo. Ed essa è rappresentata come la riunione dell’anima, che non aveva mai cessato di esistere, al corpo che, scomposto nei suoi elementi, viene ricostituito e rianimato.
Il dogma della risurrezione dei morti ci impone di osservare, come articolo di fede, l’antica dottrina greca dell’immortalità dell’anima? Le correnti filosofiche contemporanee hanno indubbiamente qualcosa a che fare con quest’argomentare. Tra i teologi, però, la questione sembra sorgere soprattutto in seno ai dibattiti intorno alla Risurrezione di Gesù, specialmente in merito alle difficoltà di parlarne come un evento “storico” e di rendere conto delle apparizioni “corporali”. Gesù ci ha condotti a cercare la spiegazione nella linea di una permanenza della persona, del sé sensibile e temporale, cioè in una linea, in fondo, più vicina alla “risurrezione” dell’anima, nel senso biblico del termine, rispetto a quella del cadavere.
4.2.1. Il linguaggio dell’antica tradizione filosofica
Sappiamo che il pensiero semitico, molto concreto, non concepisce l’esistenza dell’anima separatamente dal corpo. A differenza dello spirito, che viene da Dio, l’anima non possiede di per sé la vita, è solo il principio della vita temporale. Quando sopraggiunge la morte, lo spirito torna a Dio, e l’anima scende negli inferi dove gode solo dell’ombra della vita, quella che è propria dei morti.
Sarebbe altrettanto ingenuo immaginare che il cristianesimo abbia adottato spontaneamente e senza metterla in discussione la dottrina filosofica dell’immortalità dell’anima. Altri furono i punti di contatto con questa, ad esempio l’eterna preesistenza delle anime, la “caduta” nei corpi, la visione negativa del corpo, la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro fino alla sua totale purificazione… Allo stesso tempo le si doveva attribuire una proprietà della natura divina, cioè considerarla come parte della divinità. Un assioma spesso citato nel II e nel III secolo afferma che tutto ciò che nasce, o che diviene, è soggetto alla caducità e che, al contrario, ciò che è esente dalla morte non poteva ricevere l’essere con un principio primo e originario. Se si professava la sua immortalità, si poteva giungere anche a privare Dio del privilegio di essere l’unico che non aveva né inizio né fine.
Il filosofo Giustino martire (†163/167) fu il primo a incontrare questa difficoltà. Quando si convertì al cristianesimo, si sentì obbligato a rinunciare al platonismo, nonostante il debito che gli riconobbe anche nella sua conversione; infatti, se secondo le Scritture nessun essere diverso da Dio deve dirsi ingenerato, allora non è lecito pensare che le anime siano immortali, pensava il filosofo cristiano. Muoiono dunque contemporaneamente al corpo, ma non vengono completamente distrutte; se ne vanno ad aspettare, negli oscuri soggiorni dei morti, il giudizio divino che le riporterà in vita per essere ricompensate o punite5.
Tra gli altri apologeti del II secolo, solo uno – il filosofo Atenagora di Atene (†190 ca.) – dichiara senza esitazione che l’anima è insieme creata e immortale; gli altri si attengono a dire che l’uomo per natura non è né mortale né immortale, ma che Dio lo ha creato capace di immortalità e destinato a ricevere questo dono6. Alla fine di quel secolo, Ireneo di Lione riportava a grandi linee lo stesso insegnamento: infatti per lui l’immortalità appartiene per natura a Dio solo, e l’uomo vi è chiamato solo per grazia divina. Come aveva detto Giustino, l’anima non è vita, partecipa solamente alla vita che Dio le dà, e nella misura che Egli vuole. Non è corruttibile alla maniera del corpo, perché è di origine altra, non materiale, non è mortale ma nel senso negativo, cioè che non è destinata alla distruzione, ma è Dio che le fa il dono di sussistere nell’essere comunicandole il suo Spirito vivificante. Anche Ireneo di Lione usò questa distinzione e si avvicinò all’antropologia biblica, identificandola come soffio della vita (afflatus vitae) temporale, mentre lo spirito è perpetuo7.
Fu a partire dal III secolo, dopo Tertulliano (†230 ca.), in Occidente, e Origene, nel mondo greco, che la dottrina dell’immortalità dell’anima si generalizzò a poco a poco, più rapidamente tra i Greci che tra i Latini. Ma se in un caso la troviamo legata alla teoria del “traducianismo” (tutte le nostre anime sono state contenute in Adamo, e furono trasmesse a noi con la macchia del peccato originale), nell’altro vi è la tesi della preesistenza delle anime. In entrambi è manifesta l’intenzione di porre in Dio stesso l’origine della sostanza creata dell’anima, di metterla in relazione con la natura immortale di Dio, per salvare l’anima dalla corruttibilità delle origini puramente temporali8. Queste due tesi saranno combattute e infine abbandonate dai teologi successivi. Se la loro involuzione non ha intaccato la certezza dell’immortalità dell’anima, ma è sempre a causa del legame originario tra Dio e l’anima – legame indipendente dall’insegnamento di Platone e di altri filosofi – ci assicura Gregorio di Nissa che essa si fonda sulla Sacra Scrittura: L’anima è simile a Dio e tutto ciò che è estraneo a Dio deve essere escluso dalla definizione dell’anima9.
Queste poche indicazioni ovviamente non possono passare per una storia, anche sommaria, della Tradizione sul nostro argomento. Vogliono solo mostrare che questa affermazione non è stata imposta dalla sola forza di una filosofia divenuta comune, ma soprattutto sotto la pressione di argomenti propriamente teologici.
4.2.2. Le motivazioni teologiche
Due ragioni principali hanno imposto la fede nell’immortalità dell’anima: una riguarda l’origine dell’uomo e la creazione, l’altra il suo destino finale e il giudizio.
Il primo argomento, al quale allude la frase di Gregorio di Nissa, è tratto dalla “somiglianza” dell’uomo a Dio. Questa idea non fu ignorata dalla filosofia platonica, ma la riflessione cristiana su questo punto trova la sua fonte diretta nel racconto di Genesi, a sua volta reinterpretato alla luce della Risurrezione di Cristo. Questa è concepita, seguendo san Paolo, come ricreazione dell’uomo a perfetta immagine di Dio10. Cristo, scampato alla morte, appare come il modello compiuto dell’uomo che Dio aveva voluto creare sin dal principio. Il tratto distintivo di Dio, che risplende nella gloria del Risorto, è l’immortalità, la sua somiglianza non si trovava in nulla di mortale. Per riceverla, dunque, ci deve essere qualcosa di diverso dal corpo corruttibile, un principio di vita spirituale e immortale, cioè l’anima. L’anima, prodotta dallo Spirito Santo, partecipa della natura incorruttibile del suo Principio. Questo ragionamento porterà i teologi a identificare l’anima-respiro temporale con lo spirito perpetuo.
Il secondo motivo teologico riguarda la fine dei tempi. Fu sviluppato specialmente dallo gnosticismo, che non aveva accettato la salvezza della carne. Ai seguaci dello gnosticismo Tertulliano ripose che, poiché Cristo porta la risurrezione all’uomo, deve esserci qualcosa in lui che ne ha la necessità, e non può essere l’anima, poiché non è soggetta alla necessità di morire. Solo il corpo, quindi, corruttibile perché materiale, è suscettibile di risuscitare. La teologia si sforzò anche di stringere l’unità naturale di anima e corpo, che la dottrina gnostica ha combattuto: anima e carne devono unirsi alla fine dei tempi, subire lo stesso giudizio di Dio, ed essere ricompensate. L’anima è come l’agente principale, affinché l’uomo risusciti sia nella sua integrità naturale che nella sua identità personale11.
Nei numerosi trattati sulla risurrezione, scritti nei primi cinque secoli, è spiegato che Dio risuscita lo stesso individuo che ha vissuto un’esistenza storica, così com’era costituito dalla natura; il tutto grazie alla permanenza dell’anima dopo la morte, mentre il corpo si dissolve completamente nella terra da cui fu tratto, in quanto la risurrezione non è una seconda creazione, ma il ritorno alla vita. È ancora grazie all’anima che il corpo potrà vivere una vita eterna nella visione di Dio, poiché è per sua natura incapace di entrambe.
L’immortalità dell’anima non fu saldamente difesa, cioè rivendicata in nome della fede e provata da dimostrazioni tratte dalla Scrittura, come nel caso della risurrezione del corpo. Ma non si possiamo concludere che essa sia entrata nella fede solo in modo surrettizio e marginale, a favore degli argomenti filosofici. C’è infatti un fine dell’immortalità dell’anima che è proprio della fede, e si esprime nell’intersezione dei due motivi teologici appena abbozzati. La fede non è interessata ad affermare questa semplice verità metafisica secondo la quale l’anima gode di un’esistenza perpetua, nel senso in cui un tempo si discuteva della perpetuità degli astri o dell’ipotesi dei mondi eterni. Ciò che interessa alla fede è l’esistenza con Dio, nella sua eternità, nella partecipazione alla propria vita, nella sua intimità, nella visione di Dio. Il fine specifico della fede si dispiega nel rapporto tra l’origine naturale dell’anima e il fine soprannaturale dell’uomo, nella sua vocazione a vedere Dio. L’immortalità dell’anima si deduce da questa vocazione più direttamente che dalla sua natura spirituale e indivisibile. Per questo, anche se attribuita alla natura, non manca di essere considerata allo stesso tempo un dono di Dio, un dono gratuito e futuro, nella linea tracciata da Ireneo: Lo scopo è vedere Dio. La visione di Dio ha il potere di rendere incorruttibile. Incorruttibilità apparente a Dio12.
Non è perché l’anima è stata resa immortale che ha la capacità di vedere Dio; al contrario, è perché l’uomo è chiamato a vedere Dio, per questo Dio gli ha donato una natura dell’anima tale da poter portare a compimento il suo fine. L’immortalità non è, e non può essere, un attributo naturale dell’anima come lo è in Dio. Solo Dio possiede per natura l’eternità della vita, la vita senza fine perché libera dall’inizio. L’immortalità dell’anima è una disposizione negativa, è un’esenzione dalla legge della morte alla quale ogni essere che ha un inizio è naturalmente soggetto. È meno una proprietà positiva, già acquisita per diritto di natura, quanto una capacità e una destinazione di acquisire l’incorruttibilità grazie alla visione di Dio, una capacità che quindi ha bisogno di essere attualizzata e realizzata dal dono di Dio. Non sembra che la definizione dell’immortalità dell’anima da parte del Concilio Lateranense V nel 1513 richieda di essere intesa diversamente e in modo più positivo, poiché è la regola per interpretare i testi. Il Concilio si basa sulla Tradizione, senza collegare un significato per la fede troppo vicino al linguaggio filosofico di quell’epoca.
4.2.3. L’ermeneutica della Tradizione
Non molto tempo fa la dualità aristotelica del corpo era considerata un’insuperabile dicotomia e i teologi erano esortati a prestare maggiore attenzione al corpo, inteso come l’elemento più significativo della realtà umana. Oggi siamo invece maggiormente propensi a rivalutare l’anima, almeno nelle sue rappresentazioni moderne (il sé o la persona), o a conciliare, viceversa, queste rappresentazioni dell’anima con la nozione di corpo, il che permetterebbe di trasferire la risurrezione dal corpo all’anima. Questo trasferimento obbligherebbe ovviamente ad abbandonare la vecchia idea ellenica dell’immortalità dell’anima, a meno che la risurrezione a sua volta non sia concepita nella linea della continuità dell’Io. A prima vista, queste tendenze vanno contro il senso promosso dalla Tradizione. Mi chiedo se invece non possano essere usate per rinnovarla.
4.2.3.1. Il corpo risuscitato
Per la Tradizione, l’uomo, osservato come creatura terrena, è definito più dal lato del corpo, modellato nell’argilla, che dall’anima, vivificata dal soffio di Dio. Questa risuscita “interamente”, ma non permette di escludere anche la risurrezione del corpo, che segue direttamente, secondo l’insegnamento di san Paolo, dalla vittoria di Cristo sulla morte, nella sua stessa morte, e dalla presenza in noi dello Spirito Santo13. È anche la speranza che i nostri corpi risuscitino nella gloria di Cristo che muore. Tutta la Tradizione fonda questa speranza nell’Incarnazione del Figlio di Dio nella realtà della nostra carne. Infine, l’attesa escatologica di un universo trasfigurato anche dal ritorno del Signore nella sua gloria (cfr Ap 21,1ss.) postula la risurrezione del corpo, che denota il nostro rapporto con il cosmo.
Resta da comprendere questa risurrezione nella linea tracciata dalla prima lettera ai Corinzi, quella del corpo spirituale (cap. 15). Questo concetto implica una trasformazione radicale del nostro essere di carne, che sarà anche la negazione di ciò che sappiamo grazie all’esperienza sensibile. Ci costringe a rinunciare a concepire la risurrezione dal cadavere dissolto nella terra, da cui arriviamo a immaginare di tornare in vita in un altro corpo, liberato dal peso della materia ma simile al primo. Ora, la riesurrezione non è né una seconda creazione, né un ritorno a un’esistenza terrena migliorata. Ciò che risuscita è l’essere corporeo che si era prima di morire, ma nella pienezza di un’identità che non si è potuta godere in nessun momento dell’esistenza storica. Il corpo organico non permette di riassumere la totalità dell’esistenza, se non nella modalità di un essere stato e di un dovere cessare di essere. Non è questo residuo o questo germe di morte che resuscita, è ciò che uno strappa ogni giorno di sé alla morte e all’inerzia della materia per ricrearsi come essere libero. La verità del corpo, in quanto “io sono questo corpo”, non è la sua costituzione chimica soggetta alle leggi del determinismo e alla morte intesa come dissoluzione chimica, ma è la costruzione libera dell’esistenza in quanto soggetta al succedersi del tempo e alla morte intesa come il volo del tempo. È da questa morte che risuscita la nostra vera corporeità: la totalità ora e immancabilmente assemblata del nostro divenire temporale, l’identità con se stessi dispiegata nel corso della crescita della libertà.
Il corpo è anche l’esteriorità che vive del rapporto con le cose e con gli altri. La personalità si realizza agendo sulle cose, attraverso il lavoro e le relazioni. È soprattutto attraverso il linguaggio che ci si pone in relazione con noi stessi e con gli altri, e che si cerca di sfuggire alla distruzione del tempo. Il linguaggio è il prodotto e l’espressione del corpo quanto del pensiero. Potremmo quindi dire che la risurrezione del corpo è soprattutto quella del linguaggio in cui si esprime l’esistenza corporea. Creato a immagine di Dio, l’uomo è un pensiero, una parola, una volontà di Dio realizzata nell’essere carne, è un logos nel divenire corporeo. Spetta a noi di compiere questo logos di Dio attraverso l’opera della libertà nell’esistenza corporea, ed è così che si costruisce la persona umana. Man mano che si compie questo logos di Dio veniamo ad assumere un’esistenza corporea, e la vita corporea stessa assume in essa un’esistenza legata al logos.
4.2.3.2. L’anima immortale
Corpo e anima costituiscono una realtà vivente unica e indivisibile, indivisibilmente spirituale e corporea; è quindi illegittimo pensare alla risurrezione del corpo come se fosse estraneo all’anima? Possiamo, improvvisamente, fare a meno del concetto di anima immortale? Si tratta di esaminare prima se il concetto in questione si fonda su buone basi teologiche, e poi se queste basi richiedono di ritenere l’immortalità naturale dell’anima come una verità propriamente metafisica. La risposta al primo punto è stata fornita dalla Tradizione, gli argomenti della creazione a somiglianza di Dio e della possibilità di vedere Dio tutt’ora validi. Quanto al secondo punto, esige che si prosegua l’ermeneutica tentando di definire il fine dell’immortalità dell’anima, che è un approdo proprio della fede, in modo sia positivo che negativo come un dono di grazia piuttosto che come un dato immanente alla natura.
Il linguaggio dell’anima è necessario per salvaguardare la concezione spiritualistica dell’essere umano, e non meno della corrispondenza tra Rivelazione e riflessione filosofica. L’anima è il principio dell’esistenza libera e autocosciente, di cui la nostra esperienza interiore testimonia. È meno una natura immutabile che un’energia che si autocrea. È il dinamismo per cui l’uomo, allontanandosi dal limite del suo corpo, pensa e dispiega la sua identità personale nel corso del tempo che gli sfugge, ricapitolando il suo passato e anticipando nello stesso istante il suo futuro. Questa simulazione di una presenza permanente a se stessi è il misterioso postulato di una sussistenza pura e perpetua, che la luce della Rivelazione viene a illuminare.
Che Dio crei l’uomo a Sua immagine non significa che gli dia una somiglianza già precostituita, cioè una natura simile alla Sua: è impossibile. Gli offre, però, la capacità di generarla, di rendersi libero partecipando all’atto creativo, e così di avvicinarsi gradualmente a Lui. Questa è una capacità di divenire, un “programma” da realizzare; la somiglianza pone nell’uomo una differenza e una disuguaglianza, non solo rispetto alle altre creature, ma anche dentro di sé, tra ciò che è per generazione naturale e ciò che deve diventare, in virtù della chiamata di Dio: è il principio della distinzione tra anima e corpo. La differenza presuppone che l’uomo, essendo simile a Dio, riceva il potere di superare la differenza radicale della mortalità, che aliena le creature dal loro Creatore.
Come ben intesero gli antichi Padri, l’immortalità della creatura non può essere un semplice fatto di natura, non più che un naturale destino, ma si spiega solo dall’alto, dal lato di Dio, come dono gratuito alla partecipazione della vita eterna. Come la visione di Dio dopo la morte ci mantiene incorruttibili, così è lo sguardo amoroso che Dio ha sulla persona umana, su ciò che gli è simile, cioè l’immagine di suo Figlio, che la fa esistere per l’immortalità. Ma questo dono presuppone, dal basso, una naturale attitudine a riceverlo e a coglierlo per appropriarsene. L’immortalità dell’anima è l’aspirazione della vita a “trasgredire il limite del corpo”, rappresenta l’anelito ultimo di un’esistenza ispirata oltre se stessa.
In definitiva, la rivelazione cristiana della risurrezione dei morti non è un invito a fare a meno della fede nell’immortalità dell’anima, anzi la risurrezione può essere spiegata solo dall’esistenza di un principio permanente di identità a se stessi. È lo sguardo di Dio sulla nostra persona che le permette di costruire e mantenere per sé la Sua identità, perché è capace di sopportare l’eternità di questo sguardo14. I doni di Dio non violano la natura, non sorgono improvvisamente per aggiungervi un progetto estraneo, presuppongono sempre in questa una disposizione ad accogliere e a collaborare. Non è un oggetto, è soggetto di un’esistenza libera che Dio chiama a perpetuare in Lui, e questo può accadere perché la nostra libertà ha origine in una capacità illimitata, non in un possesso, ma in un’apertura alla vita.
4.2.3.3. Il tempo della risurrezione
Poiché l’anelito all’immortalità nella vita si diffonde attraverso l’anima dalle profondità dell’esistenza corporea, questa si spiritualizza o divinizza man mano che l’uomo realizza il progetto di Dio: possiamo dire che la risurrezione è preparata dalla generazione alla vita. A fortiori, come insegna la Tradizione, la risurrezione è già iniziata per il cristiano, sepolto dal battesimo nella morte di Cristo, nutrito dall’Eucaristia, rinnovato dallo Spirito vivificante: per questo anche prima della morte in lui si costruisce un “uomo nuovo”, chiamato alla risurrezione in un corpo spirituale. Questa prospettiva permette di comprendere che la risurrezione non avverrà solo alla fine dei tempi, ma che avverrà immediatamente dopo la morte, per non concludersi fino al “Giorno del Signore”.
Nei martirologi, la morte è chiamata “il giorno della nascita” (dies natalis) ed è proprio l’ingresso in una nuova vita, alla quale l’eletto stesso è chiamato a esercitare il potere dell’immortalità con lo scopo di far rivivere il suo corpo nel corpo di Cristo. Il caso di Cristo Risorto è illuminante. Sin dall’alba della Pasqua la Sua Risurrezione è perfetta, in quanto Figlio di Dio si è definitivamente riunito al Padre ed è entrato nella gloria, e al contempo non è ancora completo in quanto è quest’uomo, primizia di una “nuova stirpe”, al quale è attaccato come il capo al corpo umano, Cristo rimane in divenire e la Sua Risurrezione non cessa di consumare Lui stesso nel Suo corpo.
Allo stesso modo, per noi, ciò che risuscita per primo è l’uomo interiore, colui che porta il carattere della filiazione adottiva: la nostra anima con la nostra personalità storica già spiritualizzata/divinizzata, quella in cui Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3), l’essere della libertà che l’uomo ha iniziato a creare per la potenza dell’amore di Dio. Chi muore nella carità nasce subito, secondo l’uomo interiore, anche là dove muore, nel luogo della vita e della carità che è il corpo di Cristo, dove abitano il Padre e lo Spirito Santo. Tuttavia, la risurrezione è appena iniziata per “l’uomo esterno”, perché sulla Terra non conduciamo un’esistenza solitaria, totalmente immanente e indipendente. Gli uomini e le donne sono una “parte del mondo”, gli impongono la propria personalità plasmandolo a loro immagine attraverso il lavoro, l’esistenza come persone in relazione, nonché come comunicazione della personalità attraverso il linguaggio. Tutto questo è ciò che costituisce l’“uomo esterno”, colui che geme nell’attesa della redenzione, che attende di ricongiungersi con l’essere interiore già risuscitato. Tutto ciò che non è ancora distrutto dalla morte deve passare attraverso di essa per rivestire l’immortalità. Tutto ciò che nasce dalla natura e per necessità deve rinascere nel frutto della libertà. Questa ricreazione dell’uomo esteriore, che è la risurrezione del corpo, è opera dell’anima in cui si dispiega la potenza dello Spirito vivificante. L’anima, infatti, rimane in relazione con il suo corpo storico attraverso la mediazione del corpo di Cristo, le cui radici affondano nel cuore dell’unità fisica e umana.
1 ANTONIO DI SOUROZH, On Death, in «Sobornost» 1/2 (1979), p. 8.
2 Grand Euchologe et Arkhiératikon, a cura di D. Guillaume, Diaconie Apostolique, Parma 1992, p. 212.
3 FRANCESCO D’ASSISI, Cantico delle creature.
4 IULIA DE BEAUSOBRE, Creative Suffering, SLG Press, Oxford 1994, p. 42.
5 Cfr GIUSTINO, Dialogo con Trifone, in PG 6, 485-492.
6 Cfr TAZIANO IL SIRO, Ai Greci, in PG 7, 820-821.
7 Cfr IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, II, 34, 1-4, in PG 7, 834.
8 Cfr TERTULLIANO, De anima, in PL 2, 658-661.
9 GREGORIO DI NISSA, L’anima e la risurrezione, in PG 46, 52.
10 Ef 4,24; Col 3,10; Rm 6,9.
11 Cfr TERTULLIANO, La resurrezione della carne, XIV-XVIII, in PL 2, 812-820; XLIX- LIII, in PL 2, 865-875.
12 IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 38, 3 (testo critico in «Sources chrétiennes» n. 110, p. 955).
13 Cf. Rm 6,4-6; 8,10-11; 2Cor 4,10-14; 2Tim 1-10.
14 Cfr J. RATZINGER, Einführung in das Christentum: Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kosel, München 1968, pp. 250-260.
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