Non è vero che si vendono meno libri di un tempo
Periodicamente, come un fiume carsico, riaffiora nel dibattito italiano il tema della perdita di centralità del libro nella nostra società, dibattito perlopiù virato a tinte fosche nel vaticinare un futuro di irrilevanza per l’editoria. Già oggi, si dice, i libri vendono meno di un tempo. Tuttavia, l’esame dei dati disponibili ci restituisce un quadro diverso. Il dibattito è complesso e ovviamente non sfugge a nessuno che la concorrenza di altri media contende tempo libero alla lettura di libri, come però succede da circa 150 anni in qua prima con la radio, poi il cinema, la tv, la tv a colori, internet, gli smartphone. Se lo ricordiamo non è per liquidare la questione in poche righe – il libro non è morto finora, non lo farà nemmeno questa volta – ma per inquadrare meglio la peculiarità di questo medium. Altri, come il teatro, hanno in effetti perso di peso specifico nel nostro mondo. Alcuni – la radio – hanno vissuto una stagione di decadenza e poi di ripartenza attraverso nuovi modi di produzione e fruizione: i podcast. Il libro, invece, sembra avere una persistenza diversa se guardiamo ai dati disponibili: rispetto a 40 anni fa, ogni anno gli italiani comprano un numero di copie pari a tre volte tanto.
Limitiamoci a considerare la così detta varia adulti e ragazzi (saggi e narrativa) nei canali trade che sono librerie, store online, banchi libri di supermercati e grandi magazzini. Sono i canali meglio monitorati e lo sono da più lungo tempo. Lo scorso anno gli italiani hanno comprato quasi 113 milioni di copie. Nel 2019 – prima del lockdown – le copie erano 99 milioni (Fonte: Nielsen BookScan). Non contiamo gli e-book, sarebbero nel 2022 altri 10 milioni di copie. O gli audiolibri, fruiti su piattaforme che si tengono ben stretti i numeri degli abbonamenti e delle riproduzioni. E mancano tutte le vendite – degli stessi titoli e degli stessi autori – che vengono fatte in occasione di saloni e fiere del libro, sotto i tendoni dei festival letterari. Non ne conosciamo il numero, ma ci sono.
Andiamo indietro nel tempo di 43 anni. Nel 1980 Demoskopea – era la società di ricerca che allora monitorava le vendite nelle librerie per conto degli editori – indicava una vendita di 43 milioni di copie. Allora non venivano rilevate le vendite in quelle insegne della grande distribuzione che iniziavano a inserire i libri nei loro assortimenti (Coop), non c’erano i saloni del libro (Torino è del 1988), né le librerie online.
Come si spiega allora la convinzione, di molti tra gli osservatori, secondo cui i libri si vendono meno di prima? Guardare alla struttura del mercato può aiutare a capirlo. Nel 1980 sono stati pubblicati 15.790 titoli, nel 2023 i titoli pubblicati sono 83.950. Poiché si pubblicano così tanti titoli, di ognuno di questi il numero di copie acquistate è mediamente minore di una volta, pur essendo le vendite complessive molto maggiori. Basta guardare all’andamento dei dati di vendita dei titoli più venduti dal 2007 a oggi, nel grafico successivo, (non siamo riusciti ad andare più indietro nel tempo) per accorgersene.
Dalle 550-600 mila copie del 2007 e 2008 si scende alle attuali 290-300 mila. Con l’eccezione del 2012, per via delle Cinquanta sfumature di grigio. Nel 2007 il titolo top era La casta, nel 2008 La solitudine dei numeri primi. Solo in tre occasioni, in 15 anni, il titolo più venduto non è un romanzo. Nel 2007 appunto, nel 2010 con Cotto e mangiato, e nel 2017 con le Storie della buonanotte per bambine ribelli.
L’obiezione più frequente che a questo punto viene fatta è che proprio una iperproduzione di nuovi titoli rende il libro irrilevante nel dibattito e nella vita pubblica, perché è difficile che anche solo uno di questi abbia un peso reale nella discussione collettiva. In primo luogo, potremmo osservare che, affinché i libri abbiano ancora un peso reale nella dimensione pubblica, dovremmo forse avere una classe – diciamo così – intellettuale molto più attenta alle dimensioni di mercato, industriali, distributive e sociali che determinano il «successo» o l’«insuccesso» di un libro, di un autore, di un’autrice, di un genere o di un fenomeno.
Dal punto di vista economico, poi, è una obiezione che è difficile condividere. Si pubblicano più titoli perché c’è una correlazione tra numero di uscite e libri comprati: più crescono le prime, più crescono le seconde. Questo è vero in particolare nel nuovo ecosistema tecnologico: il commercio elettronico da una parte e la stampa digitale dall’altra, che insieme all’ottimizzazione della distribuzione consentono di rendere redditizio anche un libro che vende poche centinaia di copie.
Da un punto di vista più culturale, invece, è difficile ignorare che quello che succede nell’editoria succede anche in altri settori creativi e mediali. Nessun programma televisivo – Festival di Sanremo escluso – fa gli ascolti di 40 anni fa, l’accesso alle notizie si è frammentato sino a rendere ogni singolo giornalista una fonte consultabile indipendentemente dalla testata; testate che nel frattempo si sono moltiplicate sul web. I dipartimenti marketing delle aziende vanno a caccia di «micro-influencer» che contano poche migliaia di follower, ma molto fidelizzati. E si possono fare altri mille esempi. Tutti i mercati culturali sono alle prese con la frammentazione dei pubblici: l’editoria libraria è riuscita a adattarsi a questa tendenza meglio di altre, da una parte perché il costo di produzione di un singolo libro è contenuto, dall’altra perché gli editori sono stati capaci di intuire il trend e adeguare di conseguenza l’offerta.
Veniamo adesso in particolare alla narrativa italiana e straniera, letteraria (espressione molto scivolosa e da maneggiare con cautela) e non. Lo scorso anno sono stati venduti più di 34 milioni di copie di titoli di narrativa italiana e straniera. Erano 29 milioni nel 2019. Chi vuole può aggiungervi il graphic novel e i fumetti: sono altri 11 milioni di copie comprati lo scorso anno, dalle 3 che erano nel 2019. Anche qui mancano dal conto le copie comprate nei saloni del libro, e per i fumetti nelle librerie e nelle fiere specializzate, Lucca Comics & Games e Romix in testa (Fonte: Nielsen BookScan).
Nel 1980 la narrativa italiana e straniera generava quasi 16 milioni di copie (Fonte: Demoskopea). Sono raddoppiate le copie di narrativa (da 16 a 34 milioni; ma i numeri vanno presi sempre con cautela). Dentro ci sono generi che negli anni Ottanta erano marginali, a cominciare dai libri per bambini, il giallo, il fantasy, il romance. Tutto questo per dire che, quando si parla di crisi della narrativa, il sospetto è che la si intenda in un’accezione ristretta, quando invece il genere si è molto allargato, diventando quanto mai plurale e fluido.
Quello che è certo è che il lettore sceglie i libri in modo diverso perché, potendo contare su un maggior numero di titoli in commercio, finisce per riservarsi una maggiore libertà. I cento titoli più venduti oggi generano, tutti assieme, un volume di copie pari a circa il 10% di tutto il venduto annuale. Tutte le altre vendite – e sono il 90% circa – sono frammentate su titoli e su nomi di autrici e autori che molti non hanno nemmeno sentito nominare, ma che per determinate nicchie di pubblico sono importanti e punti assoluti di riferimento delle nuove narrative.
E, per sfatare un ultimo mito, non è nemmeno vero che questa offerta di libri molto frammentata porti al veloce oblio le opere letterarie che sarebbero invece più meritevoli di attenzione. Fatta pari a 100 la spesa in acquisto di libri, il 66% della spesa degli italiani dello scorso anno si è indirizzata verso titoli e autori pubblicati negli anni precedenti, al «catalogo». Il 34% si è indirizzata sulle novità uscite nell’anno. Nel 2019 (anche qui non si riesce ad andare più indietro) la proporzione era 63% vs 37%.
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