Lettera a scrittori, aspiranti scrittori e presunti critici
Un giovane lettore, 19 anni, che vuole restare anonimo, ha inviato questa lettera a Nazione Indiana chiedendone la pubblicazione. Anche il titolo è dell’autore.
Gentili Signori e Signore,
l’anonimato che mi garantisce la qualifica di Lettore Anonimo mi permette di parlare a nome di un intero esercito di lettori, e di farlo con schiettezza. Farò in questa sede quanto voi ambite a fare nelle vostre opere: parlare a nome di tutti. Rinuncerò al mio nome per amore della verità – che è sempre qualcosa di più grande di noi, del nostro misero nome – e rinuncerò così a qualsiasi forma di narcisismo. D’altronde, perché vi affannate tanto a sognare il vostro nome pubblicato in grandi lettere su una qualche copertina? Cosa sono i nomi, se non squallidi sudari, soprattutto quando il corpo che ricoprono è cadaverico e senza vita? Potrete persino ricoprire i libri che scrivete con i vostri nomi, ma se nessuno li legge, chi potrà perpetuarvi nella memoria dell’umanità?
La verità è questa, cari autori: noi, esercito di lettori senza guida e senza comandante, vogliamo un re da incensare, un uomo di cui tramandare il ricordo e le gesta. Ma mi duole deludervi; non mi riferisco a voi, al vostro nome, bensì a un libro. Noi vogliamo che siano i libri a guidarci. Le pagine, la carta, vogliamo che ci indichino una strada, che ci dicano “Là, umanità, è dove siete diretti”. Vogliamo delle nuove tavole della Legge, smarriti come il popolo ebraico nel deserto. Mai come ora percepiamo l’assoluta necessità di comprendere l’anima del mondo, e chiediamo che sia un libro, un vero libro, a mostrarcela, a mostrare cioè la nostra immagine riflessa nello specchio.
Nel retro di copertina, cari scrittori, non vogliamo le vostre facce, le vostre barbe da intellettuali, o le vostre chiome sensuali. Non sappiamo che farcene. Noi vogliamo la nostra faccia rappresentata nel libro, la nostra anima, chi siamo e chi saremo. Vogliamo che ci rappresentiate. Se volete, è una sorta di voto di scambio: noi compriamo la possibilità di essere rappresentati in un grande parlamento. Ogni lettore avrà le sue esigenze, e avrà diversi interessi, e chiederà a voi autori, ad alcuni di voi, di rappresentarli in questo parlamento che sono le librerie. Così fra voi vi saranno giallisti, vi saranno poeti, e autori di romanzi rosa, di formazione e storici. E noi, cari scrittori, noi esigiamo che siate all’altezza delle nostre aspettative, perché voi siete al nostro servizio.
E voi, uomini e donne dalla dura cervice, vi chiederete cosa vogliamo di preciso in un libro, poiché probabilmente non l’avete ancora compreso. Non abbiatene vergogna, noi lettori siamo pazienti, altrimenti ci saremmo già fermati agli incipit dei vostri romanzi, e non saremmo stati in grado di leggere oltre la prima pagina. Cosa vogliamo allora? La vita. Niente di più che la vita. Questa cosa un po’ tragica, contraddittoria, questa materia che brucia e che non riuscite a toccare senza mettervi i guanti, questo istinto insaziabile che non si lascia governare dalle redini della vostra scrittura. Questa cosa che vi fa paura, e di cui non c’è traccia nelle vostre opere. Perché siete pavidi, o non siete all’altezza del nostro più intimo desiderio.
Scrivete con la stessa lemma boriosa e annoiata di un notaio o di uno scribacchino, come se fosse un lavoro fra tanti. Vi rifugiate in questo ruolo professionale, e a volte accademico, perché in fin dei conti avete paura. Di noi, della tragedia, della vita. Soltanto quando avrete paura di quello che state scrivendo, e ciononostante proseguirete nella scrittura, soltanto allora saremo certi che state scrivendo un buon libro. E noi vogliamo buoni libri.
Vedete, voi ricercate l’originalità, cercate a tutti i costi di essere originali. Ma questa vostra ossessione è l’ennesima conferma del vostro narcisismo, perché così facendo volete solo dimostrare di essere stravaganti, unici. Della qual cosa, in tutta franchezza, non ce ne può fregar di meno. Per una volta abbandonate voi stessi, la vostra identità, diventate folli! Lasciate che sia la vita a dettarvi le parole, la trama, e non la vostra storia personale, la vostra infanzia, vostra suocera. Per questi problemi hanno inventato gli psicanalisti, tormentate loro e lasciate in pace noi.
Dimenticatevi di voi, ricordatevi di noi! Di noi che siamo qua smarriti, senza guida e perseguitati. Perseguitati dai costi astronomici dei vostri tomi, dalle pubblicità asfissianti e menzognere, dalle recensioni mercenarie. Perseguitati dalle classifiche, da una babele di titoli e nomi, da premi campagnoli, perseguitati dall’attesa trepidante di un’opera vera, autentica, vitale!
Ma noi siamo pazienti, e attenderemo.
Davide Orecchio, uno degli autori di Nazione Indiana, scrive:
Lascio ad altri commentare la lettera, se vorranno. Da parte mia segnalo solo alcune figure – “re da incensare”, “voto di scambio” – che, soprattutto in questa stagione politica infelice, mi paiono un filo eccessive. Aggiungo poi, da lettore, che la letteratura autobiografica mi è sempre piaciuta. Senza lo Zibaldone di Leopardi o i Diari di Gombrowicz o la Lettera al padre di Kafka non saremmo tutti più poveri di spirito? Ma mi rendo conto che forse mi sto rifugiando in dettagli rispetto alla Critica mossa dal Lettore Anonimo.
Tra i numerosi commenti di risposta segnaliamo quello di Vittorio Cotronei:
Completamente d’accordo, peccato però che spesso siano proprio le grandi case editrici a chiedere al “nome” di scrivere un romanzo. Lo chiedono a chi ha decine di migliaia di follower, a chi “ha già un seguito” e una faccia ben riconoscibile da mettere in quarta. Se lo fanno vuol dire che il mercato va in questa direzione e chi rappresenta la domanda in questo mercato? I lettori, ai quali sembra che interessi più il “chi” che il “cosa” Quindi questa lettera andrebbe rispedita agli stessi lettori, non agli scrittori o presunti tali, porelli.
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