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Naipaul e la «nostra civiltà universale»

di Niccolò Scaffai

Lo scrittore e il mondo: che significato assume questo binomio per Naipaul, che ha intitolato così – The Writer and the World – la raccolta dei suoi reportage, scritti tra anni Sessanta e Novanta viaggiando attraverso Asia, Africa e Americhe? Il libro, uscito per la prima volta nel 2002 (un anno dopo l’assegnazione a Naipaul del Premio Nobel per la letteratura), è stato pubblicato in Italia da Adelphi alla fine del 2017 nella traduzione di Valeria Gattei. Quale significato assumono o, meglio, in quale rapporto stanno i due termini? I racconti di viaggio danno spesso agli scrittori l’occasione per parlare di sé stessi, delle proprie esperienze e scoperte, rispetto alle quali le persone e gli scenari incontrati sul cammino sono figure più o meno stranianti di un riconoscimento, o conferme di quanto gli autori hanno creduto di sapere o capire già prima di partire. È evidente che, in questo caso, lo scrittore conta (per sé stesso) più del mondo di cui parla. Per Naipaul è vero il contrario, come ha spiegato nel discorso al Manhattan Institute di New York nel 1992 (qui pubblicato come poscritto: La nostra civiltà universale): «Ecco perché si viaggia e si scrive: per scoprire. Altrimenti sarebbe come conoscere le risposte prima dei problemi» (p. 511). Allo scrittore tocca un ruolo di servizio, che Naipaul svolge con accuratezza, documentando con scrupolo la storia di luoghi e persone. Tanto che a volte lo spazio dedicato ai contesti, non sempre interessanti per il lettore di oggi, appare perfino troppo ampio; si vorrebbe in certi casi che Naipaul arrivasse prima al dunque, che ci facesse sentire distintamente la sua voce. Ma Lo scrittore e il mondo è un libro da leggere senza fretta, con il ritmo che l’autore stesso ha desiderato imprimergli, accumulando i vari saggi in un arco di tempo pluridecennale.

Anziché comporre un romanzo in forma di cronaca di viaggio, Naipaul si mette infatti a disposizione dei luoghi, si impegna a conoscerne e interpretarne le tradizioni, anche attraverso la voce di altri scrittori come Norman Mailer e soprattutto Borges, inevitabile interlocutore nella ‘scoperta’ dell’America Latina:

Quando parlammo della storia argentina disse: “C’è uno schema, uno schema non manifesto. Anch’io faccio fatica a riconoscerlo”. E in seguito aggiunse: “Quelle guerre civili ora sono senza senso”. Forse, quindi, parallelamente all’idea artistica, ha preso forma in Borges anche un’idea della realtà, seppur in modo inconsapevole. E ora, comunque, il mondo reale non può più essere negato.» (Borges e il passato fasullo, p. 360).

Si può dire che anche Naipaul cerchi di cogliere lo «schema non manifesto» che permette allo scrittore, abituato a pensare al rapporto tra passato e presente attraverso il racconto, di esprimere «un’idea della realtà». Non c’è dubbio che tale idea si formi anche in base alla prospettiva e all’appartenenza dell’autore; ma per Naipaul –  nato a Trinidad nel 1932, da una famiglia originaria dell’India nord-orientale, trasferitosi in Inghilterra nel 1950 e naturalizzato britannico – quest’appartenenza è di per sé mobile, molteplice. Asia, America ed Europa contribuiscono dunque a fare di Naipaul uno scrittore continuamente mosso dalla necessità di capire le relazioni tra culture, giudicarne le influenze e criticarne se del caso gli influssi e gli effetti. Lo sguardo di Naipaul, infatti, è tutt’altro che imparziale o irenico, come dimostra uno dei suoi libri più famosi e importanti, Fedeli a oltranza. Un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam (‘Beyond Belief’, 1998, apparso in Italia nel 2001, sempre da Adelphi, che pubblica tutte le opere dello scrittore). Perciò i suoi reportages non sono mai un complemento, una variazione più o meno esotica sui temi affrontati nei libri d’invenzione, ma sono un’espressione essenziale della sua scrittura; rappresentano il mezzo di confronto tra lo scrittore e il mondo – non due entità che si fronteggiano o si contrappongono, ma due funzioni della realtà necessarie l’una all’altra.

La prima parte del volume è dedicata all’India, a cui Naipaul guarda come a una dis-patria, cioè a un luogo (anzi, a un mondo) di straniante familiarità. L’emblema di questa contraddizione è il dialogo assurdo che lo scrittore si trova spesso a intrattenere con gli abitanti:

«Lei da dove viene?» è la domanda tipica che ti pongono, e per gente abituata a pensare in termini di villaggi, distretti, province, comunità, caste, la mia risposta – che vengo da Trinidad – è sconcertante.

«Ma sembra indiano».

«Be’, sono indiano. Ma viviamo a Trinidad da diverse generazioni».

«Ma sembra indiano».

Questo dialogo si ripete tre o quattro volte al giorno, e ora preferisco risparmiarmi le spiegazioni: «In realtà sono messicano». (p. 15)

Come Naipaul, indiano dei Caraibi, lascia interdetti i ‘veri’ indiani, così le grandi città del subcontinente – Calcutta, Bombay, Madras, Nuova Delhi – provocano nello scrittore un senso di spaesamento. I luoghi non sono sempre come il viaggiatore si attende, non corrispondono se non in parte allo stereotipo che lo stesso semi-indiano Naipaul ha assimilato, «come chiunque leggesse i giornali» (p. 19). Non è dunque con il filtro di una presunta indianità che lo scrittore osserva il Paese delle sue origini, ma con quello dell’europeo, anzi dell’inglese che riconosce forme e stili della nuova patria, grottescamente o tragicamente imposti oltreconfine:

Tutte le quattro grandi città dell’India si sono sviluppate sotto l’Impero britannico, ma nessuna ne porta l’impronta quanto Calcutta. La Nuova Delhi di Lutyens è un disastro, una burla fintoimperiale, né britannica né indiana […]. Madras, benché vanti con Fort Saint George uno dei più bei complessi dell’architettura britannica settecentesca al di fuori della Gran Bretagna, per il resto è banalmente coloniale. […] Soltanto Calcutta sembra creata a immagine dell’Inghilterra; qui gli inglesi, eccezionalmente, seguirono la pratica imperialista dei francesi e dei portoghesi. […].

In India non c’è luogo in cui lo scontro tra Oriente e Occidente sia stato più violento, e due edifici, oggi considerati monumenti, parlano di questa violenza: il Mullick Palace e il Victoria Memorial. (pp. 21-22)

Gli spazi, gli edifici sono la manifestazione tangibile non solo del dominio, ma anche dell’identità conflittuale che il colonialismo ha impresso alle città e all’intero Paese. Ciò che più colpisce nei reportages di Naipaul, e li distingue da altre scritture postcoloniali, è proprio l’assunzione di quel conflitto come prospettiva. Così, ad esempio, dallo scontro, dalla «miscela esplosiva di Oriente e Occidente» è emerso secondo Naipaul «qualcosa di inedito i India», «una cultura unica che – per quanto disprezzata dai bengalesi non di Calcutta, agli occhi dei quali risulta boriosa e settaria – ha dato al nazionalismo indiano molti dei suoi profeti ed eroi» (p. 23). Non c’è in questi saggi un’apologia della storia coloniale, ma neanche il partito preso a favore della cultura dominata, né l’indulgenza nei confronti della moda dell’India ‘scoperta’ in quegli anni (il reportage risale alla seconda metà dei Sessanta) dai «beatnik americani, australiani e di altri paesi»:

Perché proprio la semplicità dell’India delude e, alla fine, stanca. Il pittoresco è un inganno. I barbari riti religiosi degli indù sono barbari; appartengono al mondo antico. La vacca sacra è un’assurdità; è, come suggerisce Nirad Chaudhuri in The Continent of Circe, una distorsione ignorante di un antico culto ario. I segni di casta e i turbanti appartengono a un popolo che, incapace di considerare l’uomo come uomo, non sa definirsi in altro modo. L’India è tutta esteriorità. Una volta imparate alcune lezioni basilari, è facile orientarsi, riconoscere la schematicità delle conversazioni, sperimentare l’impossibilità di comprendere. (p. 31)

Il giudizio di Naipaul è tanto netto da somigliare a una rimozione. Possibile che lo scrittore sappia o capisca così poco dell’India da liquidarla senza appello? Probabilmente no, ma il sospetto è che rifiutando tanto l’assimilazione quanto l’incanto orientalista, Naipaul riveli indirettamente la delusione (ed esprima il risentimento) nei confronti di una cultura colpevole di appartenergli meno di quella britannica. Come tutti i grandi scrittori di viaggio, Naipaul sa manovrare il dispositivo dello straniamento, ma ha scarsa simpatia per il relativismo: Calcutta decisamente non è Oxford.

La seconda parte del libro raccoglie i reportages sull’Africa e la diaspora, che confermano il carattere disincantato dello sguardo di Naipaul. Eloquente, in questo senso, è la rappresentazione della natura e dei paesaggi, mai celebrati per la bellezza o il rigoglio e, al contrario, sempre raffigurati per le loro sfasature. Così, ad esempio, l’isola di Anguilla, tra «le verdi e ondulate isole caraibiche […] sembra uno sbaglio, uno scherzo» (p. 106); Belize City, osservata dal cielo, gli appare come «una massa bianca, informe, al margine di una terra fradicia, con foreste che qua e là riflettono il sole in un disco pallido» (p. 123). Il punto di vista straniante tende a inquadrare il paesaggio non come ‘idillio’, cioè come quadro d’immobile perfezione, ma come frammento di una storia in divenire, stato transitorio in un processo di metamorfosi da raccontare e spiegare: «L’anno scorso hanno visitato Mauritius ventimila turisti. Il paradiso perduto possiede già un casinò, e la società che lo gestisce, in sintonia con i gusti vacanzieri di queste latitudini subequatoriali, ha dotato di slot machine anche i principali alberghi dell’isola» (p. 137). La prospettiva anti-idillica, l’insistenza sul tema del paradiso perduto sono correlativi ed espressioni di una condizione più complessa, conseguenza duratura delle alterazioni prodotte dal colonialismo. Naipaul spiega questo suo punto di vista parlando proprio di Trinidad; l’errore coloniale, nel caso della sua isola natale, è consistito nel ridisegnare una geografia ‘fuori asse’ e senza storia:

Nelle isole, di fatto, la questione dell’identità nera è una trappola sentimentale, che offusca i veri problemi. Ciò di cui ha bisogno è l’accesso a una società più ampia in ogni senso, dove la gente abbia la possibilità di crescere. Per alcuni paesi questa società più ampia può essere l’America latina. Nei Caraibi il governo coloniale non ha tenuto conto della geografia e ha creato unità amministrative innaturali; parte del problema è questo. Trinidad, per esempio, è stata staccata dal Venezuela. È un’assurdità geografica; bisognerebbe ripensarci. (p. 173)

Si capisce così perché Naipaul abbia sempre bisogno di risalire alla vocazione dei luoghi, di raccontare le origini dei fatti, soffermandosi, anche a rischio di dilungarsi, sui processi di evoluzione e involuzione, sulle trasformazioni, descritte senza alcun facile entusiasmo per un’ibridazione confusiva, né tantomeno per le affrettate rimozioni. Per esempio, il cambiamento del nome di un Paese, introdotto come emblema del riscatto postcoloniale, gli appare come una forzatura inutile e storicamente sbagliata, a cui non consegue alcun autentico miglioramento ma solo ulteriore entropia e smemoratezza:

Il Congo, ex colonia belga, è oggi un regno africano chiamato Zaire. È un nome assurdo, una storpiatura portoghese del sedicesimo secolo – a quanto dicono alcuni zairiani – di una parola indigena che significa «fiume». Dunque è come se Taiwan, riaffermando la sua identità cinese, riprendesse il nome portoghese di Formosa. (p. 248)

Per gli abitanti dello Zaire, «il passato è una pagina bianca» e niente esprime questa condizione meglio di un simbolo concreto: la locomotiva arrugginita alla stazione di Kinshasa, relitto dell’industria coloniale dell’Ottocento, «forse sopravvissuta perché la si considera un rottame, come molte cose del passato belga» (p. 261).

La terza parte, Vicende americane, è forse la più idiosincratica e radicale nella demistificazione dei miti culturali, a cominciare dal primo scritto, Colombo e Crusoe, che accosta due figure emblematiche e fondative nella storia e nell’immaginario coloniale. La vicenda di Colombo non lascia «impietriti solo per l’orrore», ma anche per «la banalità dell’uomo» e «della sua percezione» (p. 280). Sembra, leggendo tra le righe, che la colpa di Colombo non sia tanto e solo quella di aver aperto la strada allo sterminio della popolazione autoctona e al dominio europeo (di tali crimini lo ritengono responsabile i movimenti di protesta che impongono oggi la rimozione delle statue dell’esploratore dalle piazze americane: un’esaltazione antistorica molto lontana dalla necessità di comprendere che ispira le pagine di Naipaul). A Colombo, lo scrittore imputa piuttosto l’incapacità di essere all’altezza del suo ruolo, di capire il mondo che esplorava e di incarnare i valori della civiltà a cui bene o mele apparteneva. Quello di Colombo (e di Crusoe) non è l’unico mito che Naipaul contesta; è eloquente anche la conclusione del saggio su Steinbeck a Monterey, in cui lo scrittore riporta il giudizio di un abitante dei luoghi raccontati da Steinbeck:

«Steinbeck ha provocato alla California una ferita terribile. Mi piace Pian della Tortilla e anche Cannery Row. […] Ma ha scritto anche Furore. Non ho la cultura per giudicare se un libro sia meglio di un altro, ma quando ho letto Furore mi sono sentito ferito. Non era abbastanza realistico. […] Adesso la gente vede noi californiani così. E ha venduto moltissime copie. Un danno incommensurabile». (p. 331)

Essere visti (e raccontati) per quello che non si è; di conseguenza, vedersi e credersi diversi, addirittura ritenersi abitanti di un altro continente: è soprattutto di questo spaesamento, che si unisce all’illusione di un passato fasullo, che parlano i reportages dall’Argentina («Essere argentini non voleva dire essere sudamericani ma europei […]. Ma essere europei in Argentina voleva dire essere coloniali nel modo più deleterio», p. 349) e dall’Uruguay («Gli uruguaiani si definiscono una nazione europea e hanno sempre ignorato il resto dell’America meridionale», p. 368).

Alla base, c’è un’idea, anzi, un mito dell’Europa che Naipaul capisce e da cui sa di essere profondamente influenzato. Per questo nei suoi viaggi ha cercato di confrontarsi con illusioni e stereotipi identitari; per questo ha riconosciuto e spiegato il disagio di culture fasulle, di geografie spostate, di manipolazioni e cancellazioni della storia in nome della fede (questa, in particolare, sarebbe la colpa della religione musulmana: «tutto ciò che preesisteva all’Islam ea sbagliato, fuorviante, eretico», p. 517). Ne parla nel poscritto su La nostra civiltà universale, che chiude il volume con una nota un po’ troppo conciliante (o almeno così appare, letta a distanza di un quarto di secolo):

Per costruire la civiltà universale c’è voluto molto tempo. Non è stata sempre universale; non è stata sempre attraente quanto lo è oggi. Per almeno tre secoli l’espansione dell’Europa le ha dato una connotazione razzista che ancora provoca dolore. Sono cresciuto a Trinidad negli ultimi giorni di quel genere di razzismo. Ecco perché ho apprezzato ancora di più gli immensi cambiamenti che hanno avuto luogo dalla fine della guerra, lo straordinario tentativo di questa civiltà di accogliere il resto del mondo, con tutte le sue correnti di pensiero. (p. 525)

Così era ancora possibile interpretare il passato (e immaginare il futuro) nel 1992. Nel 2018 è più difficile credere nella capacità di accoglienza della «nostra civiltà universale» (e, d’altra parte, non stupisce che gli anni Novanta stiano già diventando oggetto di revival e nostalgiche fantasie di ritorno all’innocenza). Ma forse proprio per questo è bene rileggere le parole finali di Lo scrittore e il mondo, con cui Naipaul spiegava i valori distintivi di quella (di questa) civiltà: «l’idea di individuo, responsabilità, scelta, la vita dell’intelletto, l’idea di vocazione, perfettibilità e realizzazione. […] Non si può ridurre a un sistema rigido; non può generare fanatismo. Comunque si sa che esiste, e in virtù di questo, alla fine, altri sistemi più austeri saranno spazzati via».

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