Che cosa fa uno scrittore degno di questo nome quando decide di mettersi all’opera? Un duro lavoro di artigianato volto alla conquista (mai assoluta) di una lingua propria. E, cosa non trascurabile, radica questa fatica nell’autenticità e nella necessità che lo hanno spinto a scrivere. Bene. Quanti di questi valori e quali fra questo obiettivi potrebbero essere condivisi dall’odierna editoria? Tutti, credo. Anche nell’attuale trionfo della lingua banale. Ma condividere non vuol dire scegliere, e scegliere di rischiare. L’editoria è un leviatano complesso e la sua logica è perversa. Non prova imbarazzo a pubblicare buoni libri insieme a migliaia di libri spazzatura o, a voler essere generosi, “usa e getta”. Sa che il lettore potente saprà orientarsi e il lettore comune si fionderà sui prodotti meglio pubblicizzati, che dal quarto di copertina promettono scorrevolezza, storia ammiccante e il risolutivo si legge tutto d’un fiato. Il romanzo, per essere pubblicabile, deve scorrere. E se lo scrittore di turno ha accettato il compromesso le sue pagine scorreranno come un bicchiere d’acqua (o come una minzione). Si impegnerà poco tempo a finirlo, e si sa che l’umanità, incarcerata nell’accelerazione dei ritmi, non riesce a coltivare il tempo interiore per dedicarsi alle letture che richiedono la sosta mentale, la riflessione, il ripensamento.
L’editoria, di conseguenza, mira al libro facile, al prodotto perfetto, ovvero alla merce vendibile che, omologata, omologa. Il grande romanzo di ogni tempo è, invece, sostanzialmente “imperfetto”, dotato in ogni caso di una lingua letteraria, di una cifra stilistica immediatamente riconoscibile. I suoi temi, anche quando non sembrano fondamentali, conducono sempre a una visione del mondo. Non sono l’andamento paratattico e la scelta del lessico alla portata di tutti a garantire la comprensione e la comunicazione, che risiedono invece nell’originalità della forma, nella forza seduttiva del testo. Si gioca alla falsificazione dei concetti. Si confonde facile con semplice. La lingua facile è quella della tv, dei social, non fonda originalità e bellezza, non è nemmeno equivalente al valore di una lingua trasparente e comunicativa. L’inciampo è fertile e l’urto fa crescere. È una legge che vale per la vita e per l’atto della conoscenza. La lingua semplice, invece, è il risultato raggiunto, per esempio, dalle pagine di Buzzati, della Morante, della Ginzburg e di tanti altri. È un lavoro raffinatissimo, simile a quello del poeta.
La critica letteraria, che dovrebbe aiutare il lettore a districarsi nella giungla di carta (e di bit) è affidata a giornalisti critici, opinionisti critici, presentatori televisivi critici, blogger critici. Come diceva Troisi a proposito della parola lavoro a Napoli, (tanto per fare una citazione facile) la parola critico sembra dover essere sempre abbinata ad un’altra parola, il “critico e basta” non si trova. I critici seri quasi sempre tacciono. Non hanno niente da dire, se non c’è l’opera d’arte. E questo sarebbe meritorio, ma accade che qualcuno di loro, pronto al “richiamo”, scende in campo con elogi sperticati o stroncature feroci (per nulla “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”), salvo poi a sparire fino al prossimo “fischio”. Sembra che lo scrittore, per esistere, debba entrare nel sistema, e quindi nella simulazione, accettando le cancellazioni che non condivide, i rifacimenti ritenuti (da altri) necessari. Lo scrittore che abbia l’ambizione di costruirsi una propria lingua letteraria rischia di sparire. Molti sono già spariti. La resistenza a questo sistema di cose sembra utopica. Occorre sperare nell’incontro (accadono, anche se ci vuole fortuna) tra un editor intelligente e uno scrittore dotato di autocritica, capaci di ascolto e di reciproca sorveglianza. Perché, a dirla tutta, la questione è anche che molti autori sono convinti di aver scritto un testo di alto valore letterario e, quindi, intoccabile e si sentono sopraffatti e violentati da cancellazioni, snaturamenti e fraintendimenti di un editor ottuso e asservito alle esigenze di mercato. Ma chi decide oggi che cosa sia un buon libro, un testo necessario all’umanità?
L’autore non mi sembra il miglior giudice, o, quantomeno, non può essere l’unico. Saper ascoltare e valutare l’opinione di chi fornisce un punto di vista alternativo potrebbe essere utile, forse addirittura stimolante. Penso che un editing pesante sia riservato ai libri mediocri. Se un romanzo presenta densità, robustezza di architettura sintattica e attraversa l’interiorità con punti di vista inediti, in una specie di navigazione intellettualmente ed emotivamente avventurosa, probabilmente nessun editor penserà di stravolgerlo.
Qualche taglio e qualche sostituzione non potranno minarne il valore letterario, anzi potrebbero anche renderlo più efficace. Si tratta di entrare in quei “giochi linguistici”, come li definisce Wittgenstein (dopo aver abbandonato l’ideale di una lingua perfetta e universale) in cui nulla ci assicura che ciò che noi nominiamo appartenga anche al vocabolario, e quindi al mondo, di chi usa regole di un altro “gioco linguistico”. Credo che, se si vuole veramente comunicare, il compromesso sia indispensabile.
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