“Il poeta stava morendo (…) Di tanto in tanto le dita si muovevano, schioccavano come nacchere, tastavano un bottone, un’asola, un buco della giacca imbottita, toglievano granelli di sporcizia e si fermavano di nuovo. Il poeta moriva da così tanto tempo che aveva smesso di capire che stava morendo”. Così Varlam Šalamov nei suoi Racconti della Kolyma, e più precisamente in Cherry-Brandy (1958) ricostruì l’ultimo, ipotetico giorno di vita di Osip Mandel’štam, stroncato dal tifo o dall’inedia il 27 o il 28 dicembre 1938 in un campo di transito (tranzitka) nei pressi di Vladivostok. Sebbene l’incertezza avvolga tuttora le circostanze in cui si spense una delle più alte voci poetiche del Novecento (non soltanto russo), Šalamov non dovette ricorrere certo a sforzi d’immaginazione per figurarsi la sua agonia nell’“ininterrotta teoria di tavolacci a castello”, la razione di pane rubatagli dai compagni, le dita macchiate di tabacco che, nel deliquio della fame, appaiono al morente improvvisamente estranee e remote, simili più a una carta geologica muta che non alla sagoma delle proprie mani. Prima di approdare ai campi di lavoro della Kolyma, l’autore era passato infatti l’anno precedente per quella medesima tranzitka, elevata in seguito nel racconto a simbolo universale: non solo luogo connotato geograficamente, tappa intermedia tra il carcere e il lager, ma spazio quasi onirico in cui si compie il passaggio irreversibile dalla vita alla morte.
A ottant’anni esatti da allora l’editore maceratese Giometti&Antonello dà alle stampe L’opera in versi (pp. 376, euro 38), vasta scelta dalla produzione poetica di Mandel’štam a cura di Gario Zappi. Nell’ambizione, evidente fin dal titolo, di abbracciare pressoché nella sua interezza il lascito del poeta russo, il traduttore sembra realizzare un sogno che fu dello stesso Mandel’štam, il quale, come testimonia la moglie Nadežda, si pensò a lungo autore di un unico, indivisibile libro – non a caso, la prima silloge Kamen’ (La pietra) dal 1913 al 1923 ebbe tre edizioni costantemente ampliate, mentre la seconda, Tristia, doveva teoricamente intitolarsi Novyj kamen’ (La nuova pietra), in un legame dunque di dichiarata continuità con la precedente. Per questa sua aspirazione all’esaustività, il progetto di Zappi si contrappone alle recenti traduzioni italiane che tendono invece a privilegiare singoli momenti dell’opera mandel’štamiana: dalla produzione giovanile, trascelta da Gianfranco Lauretano, che s’è cimentato per l’appunto con La pietra (Il Saggiatore, 2014 e 2018) fino a quella più tarda, come le ottave di Quasi leggera morte, uscito nel 2017 per Adelphi a cura di Serena Vitale, ma anche i cosiddetti Quaderni di Mosca, analizzati con finezza da Pina Napolitano in un volume uscito lo stesso anno per la Firenze University Press.
Giocoforza dunque confrontare l’impresa di Zappi con le rese dei traduttori che nel corso degli anni si sono misurati con la produzione di Mandel’štam nel suo complesso, e quindi la stessa Vitale, ma anche Remo Faccani, che nel 1998 pubblicò nella collana bianca di Einaudi la raccolta Cinquanta poesie (poi diventate ottanta). Superfluo tediare i lettori con raffronti incrociati resi ancora più ardui dalla decisione dell’editore di rinunciare al testo a fronte e di relegare per ragioni di spazio gli originali russi in fondo al volume; basti dire che, in confronto ai suoi predecessori, Zappi sembra prediligere la ricerca di una strenua equivalenza semantica tra le lingue, rinunciando alla mallarmeana “réminescence du vers strict” perseguita da Faccani e, al contempo, dimostrando maggior libertà nell’ordine sintattico rispetto alle traduzioni di Vitale risalenti agli anni Settanta.
Illuminante a tale proposito è il parallelo tra le rispettive versioni della quartina conclusiva di Rakovina (La conchiglia) del 1911, dove Mandel’štam ventenne, dopo essersi paragonato a una conchiglia priva di perle, si rivolge alla notte, prefigurando il miracolo dell’ispirazione poetica: “…e colmerai dei bisbigli della spuma, / della nebbia, del vento e della pioggia, /le pareti della fragile conchiglia, / come la casa d’un cuore inabitato…” (così Zappi). Vitale mantiene invece l’inversione oggetto /soggetto dell’originale russo: “…e le pareti della fragile conchiglia / come il guscio di un cuore inabitato / riempirai dei sussurri della schiuma, / di pioggia, nebbia e vento”, presente anche in Faccani (“e il vano della fragile conchiglia – / nido di un cuore dove nessuno alloggia – / ricolmerai di schiuma che bisbiglia, / ricolmerai di nebbia, vento e pioggia”), che a livello lessicale tende a intensificare, laddove Mandel’štam è più neutrale (“nido” per dom, “casa”).
Similmente, si potrebbe discutere senza fine (e senza pervenire a definitive certezze) della scelta di tradurre in versi liberi un poeta che, è noto, componeva camminando, affidandosi dunque esclusivamente all’elemento ritmico – il che, com’è ovvio, lo istigava alla creazione di una ampia gamma di varianti. È la contraddizione (cruciale per tutta la lirica russa del Novecento, e non solo per Mandel’štam) segnalata a suo tempo da Iosif Brodskij, sostenitore del mantenimento della metrica nelle traduzioni: “Senonché, non appena il moderno lettore inglese si trova di fronte a questa misura di regolarità, pensa subito alla sua poesia nazionale che già da un bel po’ di tempo l’ha stufato. O, peggio ancora, non la riconosce come familiare”.
Di fronte a questo dilemma, Gario Zappi assume una posizione molto netta, optando per la maggior fedeltà possibile al contenuto. Una strategia che si presta soprattutto al tardo Mandel’štam, mentre l’assenza di metro si fa più sentire nella resa delle liriche giovanili. È qui infatti che l’elemento musicale, sprigionandosi anche grazie alla prosodia, dava vita a quella particolare sintesi di suono e significato in cui il poeta ventenne tendeva a dissolvere ciò che definiva come “il suo inutile io”. Forse, l’aspetto più interessante delle traduzioni di Zappi è l’insistenza sullo sperimentalismo verbale di Mandel’štam, l’attenzione a quei neologismi quasi chlebnikoviani di cui sono spesso intessuti i suoi testi e che sono il riflesso speculare della sua devozione assoluta nei confronti della parola. Una posizione insieme esistenziale e morale che, come acutamente rileverà Brodskij, negli anni Trenta in Urss non poteva condurlo se non nella tranzitka di Šalamov: “Un poeta si mette nei guai non tanto per le sue idee politiche, quanto per la sua superiorità linguistica e, di conseguenza, psicologica. Il canto è una forma di disobbedienza verbale”.
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