Rebecca libri

Legge e libertà, Romano Penna, Edusc, 2023

di Romano Penna
Fonte: Edusc, 2023

Capitolo 4
GESÙ DI NAZARET, UN OSSERVANTE LIBERO

Dobbiamo riconoscere che ci sono essenzialmente due modi per misurare il grado di libertà di un uomo: pesare le sue dichiarazioni sull’argomento e soprattutto osservare i suoi comportamenti pubblici. In più, bisogna necessariamente rapportare il suo concetto di libertà al quadro culturale in cui l’individuo è storicamente inserito.

Nell’Atene di Pericle la libertà poteva avere una mera connotazione politica, prescindendo totalmente dalla scontata componente sociale della schiavitù; ma per un filosofo come Socrate la libertà era un valore individuale collimante con l’autarcheia, cioè con la possibilità di dominare sé stessi e poter scegliere il meglio conformemente alla ragione1.

In Israele, invece, bisogna distinguere. Da una parte, la libertà è un dono di Dio all’uomo creato (sia in quanto egli come individuo può scegliere tra il bene e il male, sia in quanto egli come membro di un popolo è condotto attraverso un esodo dall’oppressione sotto i nemici di Dio alla possibilità di esprimere in pienezza, anche mediante l’indipendenza nazionale, la propria appartenenza a lui). Dall’altra, la libertà viene paradossalmente definita in rapporto alla Torah/Legge: non solo nel senso di poterla praticare, ma ancor più nel senso che solo nella sua osservanza si trova massimamente la propria libertà. Così infatti sentenzia un antico detto rabbinico dei primi due secoli: «Non vi è un vero uomo libero, all’infuori di colui che si occupa dello studio della legge» (Pirqê Abôt 6,2b); analogamente si esprimono alcuni maestri medievali: «I figli della Torah sono liberi»; «Uno non diventa libero se non attraverso la sua applicazione alla Torah»2.

Gesù di Nazaret, da parte sua, non rinnega mai il proprio contesto giudaico; anzi, egli vi appartiene integralmente, ed è soltanto tenendo conto di quel quadro che si può adeguatamente comprendere l’intera sua vita terrena. In pratica, egli è un osservante che si sottopone a tutti i riti e le prescrizioni previste dalla Legge, a partire dalla circoncisione fino al processo davanti al Sinedrio, passando attraverso la frequenza al Tempio e l’osservanza delle varie festività religiose.

Stando alle fonti di cui disponiamo sulla storia della sua vita, il termine ‘libertà’ non si trova mai sulla sua bocca. Quanto all’aggettivo, esso si trova solo una volta nei vangeli sinottici, a proposito del pagamento della tassa per il Tempio: «I figli sono liberi/esenti dai tributi» (Mt 17,26). Il testo più forte in assoluto, ma anche l’unico, si legge nel Quarto vangelo: «Se rimanete fedeli alla mia parola … conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi …. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Gv 8,32.36). Qui, stante il parallelismo tra Verità e Figlio, la libertà consiste nell’adesione a Gesù Cristo. Ma indubbiamente è un po’ poco per poter elaborare una teoria gesuana sulla libertà, tenuto anche conto che sul testo giovanneo gravano dei forti indizi di redazionalità3; comunque si tratta di un concetto alto, che intende una libertà ‘ontologica’ dal peccato del mondo (cf. Gv 1,29). Per avere un quadro più ampio e concreto bisogna invece prendere in considerazione l’insieme dei suoi pronunciamenti e della sua vicenda biografica, dove si rinviene l’esercizio di una libera critica rivolta al suo ambiente. Una cosa è sicura: se Gesù non è morto tranquillamente nel suo letto, è perché ha disturbato qualcuno che non era disposto a chiudere nessuno dei due occhi4!

Già la sua proclamazione secondo cui egli non è venuto ad abolire la legge e i profeti, ma a completare (così in Mt 5,17), denota una idea di insufficienza attribuita alla legge mosaica e alle antiche disposizioni legali o almeno a una certa loro diffusa interpretazione. Nel contesto immediato, infatti, Gesù contrappone una serie di classici comandamenti del passato a un nuovo modo di intendere le cose: «Avete sentito che fu detto…, ma io vi dico…» (Mt 5,21-48). Oggetto di interesse qui sono vari aspetti della vita di relazione, con cui appunto ci si rapporta ad altri nella minuta esistenza quotidiana (omicidio, adulterio, giuramenti, legge del taglione). Gesù non abroga, ma radicalizza le esigenze della Torah, richiedendo un «di più» (Mt 5,20) che dovrebbe distinguere i suoi discepoli dalla dedizione un po’ letteralista dei Farisei5. In questo caso si può certo parlare di libertà radicale, ma non nel senso di un qualsivoglia libertinismo, bensì in quanto si considera il pronunciamento legale come una formulazione soltanto minimale, se non anche carente e inadeguata.

Il fatto è che Gesù adotta un nuovo principio ispiratore di tutta la condotta del discepolo, quello dell’amore vicendevole senza eccezioni, che va molto al di là delle restrizioni casistiche pertinenti naturalmente a una legge; e su questo punto, come in pochi altri casi, le tradizioni evangeliche sono concordi (cf. Mt 5,43-48; Mc 12,31; Lc 6,27-36; Gv 13,34-35). L’amore infatti non si può comandare. Se poi egli formula la sua richiesta nient’altro che riprendendo e ripetendo il testo legale di Lev 19,18, «Amerai il prossimo tuo come te stesso», lo fa estendendone comunque la portata ben al di là di un ‘prossimo’ originariamente inteso limitatamente al connazionale e al correligionario (tanto che l’antico midrash Mekilta Ex. 21,35 esclude esplicitamente il subordinato, il samaritano, lo straniero; per non dire della comunità di Qumran che addirittura richiedeva l’odio per gli estranei come in 1QS 9,21s). Se Gesù richiede l’esercizio di un amore universale come necessario contrassegno dei suoi discepoli, non è per imporre una restrizione; al contrario l’amore, si sa, o è libero (cioè sciolto da precetti riduttivi, quindi incondizionato e gratuito) o non è. Bisognerebbe anche precisare che nel greco neotestamentario l’amore è qualificato non come eros, che già secondo Platone è amore di conquista, connotato da una qualche deficienza propria (cf. Simposio 203c: «Eros è figlio di Espediente e di Povertà»), ma come agape, cioè amore gratuito di pura donazione, connotato da una ricchezza interiore e traboccante. Ebbene, l’esercizio di un simile amore non può essere imbrigliato da alcun ordinamento giuridico, poiché è l’espressione massima della persona e della sua libertà. Ciò spiega perché Gesù non lo ha limitato a nessuna casistica, se non nel senso più estensivo del termine (fino ai nemici)6!

Ma c’è poi tutta una serie di ambiti in cui egli ha dimostrato in concreto la sua libertà nei confronti delle regole vigenti. Precisiamo subito che non si tratta tanto di una libertà di ordine politico contro le istituzioni in atto, né contro Erode autonomo tetrarca della Galilea (benché una volta lo gratifichi dell’epiteto poco onorevole di «volpe» in Lc 13,32) né contro la potenza occupante dei Romani (il cui Cesare è comunque ben demitizzato, essendo nettamente distinto da Dio in Mt 22,21, mentre di fronte a Pilato dimostrerà poi un atteggiamento di interiore superiorità). La sua critica è condotta soprattutto sul versante morale e religioso, che comunque in Israele comandava da vicino l’intera vita del popolo giudaico, anche quella più minuta.

Per cominciare, si deve ricordare almeno un esempio di esplicita opposizione a un precetto legale, quello che comandava la sepoltura del proprio padre (richiesta da Gen 23,3-4 e dalla Mishnà in Berakot 3,1). A un discepolo che voleva seguirlo a condizione di sotterrare prima il proprio genitore, Gesù chiede provocatoriamente di tralasciare questo gesto di pietà in vista di una causa maggiore com’è quella del regno di Dio. Anche se le parole di Gesù si dovessero interpretare come una mera iperbole, sta il fatto che egli l’ha formulata in termini anti-legali; del resto, queste parole fanno parte di tutto un atteggiamento richiesto al discepolo a proposito di un disgiungimento dai legami familiari per lo stesso scopo.

Un altro caso riguarda l’osservanza del sabato, essendo ben chiaro che Gesù ha infranto più volte il riposo assoluto richiesto dalla Torà per il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; ecc.; e di contro: Mc 1,21-28; 2,23-28: «Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato»; 3,1-6; Lc 13,10-17; 14,1-6; Gv 5,1-11; 7,22-23; 9,14). Si può ben supporre che la regolamentazione in materia nel secolo I° non fosse sufficientemente precisata e che nella società del tempo si dovesse distinguere tra una élite colta che era ligia all’osservanza e strati sociali inferiori meno scrupolosi in materia (come risulta da alcune testimonianze palestinesi; così, secondo 1Mac 2,39-41, è lecito combattere anche di sabato; e secondo il midrash Mek.Ex. 31,12-14 per salvare una vita si può prescindere dalle leggi del sabato). Ma il fatto è che di norma Gesù trova l’opposizione esplicita degli scribi e dei farisei, i quali dunque non accettano la sua disinvoltura (cf. Mt 9,11; 11,19; Mc 3,6; Lc 15,1-2; 19,7). Ciò che contraddistingue il comportamento di Gesù è un principio fondamentale, che si ritroverà anche in altri casi: quando la norma religiosa va contro la dignità e le necessità dell’uomo, allora bisogna dare la preferenza all’uomo!

Un terzo caso concerne il divorzio di due coniugi, a cui abbiamo già accennato. Alla chiarezza della Torah in materia di ripudio (cf. Dt 24,1-4) Gesù oppone con altrettanta chiarezza l’esigenza di un vincolo matrimoniale indissolubile. Non che egli fosse del tutto originale in materia, visto che una richiesta del genere è attestata già in Malachia 2,13-14 e anche a Qumran (cf. CD 4,20-5,5; 11QT 57,17-18). La questione semmai consiste nel sapere se la sua presa di posizione rappresenti una sfida diretta contro la Torah oppure se il suo rigorismo radicalizzi soltanto la Torah senza essere antilegale. La sua negazione della liceità del ripudio (cf. Mc 10,2) sembra andare piuttosto nella prima direzione. Altra cosa sarà l’eccezione formulata esclusivamente da Mt 5,32b («eccetto in caso di porneia»; 19,9b), che ha tutto il sapore di un intervento redazionale non-gesuano7. In ogni caso, secondo quanto leggiamo in Gv 8,1-11, egli si oppone esplicitamente alla lapidazione di una donna adultera, come invece vorrebbero gli scribi e i farisei in conformità alla legge enunciata in Lev 20,10; Dt 22,22-24.

Inoltre, c’è il suo atteggiamento critico nei confronti della pratica del digiuno, con cui egli prende le distanze sia dai discepoli del Battista sia da quelli del Farisei (cf. Mc 2,18b-19a): è una dichiarazione negativa che, a motivo del suo inserimento in un momento di vita vissuta («Perché i tuoi discepoli non digiunano?»), dev’essere davvero gesuana, a differenza dell’istruzione positiva ma ‘didattica’ (e di timbro giudeo-cristiano) che Gesù dà sul digiuno in Mt 6,16-18. Nulla più dell’adduzione del paragone di un banchetto nuziale poteva contrastare l’inutile necessità di ricorrere al digiuno quando è in corso una festa (il cui motivo non è altro che la presenza di Gesù stesso).

Entra poi in conto quel vasto settore della religiosità giudaica, che è incentrato sul rapporto tra ciò che è puro e ciò che è impuro8. A questo proposito, il campo in cui Gesù dimostra la sua grande disinvoltura è quello costituito dalle persone (sono invece marginali le testimonianze circa gli oggetti e gli animali), toccando le quali o lasciandosene toccare si contraeva una contaminazione che impediva l’esercizio di vari atti cultuali e da cui perciò ci si sarebbe dovuti purificare. Il giudaismo del tempo considerava impuri i lebbrosi, le donne mestruate, i cadaveri, i pagani, i pubblicani/gabellieri, e le prostitute. Ebbene, per ciascuna di queste categorie i vangeli documentano non solo la libertà di Gesù, ma persino una certa sua spregiudicatezza. Ricordiamo qui velocemente alcuni esempi del suo modo di comportarsi con rappresentanti di ciascuna delle varie specie suddette, cioè con i lebbrosi (cf. Ma 1,40-45), i defunti (cf. Mc 5,35-43), i pagani (cf. Mc 7,24-30), i samaritani (cf. Gv 4,1-32, e la celebre parabola in Lc 10,29-37), i pubblicani (cf. Mc 2,15-17; Mt 9,10-13; Lc 7,34), e le prostitute (cf. Lc 7,36-50). In tutti questi casi Gesù non tiene minimamente conto di una eventuale impurità contratta, preponendo assolutamente al relativo precetto il concreto bisogno della persona umana.

Una specificazione di questa libertà riguarda la pretesa purità o impurità di determinati cibi forniti dalla carne di certi animali. Nel Levitico c’è tutta una casistica in materia (cf. Lev 11). Ma Gesù nega che l’uomo possa essere reso impuro da qualcosa di esterno a lui, e invece restringe l’ambito della purità alla sola dimensione interiore: «Non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui lo possa contaminare, ma sono le cose che escono dall’uomo che contaminano l’uomo» (Mc 7,15); e l’evangelista di suo annota: «Così dichiarava puri tutti gli alimenti» (7,19). Come a dire: con un semplice colpo di spugna si è cancellato tutto un sistema che condizionava la relazione con Dio a determinate prescrizioni dietetiche.

Un sesto esempio di libertà è dimostrato da Gesù a proposito del cosiddetto istituto ebraico del qorbàn (letteralmente «ciò che viene offerto»), per cui qualsiasi cosa fosse offerta a Dio assumeva carattere di sacralità e non poteva più essere destinata ad altri scopi neanche umanitari; benché la norma relativa non sia contenuta nella Bibbia, essa appartiene alla legislazione consuetudinaria ed è esplicitamente documentata nella Mishnà (cf. Ned. 1,2-3). In questo caso avviene che a favore di un preteso diritto di Dio si trascura con noncuranza il diritto dell’uomo, come quando si destina al culto ciò che invece potrebbe e dovrebbe servire per la cura dei genitori anziani (questo è il caso specifico contemplato in Mc 7,8-13). Qui la critica di Gesù è tagliente: «Voi abbandonate il comandamento di Dio [quello di onorare i genitori] e osservate la tradizione degli uomini» (7,8); e i suoi termini sono comunque molto più forti di quelli pur documentati anche da una analoga disposizione della comunità degli Esseni: «Nessuno consacri il cibo della sua bocca» (CD 16,14-15).

Infine, abbiamo il caso del violento intervento di Gesù nel cortile del Tempio, da cui egli scaccia venditori e cambiavalute (cf. Mc 11,15-18 e paralleli). Il significato del gesto è oggetto di discussione. Sembra però che si debba abbandonare l’opinione tradizionale, secondo cui egli avrebbe voluto semplicemente ‘purificare’ il Tempio da sovrastrutture profane per riservarlo a meri scopi religiosi di preghiera; infatti, chi voleva offrire un sacrificio (di animali) aveva necessità di comprare gli animali richiesti per i vari tipi di immolazione o di olocausto, e doveva farlo con una specifica manovra monetaria (visto che i sacerdoti accettavano soltanto moneta di Tiro). Ebbene, l’unico spazio disponibile per operazioni del genere era il cortile più esterno dell’area templare, detto appunto «Cortile dei Gentili» perché aperto anche ai pagani: lì intervenne Gesù. Il significato del gesto, dunque, doveva avere una portata molto più destabilizzante, che implicava necessariamente pure una critica al ceto sacerdotale in quanto unico gestore del Tempio stesso. Si trattava di un gesto sommamente ‘profetico’, con cui egli intendeva simboleggiare la distruzione e il rinnovamento del Tempio stesso, secondo una linea di pensiero attestata a partire dal profeta Ezechiele (40-48: descrizione del nuovo Tempio futuro) fino ai posteriori midrashim rabbinici (cf. il midrash sul Salmo 90,19: «Disse il Santo: Nel tempo presente il Santuario fu distrutto e devastato, … ma nel tempo futuro io stesso lo costruirò e farò abitare in esso la mia Shekinàh/Presenza»). Il gesto di Gesù, pertanto, acquista un significato di portata escatologica. Denotando la sua grande libertà nei confronti della massima istituzione religioso-sacrale del giudaismo, egli si pone davanti agli occhi dei contemporanei come qualcuno che non solo è più grande di Giona e di Salomone (cf. Mt 12,41-42) ma è più grande anche del Tempio9.

In conclusione, la libertà di Gesù va giudicata almeno a un doppio livello. In primo grado, e conformemente a una certa nostra sensibilità moderna avvezza alle contestazioni, Gesù ci può apparire come uno che semplicemente non si rassegna alle istituzioni vigenti e le aggredisce con una critica corrosiva, volendo cambiarle in nome di ordinamenti politico-sociali diversi e migliori. Ma c’è il rischio di attribuirgli una forma mentis propria del nostro tempo, non del suo, soprattutto non dei suoi personali intenti. In realtà, Gesù non è facilmente incasellabile: non certo come un indisciplinato o un ribelle alla maniera di un terrorista o di un guerrigliero, ma neppure di un comune ‘disobbediente’. Gesù è un uomo libero in nome dell’uomo e contro una certa ‘religione’, cioè contro un apparato legalistico-rituale che voglia salvaguardare la diversità e superiorità di Dio a scapito delle sacrosante esigenze dell’uomo. Bisogna ricordare qui che l’essenza stessa del cristianesimo, in prima battuta, non consiste nel fatto che l’uomo debba prendersi a cuore la dignità di Dio, bensì, al contrario, nel fatto che è Dio stesso a prendersi a cuore la dignità dell’uomo, e che egli ha fatto questo proprio in Gesù di Nazaret. Questo Galileo non ha fatto altro: è lui a dimostrare nelle sue parole e nei suoi gesti che, appunto, Dio è dalla parte degli uomini, in concreto dalla parte dei poveri, degli emarginati, dei segnati a dito, dei peccatori di qualunque genere, di chiunque abbia bisogno di un riscatto. Gesù è libero non per interessi propri, ma per offrire una speranza a chi non ne ha. Ed è così che, salvando la dignità dell’uomo, egli salva anche la dignità di Dio.

In secondo grado, infatti, con la libertà del suo comportamento Gesù rivela un originale e personale livello di comunione con Dio stesso. Il detto evangelico «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9) si deve assolutamente applicare anche al comportamento libero di Gesù. Nella sua libertà è all’opera la libertà di Dio, allo stesso modo che nella sua misericordia è in atto la misericordia di Dio. E si tratta di un Dio che certo non ha come metro di misura i propri comodi, ma neanche soltanto un progetto politico di basso profilo. Nella libertà di Gesù c’è invece il respiro di qualcosa di divino, cioè di un amore per l’uomo che solo il Dio dell’evangelo sa programmare e concretizzare10.

Un discorso a parte merita poi il fatto dell’Ultima Cena secondo il testo presente nei Sinottici e in Paolo circa il riferimento al «sangue dell’alleanza» (Mt 26,28; Mc 14,24) o della «nuova alleanza» (Lc 22,20; 1Cor 11,25). Qui l’Antico Testamento viene evocato per dire due cose, corrispondenti alle due tradizioni: l’una è che bere il vino offerto da Gesù corrisponde all’atto cultuale compiuto da Mosè sul Monte Sinai con l’aspersione della metà del sangue di giovenchi sull’altare e l’altra metà sul popolo (cf. Es 24,6-8) così da stabilire una inter-comunione tra Dio e gli offerenti; l’altra è che si tratta comunque di una novità, poiché l’alleanza, come abbiamo detto, non suppone più il riferimento a leggi esterne scritte su tavole di pietra (cfr. 2Cor 3,3.6)11. Semmai c’è da chiedersi dove stia la “novità” della disposizione promulgata da Gesù. La storia d’Israele in effetti conosce altri rinnovamenti dell’alleanza/patto12. Ma una ritualità del patto collegata con un rito come quello del Sinai, dove il sangue ha tanta parte, non si ripeterà più in Israele fino alla morte di Gesù, che appunto chiamerà il suo sangue esplicitamente «sangue del testamento/patto/alleanza». Tutt’al più si può ricordare che Is 42,6 definisce la persona stessa del Servo di Yhwh (da identificare o individualmente con una figura di re o profeta oppure collettivamente con il popolo d’Israele) con la categoria di alleanza: «Ti ho formato e stabilito come berît/diathḗke del popolo e come luce delle genti», dove si vede bene che il patto non consiste in una Legge da osservare ma in una figura personale oggettiva che implica la Legge in se stessa, e comunque a prescindere da ogni rito di sangue. In ogni caso, e occorre ripeterlo, è ben chiaro che l’alleanza di cui parla Gesù si distingue dalla serie di quelle che lo hanno preceduto per un motivo fondamentale: essa non ha clausole! Qui sta tutta l’originalità evangelica: l’alleanza attuata da Gesù è senza condizioni! Si riprende così l’idea di una berît/diathḗke totalmente gratuita, quale quella che Dio aveva sancito con Abramo. Sicché la bilateralità mosaica cede il passo alla unilateralità rivelatasi in Gesù Cristo13. In buona sostanza, ora l’Alleanza fra Dio e l’uomo non poggia più sulla base presupposta del comportamento morale dell’uomo con l’osservanza di leggi varie, ma direttamente sul sangue di Gesù Cristo versato gratuitamente «una volta per sempre… ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 7,27; 9,12)14.

Va comunque tenuto ben presente che né il Gesù terreno né Paolo incentrano il loro messaggio sull’idea di diathḗke/patto/alleanza, visto che il termine sulla bocca di Gesù non ricorre mai, a parte appunto l’unico pronunciamento sul calice dell’Ultima cena, così come nelle lettere dell’Apostolo esso non è assolutamente centrale, poiché là dove egli ne parla si tratta o di una reminiscenza storica (cfr. Rom 9,4; 11,27; 2Cor 3,14; Gal 3,15.17; 4,24; anche Ef 2,12) o di un’alleanza nuova e quindi comunque diversa dall’antica (cfr. 1Cor 11,25; 2Cor 3,6)15. Sicché è inevitabile concludere che propriamente «non esiste una “teologia del Patto” che unisca i due Testamenti in qualità di nesso storico-salvifico»16 omogeneo. È vero che anche a Qumran la semplice osservanza della Legge non era ritenuta sufficiente, se in più non si faceva parte della comunità stessa (cfr. sopra: 1QS 2,25-3,6). Ma l’annuncio evangelico propone un altro tipo di esautorazione della Legge, che è connessa nient’altro che con la persona di Gesù.


1 L’ideale socratico di libertà, secondo Senofonte, consiste semplicemente nel «non aver bisogno di nulla» (Simposio IV,45: tò medenòs prosdeisthai).
2 Cf. in generale Eph.E. Urbach, Les sages d’Israel. Conceptions et croyances des maitres du Talmud, Cerf, Paris 1996.
3 Più che gesuano, il concetto è giovanneo, visto che questo lessico (presente nei Sinottici soltanto in Mt 17,26) nel solo Gv si trova 4 volte (8,32.33.36bis). Esso in Gv ha a monte non tanto il volontarismo dello stoicismo (cf. Epitteto, Diatr. IV,1.89) quanto lo gnosticismo che identifica la libertà con la conoscenza della rivelazione (cf. Vangelo di Filippo, 123: «L’ignoranza è schiavitù, la conoscenza è libertà»).
4 Tra la varia bibliografia in materia, cf. D. Marguerat, Gesù di Nazaret. Vita e destino, Claudiana, Torino 2020.
5 «La legge è in qualche modo oltrepassata nella misura in cui Gesù risale alla sua origine: mette davanti a noi la fonte. La legge viene portata verso il suo inizio ed è in questo modo superata: la fonte della legge è più della legge. Ora, Gesù si presenta dalla parte della fonte» (P. Beauchamp, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 128).
6 Per più ampi sviluppi, si veda anche R. Penna, Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019.
7 Si veda la discussione del caso nei vari commenti, come quello di F. De Carlo, Vangelo secondo Matteo, Paoline, Milano 2016, 248-252.
8 Su questo tema nel giudaismo, si veda P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio, SEI, Torino 1994, 415-453; Id., Gesù e la sua gente, 74-79.
9 Cf. in merito E.P. Sanders, Gesù e il giudaismo, Marietti, Genova1992, 83-121.
10 Di una sua “passione d’amore” parla Origene (Hom. in Ez. 6), di cui si veda il testo con commento in N. Ciola, Cristologia e Trinità, Borla, Roma 2002, 67-69.
11 Sull’insieme cfr. anche C.A. Eberhart, Kultmetaphorik und Christologie. Opfer- und Sühneterminologie im Neuen Testament, Mohr, Tübingen 2013, 116-129.
12 Essi sono avvenuti con Giosia (cfr. 2Re 23,1-3) e con Neemia (cfr. Ne 9-10), oltre a quello prospettato nel futuro da Geremia (cfr. Ger 31,31-33) e a quello di cui si dice a Qumran che il Messia avrà il compito di rinnovare. Effettivamente solo la comunità essena di Qumran impiegava il costrutto «nuova alleanza/patto» riferendone la realtà a se stessa. Infatti, da una parte, là viene configurato un messianico Principe della Comunità, il quale «rinnoverà la berît della comunità… per stabilire la sua berît santa» (1QSb 5,21.23). Dall’altra, gli stessi membri della comunità sono definiti come «quelli che entrarono nel nuovo patto (hbryt hḥdšh)» (6,19b; 8,21; 20,12; cfr. anche 1QpAb 2,3). Ma bisogna notare che la novità proclamata, come del resto in Geremia, non prescinde affatto dalla Legge; anzi, nel contesto si richiede che i membri della comunità «abbiano cura di agire secondo l’esatta interpretazione della Legge…: separare il puro dall’impuro, distinguere tra il sacro e il profano, osservare il giorno del sabato secondo l’interpretazione esatta, e le feste, e il giorno del digiuno» (CD 6,14-19a). In questo senso il patto vissuto nella comunità qumraniana è ritenuto l’unico possibile, anche se si tratta di un «patto che è per tutto Israele per legge eterna» (CD 15,5; cfr. 1QS 4,22-23: «I giusti… Dio li ha scelti per un patto eterno e a loro spetterà tutta la gloria di Adamo»).
13 E non è un caso che Paolo in due celebri passi delle sue lettere (Gal 3 e Rom 4) colleghi appunto la figura di Gesù non con Mosè ma con Abramo stesso, ponendo addirittura una contrapposizione tra la «promessa» e la «Legge», nel senso che dalla parte della prima sta la fede mentre dalla parte della seconda stanno le opere, mutuamente esclusive. L’autore della Lettera ai Colossesi, da parte sua, dirà persino che Gesù con la sua morte «ha annullato il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni [quelle del rapporto Dio-uomo fondato sull’osservanza della Legge] ci erano sfavorevoli» (Col 2,14).
14 In merito, cfr. P. Sacchi, «Il Patto di Gesù (Mc 14,22-24), Reimarus e l’origine del cristianesimo», Henoch 34 (2014) 297-306: secondo l’Autore le parole sul calice-sangue pronunciate da Gesù, non solo non appartengono al seder pasquale, ma superano il rito di alleanza del Sinai (e quello del Kippûr) perché Gesù non fa riferimento a nessuna clausola legislativa e perché offre il sangue proprio («una volta per sempre», come si legge in Eb 7,27; 10,2.10), e perciò è in questo Patto/Alleanza, non nell’insegnamento di Gesù (contro Reimarus), che i discepoli, nonostante la morte ingloriosa di lui, si trovarono subito coinvolti a costituire un nuovo fenomeno storico.
15 Così anche in Lc 1,72; At 3,25; 7,8; Eb 9,4; Ap 11,19.
16 E. Gräss er, Il patto antico nel nuovo. Saggio esegetico, Paideia, Brescia 2001, 201.


Fonte: Edusc, 2023
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