A cosa serve la prefazione di un libro? In teoria, ad aiutare il lettore ad affrontare il testo vero e proprio, magari fornendogli coordinate di carattere storico o culturale, per orientarsi e permettergli di meglio comprendere il libro. Talvolta l’autore scrive una prefazione lui stesso, per raccontare come è nata l’opera, oppure presentarne il senso e il contenuto, per dare modo al potenziale lettore di capire subito se il discorso gli interessa o no.
Ma c’è un altro tipo di prefazioni, che amo molto: quelle che si sbracciano per cercare di dire che il libro non dice quello che dice. Per arginare il libro che segue. Per cercare d’incasellare idee pericolose, ingabbiandole in un contesto innocuo. Ci sono innumerevoli prefazioni di questo tipo, che hanno come principale obiettivo quello di accoltellare il libro che introducono.
Un esempio famoso è la Premessa anonima che apre uno dei più grandi e “rivoluzionari” libri di scienza di tutti i tempi: il De revolutionibus orbium coelestium (Sulle rivoluzioni dei corpi celesti) di Copernico. Il libro di Copernico difende l’ipotesi, allora strepitosa, che la Terra non sia il centro dell’universo, si muova, giri su stessa e intorno al Sole; la struttura gerarchica del mondo non è quella che il Medioevo aveva consacrato. Il libro è un dottissimo trattato di astronomia, fitto di calcoli e geometria. Nella prefazione, aggiunta contro il volere di Copernico dal teologo Andreas Osiander, si sostiene invece che il libro non deve essere preso alla lettera: deve essere visto solo come un semplice esercizio matematico. Un modo per semplificare i calcoli complessi che servono per predire le posizioni dei pianeti nel cielo. In altre parole, non credete a questo libro. «L’autore di quest’opera non ha commesso nulla che meriti rimprovero. È proprio dell’astronomo registrare la storia dei moti celesti mediante osservazioni abili e accurate, escogitare e supporre le loro cause, ossia certe ipotesi, in un modo qualsiasi, non potendole dimostrare in alcun modo come vere». Nella migliore tradizione del genere, la pugnalata alle spalle a Copernico è celata sotto l’apparenza di una sua difesa.
Un altro esempio divertentissimo, di altra portata, mi è capitato fra le mani recentemente studiando Democrito, i cui scritti originali sono perduti. Un grande studioso russo, Salomon Luria, ha raccolto con lavoro certosino e monumentale tutti i frammenti di autori antichi che parlano di Democrito, e ha cercato di ricostruire da questi il pensiero del grandissimo filosofo di Abdera, maestro dell’atomismo antico. Luria, che scrive nella Russia sovietica, mette in luce con acutezza il naturalismo e il materialismo di Democrito, che in epoca moderna hanno fornito ispirazione profonda alla scienza, ma ai quali si opposero allora Platone e Aristotele, con non poco intralcio per lo sviluppo del sapere scientifico. La prefazione del bellissimo libro è di Giovanni Reale, uno dei massimi studiosi italiani del pensiero antico. Per Reale il materialismo di Democrito e di Luria è anatema, e nella prefazione si affanna a smorzarlo e temperarlo, con argomenti divertenti. Basterà un esempio. Per Democrito, gli atomi se non sono disturbati si muovono di moto uniforme e rettilineo, come per la fisica moderna.
Aristotele crede che per spiegare il mondo siano più efficaci le cause finali, e se qualcosa si muove serve un obbiettivo al suo movimento. Quindi Aristotele ipotizza un “primo mobile”, causa finale di tutti i moti. Luria, molto sensatamente, osserva che questa operazione non spiega nulla, semplicemente sposta il problema: se qualcosa può avvenire senza causa esterna, questo può valere per il moto degli atomi; se invece ogni cosa ha bisogno di una causa esterna, qual è la causa del primo mobile? Ma per Reale, cresciuto nell’idealismo, la ragionevole osservazione di Luria è causa di scandalo e viene spiegata come un cedimento alla censura al partito comunista! Sono arrivato a queste riflessioni perché qualche settimana fa un editore mi ha chiesto se volevo scrivere la prefazione all’edizione francese di un recente libro sul tempo, scritto dal fisico americano Lee Smolin. Apprezzo molto Smolin: lo considero un pensatore originale e creativo. Leggo con interesse i suoi libri. Ma la tesi principale di questo suo nuovo libro non mi convince: Smolin suggerisce che la recente evoluzione della fisica, che ha eliminato il tempo dalle sue equazioni, possa essere corretta, e prova a ripensare il mondo partendo dall’idea che alla base di tutto ci sia lo scorrere del tempo, un po’ alla Bergson. A me pare un’idea fuorviante. Cosa faccio? Scrivo una prefazione piena di elogi ma dicendo che penso che l’idea centrale del libro è sbagliata? Mi tengo le mie idee per me? Non scrivo nulla? Non so cosa farò, ma certo ora capisco meglio le prefazioni che dicono il contrario del libro. In fondo hanno fatto così anche i grandi. La lucidissima prefazione che Bertrand Russell ha scritto per il Tractatus di Wittgenstein è piena di elogi, ma si conclude dicendo abbastanza chiaramente che in fondo lui, Russell, non ci crede («Con la mia lunga esperienza delle difficoltà della logica e dell’illusorietà di teorie apparentemente irrefutabili…»). Ma servono davvero le prefazioni? In Italia impariamo a scuola che per comprendere un’opera bisogna inquadrarla nel suo contesto culturale, spiegare cosa c’era prima, come viveva l’autore, che problemi aveva, eccetera eccetera. I professori di scuola crociani ci hanno insegnato l’evoluzione dello spirito dei tempi, quelli marxisti ci hanno insegnato che è una questione di rapporti sociali. In un caso o nell’altro, solo all’interno della Storia si può decifrare un testo. Arriviamo perfino all’assurdo di imparare a scuola un sacco di cose su opere che non leggeremo mai.
In altre scuole del mondo non è così. Nelle scuole anglosassoni per esempio, dove la lunga mano dello storicismo di Hegel ha avuto assai meno presa, un testo si valuta per come può parlare oggi a noi, senza interesse per come e perché è stato scritto a suo tempo. In una scuola inglese si apre una tragedia di Shakespeare, la si legge e ci si chiede: c’è qualcosa di interessante per me in questo testo, così com’è? Mi dice qualcosa? Sui miei problemi, sulla mia società, sulle mie emozioni? Mi insegna qualcosa? Senza fare introduzioni, cappelli, premesse o inquadramenti.
In altre parti del mondo si va all’estremo opposto. Visitando il Tibet, alcuni anni fa, ho incontrato un giovane assetato di sapere e curiosità. Gli ho proposto di spedirgli dei libri dall’Europa. Mi ha risposto che questo non gli era permesso: il suo maestro tibetano gli permetteva di leggere un libro solo dopo che il significato del libro gli fosse stato diffusamente spiegato da lui, dal maestro. Forse adesso, grazie alle scuole cinesi, in Tibet non è più così, non lo so. Ma questa era la cultura tibetana tradizionale, che affascina tanti occidentali. Tutto sommato, a me l’approccio anglosassone ai testi piace di più di quello tibetano, e, non so, forse ha qualcosa da insegnare anche a noi, accanto alla profondità offerta dalla prospettiva storica che caratterizza la nostra cultura. I libri che mi hanno davvero insegnato e segnato a fondo, quelli che sono rimasti dentro di me, che hanno cifrato il mio modo di vedere il mondo, sono i libri che mi hanno parlato direttamente, senza intermediari, senza nessuno che me li spiegasse prima. Quelli che sono esplosi come una luce leggendoli.
Forse in fondo le prefazioni servono più che altro per rassicurare, per dirci “va tutto bene”, è tutto in ordine, prima di un libro dalle idee pericolose. Forse possiamo imparare di più dai libri se le saltiamo, e ci affidiamo al potere sottile e pervasivo della parola. Senza schermi. Scoperti.
I libri di cui si parla
Lee Smolin, Time Reborn: From the Crisis of Physics to the Future of the Universe, senza prefazione (Allen Lane 2013)
Niccolò Copernico, De Revolutionibus, prefazione di Andreas Osiander (Utet 1979)
Democrito, Raccolta dei frammenti, interpretazione e commentario di Salomon Luria, introduzione di Giovanni Reale (Bompiani 2007)
Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, prefazione di Bertrand Russell (Einaudi 1961)
Le immagini che corredano gli articoli del Pensare i/n Libri sono immagini già pubblicate su internet. Qualora si riscontrasse l'utilizzo di immagini protette da copyright o aventi diritti di proprietà vi invitiamo a comunicarlo a info@rebeccalibri.it, provvederemo immediatamente alla rimozione.