«Non sono forse il figlio di un Paese serio, di un secolo in abito nero e che sembra portare il lutto di quelli che l’hanno preceduto?»1. In questa domanda retorica del suo Viaggio in Oriente, Gérard de Nerval (Parigi, 1808-1855) fornisce un ritratto di sé stesso, e d’altronde così lo ritrae un dagherrotipo di Nadar negli anni Quaranta dell’Ottocento: indossa un completo scuro, in posa su una poltrona di velluto, con un’aria sognante. Gérard Labrunie (questo il suo vero nome), è uno dei maggiori poeti romantici francesi, noto in particolare per i sonetti delle Chimere (alle quali si ispirerà Dino Campana) e per le sue novelle, tra le quali brillano per bellezza le celebri Sylvie e Aurélia. Il padre era un medico militare che seguì Napoleone e la Grande Armée; la madre morì al seguito del marito in Slesia (nell’attuale Polonia). Dal 1808 al 1814, Gérard fu allevato da un prozio, in quella campagna del Valois, che più volte fa da sfondo ai suoi componimenti in prosa e in versi; andò poi a Parigi, dove fu educato in collegio e dove trascorse gran parte della sua esistenza accanto a un padre che fa un po’ figura di convitato assente, quando non è addirittura considerato come un ospite scomodo (nei suoi Ricordi annota: «Padre mio!… mi fai male!»).
Napoleone è uno dei miti della sua infanzia (gli dedica da adulto varie poesie), come anche la grandeur della Francia e la letteratura tedesca. Traduce da giovane in francese il primo Faust di Goethe e lo pubblica nel 1828 con il consenso dell’autore. Johann Wolfgang è talmente entusiasta della versione nervaliana da confidare all’amico Eckermann la sua immensa stima per il traduttore parigino. Nel 1840 tradurrà anche il cosiddetto Secondo Faust; e sua è anche un’antologia della poesia tedesca che aveva per obiettivo di far conoscere il romanticismo d’Oltrereno ai francesi.
Si intuisce che tra Gérard e il padre le relazioni si guastarono presto: dopo aver iniziato a frequentare corsi di medicina, e aver anche prestato servizio come operatore sanitario durante la terribile epidemia di colera del 1832, Gérard non porta a termine gli studi. Presto il ragazzo abbandona qualsiasi tipo di vita professionale.
Una vita in viaggio
Nel 1834 riceve un’eredità dal nonno materno e parte per un lungo viaggio in Italia: in quella che forse è la sua poesia più celebre, il sonetto El Desdichado (che in spagnolo significa Lo Sventurato), rivolto a una misteriosa Dama che lo avrebbe consolato, chiede: «Restituiscimi Posillipo e il mare italiano […] la pergola che intreccia i Pampini alla Rosa». Da allora in poi, Gérard viaggia più che può: in Belgio (1836), in Germania (1838), in Germania e Austria (1839-1840), di nuovo in Belgio (1840). Lungo tutto il 1843 non lo si vede mai in Francia; trascorre tre mesi in Egitto, poi soggiorna in Libano, poi in Siria e infine vive per tre mesi a Costantinopoli (da lì trae materia per il suo magnifico Viaggio in Oriente, che tuttavia per più di metà è frutto di numerose letture). Nel 1844 soggiorna nuovamente in Belgio, poi nei Paesi Bassi. Nel 1849 lo ritroviamo a Londra; nel 1851 di nuovo in Belgio e in Germania; nel 1852 è ancora in Belgio e nei Paesi Bassi. A Gérard non piace stare fermo: si racconta che a partire dal 1842 a Parigi passi raramente due notti nello stesso alloggio. Quando non è all’estero, vagabonda nella regione del Valois che tanto ama; e quando non viaggia con il corpo, viaggia con la fantasia leggendo e scrivendo molto.
Discepolo di Victor Hugo, Gérard partecipa al famoso cenacolo al quale il critico Sainte-Beuve dà vita nell’autunno del 1830 per assicurare il trionfo del «fondatore» del teatro romantico francese; un cenacolo in cui, a sostegno appunto del teatro di Hugo, intervengono autori prestigiosi come Alfred de Vigny, Alfred de Musset, Honoré de Balzac, Alexandre Dumas, Charles Nodier. Vari tra i focosi sostenitori di Hugo (Nerval incluso) finiscono almeno due volte in prigione per i loro comportamenti eccentrici. Poi però Nerval firmerà due opere teatrali in collaborazione con Alexandre Dumas, e avranno un discreto successo: una delle due, il suo (e di Dumas) Léo Burckart (1838) è considerato uno dei migliori drammi romantici.
Purtroppo, già nel 1841, abbiamo notizia della malattia mentale che verosimilmente fu causa della sua morte: soffriva di crisi di follia, ragion per cui fu più volte ricoverato. A curarlo sarà soprattutto lo psichiatra Antoine Émile Blanche, con il quale si confiderà a lungo. Al di là degli elementi patologici (in merito ai quali possediamo abbondante documentazione), è la lettura stessa dei testi nervaliani a testimoniare una sensibilità fuori del comune, un’identità profondamente instabile, spesso caratterizzata da forme di sdoppiamento della personalità, e una serie di esperienze «mistiche» orientate verso l’Aldilà oppure narrate come se si fossero svolte in una vita precedente. Sempre nel sonetto El Desdichado leggiamo: «Sono Amore o Febo?… Lusignano o Birone?»; e, nell’ultima strofa: «Due volte traversai da vincitore l’Acheronte: / Mentre modulavo di volta in volta sulla lira d’Orfeo / I sospiri della Santa e le grida della Fata».
La bellezza perduta
Spesso Nerval ricerca la bellezza in nostalgici ricordi di un’infanzia che sarebbe stata trascorsa in mezzo a cortesi fanciulle nei dolci paesaggi del Valois; oppure ritrova la bellezza nell’idea fissa di una donna intravista per un attimo e che immagina di aver amato in una vita anteriore (come nel sonetto Fantaisie), donna che egli adorna di tutte le attrattive da persone affascinanti che ha realmente conosciuto (come l’attrice e cantante lirica Jenny Colon o la pianista Marie Pleyel) o forse soltanto sognato di conoscere (come Adrienne e Sylvie); donna al quale egli affida la guida della sua anima. A questi temi fondamentali si aggiunsero i contributi delle sue ricerche filosofiche: Gérard de Nerval, il cui padre era massone, era dominato dalla volontà di trovare l’unità fondamentale di tutte le religioni. Il suo era un vasto sincretismo che lo portò a unire in un unico pantheon ideale l’egiziana Iside, i greci Orfeo e Pitagora, gli ebrei Mosè e Gesù Cristo. Gérard però, forse anche per i contrasti con il padre, non fu mai affiliato a nessuna loggia; né si rivelò mai un anticlericale.
Per Nerval, come per tutti i romantici, non si vive autenticamente se si rimane al livello delle cose nella loro insignificante apparenza; si vive una vera vita solo se si va al di là degli oggetti quotidiani in direzione di un significato che li giustifichi e li trascenda. Lo stesso Victor Hugo, in un verso della Leggenda dei secoli, osservava che «il vino dell’ideale sgorga dal pozzo delle chimere». Nerval, affascinato anche da teorie esoteriche come quelle del pensatore svedese Swedenborg, ritiene che chi vive di illusioni e chimere deve prendere le ombre per realtà salde, dato che le cose sono tutte solo un velo, un rivestimento di una realtà che nel suo fondamento è puramente spirituale; perciò giunge a scrivere (in un sonetto delle Chimere intitolato Versi dorati) che «Chaque fleur est une âme» («Ogni fiore è un’anima»). Le false luci del mondo, i tanto decantati Lumi del Settecento, non sono che cupa notte di fronte ai barlumi e alle energie sprigionate dai miti, alla forza dell’anima. L’anima per Nerval partecipa della stessa natura divina che misteriosamente abita e fa prosperare l’intero universo; concetto che egli illustra magnificamente appunto nel sonetto Versi dorati, in cui scrive: «Spesso nell’essere oscuro abita un Dio nascosto; / E, come un occhio che nasce coperto sotto le palpebre, / Un puro spirito si accresce sotto la scorza delle pietre». Si capiscono perciò i versi dell’incipit dei Versi dorati nei quali si scaglia contro gli atei, esclamando: «Uomo! Libero pensatore – ti credi forse l’unico essere / pensante in questo mondo, dove la vita irrompe in ogni cosa? / La tua libertà dispone delle forze che tu possiedi, / Ma l’universo è assente da tutte le tue risoluzioni».
La magia di Sylvie
Se quello che Gérard de Nerval si propone è oscuro, il suo stile, le sue espressioni, sono la chiarezza in persona. Niente di più limpido e di meglio collegato e grazioso della sua novella Sylvie, capolavoro della letteratura del ricordo, che contiene nelle sue pagine l’alchimia di atmosfere evanescenti e di fini stati d’animo, come ha genialmente osservato Umberto Eco nella prefazione alla sua magistrale traduzione della novella. Eco li definisce «effetto nebbia» simile a «quella soglia mattutina in cui ci si risveglia lentamente, e si confondono le prime riflessioni coscienti con gli ultimi bagliori onirici». In Aurélia, un altro dei suoi meravigliosi testi narrativi, Nerval analizza, con analoghi sentimenti e con straordinaria lucidità, una crisi mentale dalla quale è da poco venuto fuori. Quei momenti di follia davano risultati letterari sorprendenti. È il poeta stesso a raccontare come abbia composto i primi sei sonetti delle Chimere «in uno stato di fantasticheria ultranaturalista»: essi sono sorti dalla sua mente l’uno dopo l’altro in un susseguirsi di baleni su uno sfondo di tenebre. Più che confusione mentale, vi si osserva una straordinaria densità di pensiero ordinata secondo una logica segreta che gli interpreti riescono a riportare a pochi princìpi di base, tra cui in particolare quello della Donna ideale (portatrice di felicità ma che possiede anche volti infernali), quello del doppio, quello dello spaesamento e vari riferimenti all’astrologia e all’alchimia.
Il grande inquieto
I surrealisti (prima di tutto André Breton) e quasi tutti i poeti novecenteschi, sempre più propensi a considerare la poesia come un mezzo di conoscenza irrazionale, hanno visto un caposcuola in questo complesso e geniale scrittore che la maggioranza dei suoi contemporanei ha disdegnato, considerandolo troppo oscuro o troppo ingenuo. Quest’uomo dalla coscienza sdoppiata, questo elegante dandy che sembrava vivere una vita deliziosa e nullafacente, era in realtà consumato da una segreta angoscia e da un intensissimo lavorio interiore, lavorio nel quale si mischiavano e spesso confliggevano inquietudini sentimentali e istanze mistiche. Questo grande poeta è stato giustamente ammirato solo quasi settant’anni dopo la morte per il linguaggio nuovo, pieno di allusioni e sfumature delicate, per il fraseggio ampio e armonioso. Ermetico, surrealista, sincretista, di cristallina chiarezza nell’oscurità dei significati, Nerval ha pagato a caro prezzo il suo genio. Lo ritrovarono impiccato a un lampione nell’Impasse de la Vieille Lanterne, un vicolo senza uscita che oggi a Parigi non esiste neanche più. Il suicidio è più che un’ipotesi, ma chissà che invece non sia stato assassinato, magari da uno dei suoi tanti creditori (era pieno di debiti). Essere misterioso, essere dotato più di molti altri letterati, essere sofferente e delicato, schiacciato dalla vita parigina, senz’altro per lui troppo prosaica ed eccessivamente banale, Nerval ha valicato i secoli per fecondare con le sue fresche illuminazioni la poesia novecentesca. Si contano per esempio più di cento rifacimenti del sonetto El Desdichado da parte di poeti contemporanei (tra i quali Raymond Queneau e Jean Tardieu). Il sonetto inizia con l’io del poeta che si definisce tenebroso, vedovo e sconsolato, principe senza castello e privo di una buona stella, sul cui «liuto disseminato di stelle» è segnato «il Sole nero della Malinconia» – e qui il richiamo è certamente al sole saturniano della Malinconia, considerata dai neoplatonici come una fase quasi divina, che preludeva alla creatività degli artisti; il riferimento è anche a un’incisione di Albrecht Dürer datata 1514, Melencolia 1, nella quale il sole brilla ma ha raggi grigi. Straordinario ossimoro, quello del «Soleil noir», destinato a illuminare, con i suoi tenui ma tenaci raggi, tutta la poesia dagli anni Venti a oggi.
1 GÉRARD DE NERVAL, Viaggio in Oriente, traduzione e curatela di Bruno Nacci, Einaudi, Torino 1997, pp. 272-273. Tutte le altre frasi e tutti i versi di Nerval presenti in quest’articolo sono tradotti dallo scrivente.
Il più celebre sonetto di Nerval
«El Desdichado»
Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé,
Le Prince d’Aquitaine à la Tour abolie:
Ma seule Étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le Soleil noir de la Mélancolie.
Dans la nuit du Tombeau, Toi qui m’as consolé,
Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie,
La fleur qui plaisait tant à mon coeur désolé,
Et la treille où le Pampre à la Rose s’allie.
Suis-je Amour ou Phébus?… Lusignan ou Biron?
Mon front est rouge encor du baiser de la Reine;
J’ai rêvé dans la Grotte où nage la Syrène…
Et j’ai deux fois vainqueur traversé l’Achéron:
Modulant tour à tour sur la lyre d’Orphée
Les soupirs de la Sainte et les cris de la Fée.
Gérard Nerval
«Lo Sventurato»
Io sono il tenebroso, il vedovo, l’inconsolato,
Principe d’Aquitania dalla torre atterrata:
L’unica mia stella è morta e la cetra stellata
Ha il nero sole della Malinconia.
Nella notte tombale, tu che mi hai consolato
Fa che torni Posillipo e il mare italiano,
E il fiore diletto al cuore desolato,
La pergola col pampino alla rosa intrecciato.
Sono Amore o Febo?… Lusignan o Biron?
Imporporata ho la fronte che la regina baciò;
Sognai nella grotta delle sirene…
Due volte vincendo passai l’Acheronte:
Sulla lira d’Orfeo accordati
Sospiri di santa, grida di fata.
Traduzione di Bruno Nacci
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