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Narrare il Mediterraneo per custodire l’umano

di Erminia Foti

Che cosa pensiamo quando pensiamo il Mediterraneo? Un luogo crocevia di popoli, denso di storia, ma soprattutto terra – e mare – di dialogo. In questo libro, gli autori restituiscono una visione che fa del Mediterraneo il simbolo di un’umanità in ricerca, che ha bisogno dell’altro e della relazione per essere.

Uno sguardo lucido su quello che il Mediterraneo ha rappresentato e continua a rappresentare, con la consapevolezza che quanto di prezioso – non solo dal punto di vista simbolico, ma prima di tutto esperienziale – questo mare rappresenta è da custodire. È questo che il libro La misura mediterranea dell’umano, scritto da Giuseppina De Simone e Claudio Monge ed edito da Castelvecchi, ci restituisce. Già il titolo porta con sé risonanze affascinanti: se è immediato, infatti, immaginare una misura umana del Mediterraneo – con il suo carico di storia e vissuti ma anche di interessi commerciali e culture condivise –, più sottile appare la scelta di pensare a una «misura mediterranea dell’umano». Che cosa si intende per misura mediterranea dell’umano? L’ipotesi evoca la possibilità che il Mediterraneo sia un luogo fisico ma anche spirituale, connotato di alcune caratteristiche e non altre, capace di risuonare nell’uomo in profondità.
È in effetti questo l’impianto del saggio, la cui prospettiva parte dall’universale per arrivare al particolare, esplorando i vari aspetti che a dimensione del Mediterraneo suggerisce: geografici, umani, spirituali.

Che cos’è il Mediterraneo?

Definire il Mediterraneo solo in termini geografici significherebbe appiattirlo a una condizione superficiale, sì, ma è soprattutto complicato: è difficile infatti delimitare un’area che parla di mare ma anche di terre, terre che da secoli hanno visto i propri abitanti mescolarsi e però spesso rinnegarsi. Più aderente, perciò, è la scelta degli autori, che parlano di un «mare che separa e unisce, che nel suo stesso nome narra di attraversamenti e legami» (p. 6). La dimensione del Mediterraneo sembra dunque essere quella del movimento, dell’attraversamento. Non potrebbe essere altrimenti. Il Mediterraneo è lo spazio attraversato per eccellenza: dalla Storia, che da sempre ha avuto nel Mediterraneo uno dei cuori pulsanti della civiltà; dagli uomini, che – come nel passato – oggi lo attraversano, nella speranza di trovare garantita, dall’altra parte, la difesa della loro dignità umana. Ma attraversare significa anche partecipare di più culture, e il Mediterraneo ci restituisce anche questa definizione, a maggior ragione se consideriamo il Mare Nostrum non solo la culla dell’universo occidentale ma anche di quello orientale.

Il Mediterraneo, terra di identità in dialogo

Ciò che contraddistingue il Mediterraneo è la sua capacità di vivere la contraddizione e di trasformarla in complementarità: è un mare chiuso ma aperto all’incontro, in cui si sono incontrate culture profondamente differenti, come quella greca e quella abramitica; eppure, nel dialogo costante di questi popoli, è stato salvifico mantenere ciascuno la propria identità. Oggi, infatti, sembra che agiscano due forze contrapposte che regalano false promesse: da una parte, il desiderio di una categorizzazione ipertrofica dell’essere umano che, lungi dal risolvere le questioni relative all’identità, lo rende un insieme di piccoli pezzetti, come se l’uomo fosse il risultato di un’operazione matematica; dall’altra parte, invece, l’aspirazione all’annullamento della differenza in quanto percepita come gerarchizzazione, come se riconoscere la diversità dell’altro necessariamente implicasse la creazione di una piramide in cui qualcuno sta più in alto e qualcuno più in basso, in cui qualcuno è barbaro, riprendendo una categoria dell’antico mondo occidentale, e qualcun altro civilizzato. Il Mediterraneo, invece, diventa la metafora della differenza che completa, che arricchisce, ma che non appiattisce. Troppe volte, infatti, parlando di integrazione si è rischiato di promuovere l’assimilazione culturale; invece, integrazione significa riconoscere l’altro nella sua dimensione umana, che mi è simile, per validarlo anche nella sua diversità culturale e religiosa. È un processo che dura a lungo e che fa delle relazioni sociali un punto chiave (p. 35), ma non è forse questo quello che l’Europa ci insegna e ha desiderato per sé tanto da scegliere come motto “Unita nella diversità”?
Per perseguire questo obiettivo, però, è necessario riprendere le redini di questo microcosmo, sostengono gli autori, perché troppe ingerenze dall’esterno, troppi interessi di parte hanno reso il Mediterraneo un luogo da sfruttare. Apprezzabile, dunque, è stata la caustica denuncia degli autori nei confronti di chi non ha a cuore la coesistenza pacifica dei popoli e strumentalizza la diversità, principalmente religiosa, per legittimare lo scontro: «dopo l’inizio della guerra di aggressione al cuore dell’Europa cristiana, in quell’universo ortodosso dominante in Russia come in Ucraina, forse impareremo a essere più prudenti a attribuire gli scontri, che stanno insanguinando anche il Mediterraneo, a ragioni puramente religiose (preferibilmente di matrice islamica) e non piuttosto alla variegata realtà dei conflitti d’interessi profani che strumentalizzano le differenze religiose» (p. 11).

L’utopia del Mediterraneo

Con un approccio divulgativo, chiaro e mai banale, il ragionamento degli autori, partendo dai conflitti sopraccitati, prosegue domandandosi in che condizioni versi il Mediterraneo e se sia necessario rianimarlo. Essi scelgono consapevolmente la parola utopia, nel duplice significato di “luogo che non esiste” e “luogo ideale” (p. 13). La sfida è ardua: a oggi non esiste un Mediterraneo i cui capi politici vogliano cooperare per una società più giusta e più equa, così come a oggi non potremmo definire il Mediterraneo come luogo ideale, considerando – ad esempio – come il mare che bagna le nostre coste sia tristemente noto per essere il cimitero più grande d’Europa.
Quali soluzioni allora sono possibili? Interessantissimo il recupero della parola “scarto” del filosofo François Jullien, che la usa per esprimere «l’irriducibilità dell’alterità, e insieme l’ineludibilità della relazione» (p. 23). Solo quando smetteremo di guardare all’altro come qualcuno da cambiare, a cui insegnare, a cui parlare, e ci metteremo in ascolto, allora sì che sarà possibile conoscerlo, anzi ri-conoscerlo, al di là dei nostri schemi preconfezionati. È la dinamica dell’attraversamento di un confine: la mia identità può davvero incontrare la tua se sa intrattenersi, stare nella relazione. Quando invece l’altro non viene riconosciuto nella sua identità, quando la relazione non è la base della reciproca validazione, allora sorgono i problemi della nostra società: si pensi al colonialismo, in cui i confini vengono valicati per affermare la propria supremazia; o, ancora, ai trattamenti disumani che i migranti subiscono nel venire in Europa, alle punizioni che subiscono per aver attraversato un confine considerato off-limits.

La relazione come cifra dell’umano e del divino

Solo riconoscendoci tutti fratelli è possibile pensare ai confini non come muri ma come soglie, e di conseguenza promuovere diritti che è giusto diventino per tutti. In quest’ottica un diritto come quello alla cittadinanza non verrebbe concepito più come muro che separa chi è dentro da chi è fuori, ma come soglia da attraversare, perché è possibile appartenere a più realtà, a più culture, senza sentirsi individui a metà. Gli autori parlano prima di «cittadinanza sostanziale», una cittadinanza che implica uno stretto rapporto con la comunità in cui si abita, per poi aprirsi all’idea di «cittadinanze mediterranee», cittadinanze che rinunciano a omologarsi a uno schema dominante per riconoscere che la contaminazione è parte della nostra storia (pp. 36-37). Questa utopia sembra più raggiungibile se in effetti si considera l’identità propria e dell’altro come qualcosa che è incarnato nella persona: non ha senso parlare di riconoscimento dell’identità altrui se non viene prima riconosciuta la persona in quanto tale. È qui che si situa l’orizzonte cristiano, che al tassello dell’identità slegata dal resto – che rischia di diventare individualismo – restituisce una visione personalista, che rende il soggetto in relazione (pp. 41-42). Non è però solo il cristianesimo a riconoscere questa dinamica: ripetutamente tra le pagine emerge come anche altre fedi sperimentino questa idea, la quale più che contrapporre religioni, contrappone l’homo ethicus, capace di relazione, all’homo oeconomicus, che ricerca nella relazione il proprio vantaggio (p. 42). Più che dividere, le religioni nel bacino del Mediterraneo sembrano avere molte caratteristiche comuni: prime fra tutte la volontà di comunione, il forte senso di comunità e di ospitalità. Riconoscere radici comuni non vuol dire, come gli autori affermano sottolineando alcuni passaggi dell’enciclica Fratelli tutti, farsi sedurre dalla tentazione del relativismo, ma anzi essere capaci di dialogare anche con fedi diverse perché comunque riconosciute come identità non astratte, ma incarnate nei volti di chi ci sta accanto (p. 53). Solo così potremo immaginare una teologia dello sguardo prima ancora delle parole, che sappia guardare in profondità e sia capace di restituire lo sguardo di Dio (p. 64).

La misura mediterranea dell’umano | Claudio Monge | Giuseppina De Simone | Castelvecchi | 2024 | pagine 86 | euro 13,00

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