Nessuno andrà senza perdono. L’”Evangelio” di Pomilio, il “Regno” di Carrère
[Termina con questo intervento il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio. Nei prossimi giorni pubblicheremo altri interventi che, grazie alla generosità di alcuni, si sono aggiunti a quelli programmati: alcuni ci sono già pervenuti, altri li attendiamo].
Pubblicati a quasi quarant’anni di distanza l’uno dall’altro, Il quinto evangelio di Mario Pomilio (1975) e Il Regno di Emmanuel Carrère (2014) sono come lo stesso libro scritto da due autori diversi, in condizioni storiche e personali diverse, con strumentazioni tanto diverse da risultare opposte e complementari. Una montagna scalata da versanti differenti, anche se la cima è unica. Ma la cima è, per sua natura, evidente e nello stesso tempo sfuggente.
Questa che proverò ad argomentare non è propriamente una tesi critica, ma la convinzione che ho maturato nella mia storia di lettore di Pomilio e di lettore di Carrère. Dell’uno e dell’altro, non dei due contemporaneamente, perché per molte ragioni – la più banale delle quali deriva dall’anagrafe – ho conosciuto Pomilio e Carrère in tempi successivi. Ho letto Il quinto evangelio da ragazzo, mentre Il Regno mi è venuto incontro nel pieno dell’età adulta, e prima di lui c’è stato L’Avversario (2000), il libro nel quale Carrère, inaugurando la sua pratica dell’autofiction, tradisce quell’inquietudine teologica che ha reso ai miei occhi Il Regno stesso un libro meno sorprendente di quanto sia stato per altri. Un uomo che affronta in quel modo il mistero del male non può non essere attratto, con forza uguale e contraria, dal mistero del bene. Chi ha raccontato la dannazione, non può sottrarsi al racconto della salvezza, sia pure una salvezza possibile ed eventuale, qualcosa che balena giusto per un istante prima di perdersi nelle nebbie dello scetticismo.
È lo stesso annuncio portato dall’Angelo della Realtà di Wallace Stevens, l’epifania necessaria che si mostra all’improvviso sulla prosaica porta di casa, sempre restando “un’apparizione apparsa in / apparenze tanto lievi a vedersi che se appena / volge le spalle, subito, ahi subito svanisce”. Eppure, dice ancora di sé l’Angelo parlando ai paysans da cui è circondato, “Sono uno di voi ed essere uno di voi / vale essere e sapere quel che sono e so”. Per me la letteratura sta in questa comunanza di destino, in questa rivelazione fugace e ricorrente, indiscutibile nella sua indimostrabilità. Il quinto evangelio e Il Regno potrebbero essere letti, in questo senso, come un commentario ai versi di Stevens, ma vale anche l’ipotesi contraria, vale più che altro la constatazione per cui, in questo arcipelago di parole e segni, ogni testo commenta ogni altro e ne è a sua volta commentato.
Già nella tradizione monastica, del resto, alla Scrittura si accede attraverso la ruminatio, che è poi un altro aspetto del midrash ebraico. Si torna sempre sullo stesso punto, non perché – come sostenevano i teorici del pensiero debole – quel punto in effetti non esiste, è solo proiezione di proiezioni, maschera di maschere, supremo inganno al termine di un’ingannevole catena. No, si torna sullo stesso punto perché quello soltanto esiste veramente e tutto il resto è conseguenza, commento, ruminazione, twice-told tale: una storia raccontata una seconda, un’ennesima volta. Lì si torna, al Regno, perché non ci si può arrendere all’Avversario.
Pomilio riassume benissimo questa consapevolezza in una frase del Natale del 1833 (1983) sulla quale non ho mai smesso di interrogarmi, non perché non riesca a persuadermi, ma perché la sua esattezza continua a meravigliarmi: “Un uomo bisogna coglierlo in quel che ha di notturno – scrive –. In piena luce non siamo nemmeno un’ombra”. Se la luce splendesse sul mondo, non cercheremmo storie da raccontarci nel buio. Se la realtà non recasse i segni di una ferita, non ci metteremmo in testa di trovare un rimedio. Questo è per me, oggi, il significato di quell’altra frase capitale che Pomilio traveste da loghion riconducibile all’evangelio perduto. “Nessuno andrà senza perdono” non proclama, come si sarebbe tentati di credere, un forsennato “liberi tutti” universale. Non vuol dire che non esiste colpa né colpevole, non rimanda a una dimensione di innocenza indiscriminata. Il punto su cui si torna è un altro, è sempre lo stesso: siamo tutti colpevoli, tutti abbiamo bisogno di essere riscattati dalla notte in cui siamo impastati. E proprio per questo non uno di noi può essere lasciato indietro. A proposito: anche la famosa “materia dei sogni” di cui secondo Shakespeare sarebbe intessuto l’uomo è qualcosa di molto meno grazioso e consolatorio di quanto normalmente si pensi. Lo sguardo si posa semmai su una sostanza spaventosa e severa, come aveva intuito Füssli, il pittore dell’Incubo che fu anche grande interprete del teatro shakespeariano attraverso le immagini.
Sto adoperando molto la prima persona, e non è mia abitudine. C’è un motivo per cui lo faccio, ed è precisamente il tentativo di raggiungere la zona in cui Il quinto evangelio e Il Regno – due libri così simili, due libri così diversi – più si avvicinano e più si allontanano. Scrivo spesso “io” e scrivo spesso “noi” perché sia Pomilio sia Carrère fanno entrambi ricorso alla prima persona singolare, ma le loro opere non possono essere comprese se non attraverso il negoziato con la prima persona plurale. C’è una condizione, insomma, in virtù della quale “io” può diventare “noi” e questa condizione è l’esistenza della comunità. Quando affermo che Il quinto evangelio e Il Regno sono come lo stesso libro (quel “come” è un mero tatticismo, un modo per prendere tempo mentre cerco le parole), sto alludendo al fatto che l’oggetto dell’indagine è il medesimo: non la figura storica di Gesù, sulla quale né Pomilio né Carrère esprimono dubbi rilevanti, ma la germinazione delle parole del Maestro nell’esperienza dei discepoli.
Come accennavo all’inizio, gli strumenti usati sono complementari e opposti. Pomilio descrive la ricerca dell’“Apocrifo degli Apocrifi” che è in realtà il “Libro dei Libri”, un Vangelo canonico anche se – o proprio se, il nodo è questo – non proclamato tale dall’autorità ecclesiastica. Dal punto di vista esegetico si tratta di una contraddizione in termini, Pomilio non lo ignora ed è su questa ambiguità che fa poggiare la riuscita di un romanzo così meravigliosamente antiromanzesco. La “canonicità”, se così vogliamo chiamarla, non è una qualità intrinseca al singolo Vangelo, che anzi rimane apocrifo fino a quando la Chiesa non dispone altrimenti. Tutto sta a intendersi sui termini. Per quanto osteggiato e di volta in volta nascosto o proibito dalle gerarchie ecclesiastiche, il Vangelo perduto di cui il professor Bergin e la sua scuola stanno cercando di ricomporre i frammenti non ha mai smesso di essere recepito come autentico da quanti vi si sono imbattuti. Questa comunità che è andata formandosi nei secoli è “popolo di Dio” e quindi, nella visione del Concilio Vaticano II, Chiesa nell’accezione più vasta e compiuta del termine.
Il voluminoso dossier del Quinto evangelio si riferisce alla certificazione di un testo inizialmente ritenuto falso e progressivamente riconosciuto autentico. Il Regno adotta la procedura opposta, sottoponendo al vaglio della falsificazione l’intero corpus neotestamentario. È una testimonianza certa, quella resa dagli evangelisti? E quanto ci si può fidare di Paolo, che non ha mai incontrato Gesù e nondimeno è sicuro di dare voce alla vera intenzione del Cristo? A modo suo, anche quest’altro romanzo-non romanzo fa leva su un “quinto evangelio”, vale a dire sugli Atti degli Apostoli. Affrontando le vicende della Chiesa primitiva, nata dalla memoria diretta della passione morte risurrezione e ascensione del Figlio di Dio, Carrère finisce per interrogarsi su come, e con quale legittimità, possa costituirsi una comunità di credenti. Il racconto che Luca consegna a Teofilo ha una funzione molto simile all’indiziaria ricostruzione operata da Bergin. L’obiettivo è immutato: documentare il passaggio da Cristo al cristianesimo, dall’annuncio profetico all’evento ecclesiale. Perché l’evento, come ricorda Giorgio Agamben, non coincide con il mero accadere delle cose, ma assume significato in quanto destinato a qualcuno. L’evento cristiano è Cristo per la comunità. Meglio: è Cristo per ciascuno nella comunità.
“L’essere che avviene qui e ora avviene a un “io” ”, ribadisce Agamben, ed ecco che la grammatica ci viene in soccorso. Non diversamente dall’autofinzionale Carrère, anche Pomilio nel Quinto evangelio fa largo uso della prima persona singolare, già a partire dalla lettera introduttiva, nella quale Bergin torna alle origini del rovello filologico e spirituale al quale ha consacrato la propria esistenza. In alcuni casi, come nella Professione di fede di Pietro D’Artois o nella Giustificazione del sacerdote Domenico De Lellis, la coincidenza fra testimone e testimonianza è perfetta: è lo stesso Pietro a rivendicare la convinzione per cui Dio “ci ha donato tanta grazia quanto basta alla salvezza e lasciato tanta libertà quanto basta a meritarla”; ed è don Domenico a ripercorrere la propria vocazione scandita dalla scoperta del Vangelo clandestino. E ancora gli appunti che gli allievi inviano a Bergin, i numerosi a parte con cui lo studioso commenta gli “affioramenti” del quinto evangelio, fino alla provvisoria conclusione affidata a un’altra lettera, quella con cui la prediletta Anne Lee comunica la morte del professore rivolgendosi al medesimo destinatario della missiva inziale, l’autorevole biblista del Vaticano al quale è stato trasmesso l’incartamento. Conclusione provvisoria non solo perché la ricerca non è affatto terminata, ma anche perché il documento finale altro non è se non l’introduzione al Quinto Evangelista, il dramma al quale Bergin ha lungamente lavorato mentre esplorava archivi e repertori. L’esito del romanzo è un‘opera teatrale, nella quale ciascuno dei personaggi si esprime, come di prammatica, in prima persona.
Nessuna di queste voci corrisponde perfettamente a quella di Pomilio, la cui eco si avverte tuttavia in ogni pagina. Scelta comprensibile da parte di uno scrittore che, anche quando ha sfiorato i territori dell’autobiografia, si è sempre ritratto un attimo prima del passo definitivo. I personaggi che nei suoi romanzi dicono “io”, primo fra tutti il protagonista della Compromissione (1965), sono sempre il risultato di una rielaborazione narrativa. Le uniche ricorrenze della prima persona singolare in senso stretto si hanno nei saggi di Pomilio, specie negli Scritti cristiani (1979 e 2014), dove sono frequenti le ricognizioni autocritiche, le confessioni memorialistiche, perfino il ricorso a espedienti metanarrativi che rendono plausibile un accostamento all’invadente e deliberato “io” di Carrère. Ma quando mette mano a Una lapide in via del Babuino – la novella concepita negli anni Sessanta e destinata a rimanere incompiuta – Pomilio non ce la fa: il protagonista è lui, non ci sono dubbi, ma il racconto procede in terza persona, con l’intromissione di un distacco forse inatteso, ma non incomprensibile. Pomilio può parlare direttamente di sé solo quando si riferisce alle proprie invenzioni, ma per inventare ha bisogno di specchi, diaframmi, controfigure. Peter Bergin è il suo alter ego in quanto è altro rispetto all’“io” della produzione saggistica.
Carrère, da parte sua, non sembra preoccuparsi troppo. Dall’Avversario in poi, ogni racconto passa dalla sua persona, di modo che la voce di ciascun personaggio (la famiglia, i sopravvissuti dello tsunami, Limonov, Paolo di Tarso) ci raggiunge attraverso una sorta di doppiaggio cinematografico. Il doppiatore è sempre e solo lui, Carrère, che nel Regno parte sì alla ricerca della comunità, possibile o impossibile che sia, ma lo fa senza mai distaccarsi da sé, dalla propria condizione di intellettuale parigino che per una stagione neppure troppo breve della vita è stato un cattolico devoto e convinto. Ogni dettaglio è filtrato dalla sua intelligenza, con esiti non di rado strepitosi quanto a raffinatezza. L’apice è costituito dall’episodio in cui lo scrittore istituisce un arco voltaico fra la dottrina cristiana delle immagini e il consumo di video pornografici. Anche Lars von Trier fa qualcosa di analogo in Nymphomaniac (nella fattispecie, nell’episodio La Chiesa d’Oriente e d’Occidente) e la coincidenza meriterebbe un’analisi a parte. Quello che mi preme sottolineare adesso è però che nel Regno Carrère non si limita a guardare pornografia. Piuttosto, ci mette nella posizione di guardarlo mentre guarda pornografia. E questo avviene perché lui stesso si guarda dall’esterno, è spettatore delle proprie azioni e dei propri pensieri. Sarà un’esagerazione, ma è come se anche in questo caso Carrère si stesse difendendo da qualcosa.
Stesso libro, dicevo, ma autori diversi, stili diversi, diverse condizioni storiche e personali. Per la storia mi limito a tracciare le coordinate. Anni Settanta del XX secolo: Guerra fredda, ideologie, collettivismo, dialogo della Chiesa con la società che si sta secolarizzando. Anni Dieci del XXI secolo: Califfato, fondamentalismi, individualismo, confronto tra la Chiesa e una società ormai del tutto secolarizzata. Schematico, ma in questa sede non posso permettermi di più.
Il dato personale merita invece più attenzione. Nel momento in cui pubblicano i libri di cui mi sto occupando, Pomilio e Carrère sono pressoché coetanei: 54 anni l’italiano, 57 il francese, il quale ha però il privilegio di vivere in un’epoca nella quale i cinquanta sono i nuovi quaranta, o giù di lì (sono un cinquantenne anch’io, mi dicono di fidarmi). La differenza non è questa, si capisce. Pomilio è un credente tentato dal dubbio, Carrère è un non credente tentato dalla fede. Si incontrano a metà strada, sulla soglia segnata dall’apparizione dell’Angelo di Stevens, poi ognuno prosegue per la sua strada.
Pomilio va nella direzione della comunità, dove il quinto evangelio si manifesta per assenza. “Cristo non ha più Vangeli / che essi leggano ancora – recita la solenne preghiera fiamminga collocata in una delle prima sezioni del libro –. Ma ciò che facciamo in parole e in opere / è l’evangelio che si sta scrivendo”. Facciamo, al plurale.
Anche Carrère, verso il finale del Regno, si avventura da queste parti. Partecipa a un ritiro dell’Arche, la comunità fondata negli anni Sessanta da Jean Vanier. Per tutto il tempo, si trattiene, osserva gli altri e se stesso dall’esterno, come al solito. Ma poi, per un momento, si lascia trascinare dal canto e dalla danza, non è più un “io” ma un “noi”. Non dura molto, ma è accaduto, è un evento. Anche per questo l’ultima frase del libro è uno scarno “Non lo so”, che è ammissione di incertezza (la fede come suprema tentazione del non credente, appunto) e insieme adesione al Je-ne-sais-quoi che nella riflessione di Vladimir Janklélévitch sta a un’incollatura dal Presque-rien, il “quasi niente” in cui per tutti, anche per me, tutto si gioca: la vita e la morte, l’amore e la perdita, la dannazione e la salvezza, il Regno che tarda e l’Evangelio che si compie nell’attesa.
Nessuno di noi andrà senza perdono.
Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963. Ha scritto romanzi (Il signor figlio, 2007; Infinita notte, 2009; Dopo il miracolo, 2012: tutti editi da Mondadori) e saggi, spesso dedicati all’esperienza del sacro nella società contemporanea (In terra sconsacrata, Bompiani 2008; Francesco, il melangolo 2014). Sua la prefazione all’edizione del Nuovo corso di Pomilio curata da Mirko Volpi per Hacca (2014). È giornalista del quotidiano “Avvenire” e collabora a diverse riviste, tra cui “Vita e Pensiero” e “Munera”. Il suo sito è http://www.alessandrozaccuri.it
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