Perché Elsa Morante è così importante
Proprio come il protagonista dell’Isola di Arturo, neanche Elsa Morante frequentò le scuole elementari, passò invece l’infanzia al Testaccio, storico quartiere popolare di Roma. E forse è proprio lì, al numero 7 di via Anicia che affondano le ragioni di quell’amore viscerale che ha sempre legato Morante all’umanità più autentica. La scrittrice che odiava i cocktail, le riunioni e tutto quello che appariva obbligato e formale, che considerava vero scrittore solo chi “di tutto si interessa, fuorché di letteratura”, aveva l’obiettivo di dar voce a quell’universo povero ma sincero in cui era cresciuta.
Sulla rivista Nuovi Argomenti, nel 1959, spiegava che “la sua massima aspirazione [era] rappresentare la realtà”. Così i suoi personaggi, come tutti i buoni personaggi della letteratura, presentano sempre una psicologia realistica e sono accomunati dal fatto che, come lei, della storia rifiutano “dottrina, strutture e istituzioni”. E in quest’ottica il libro che meglio racconta Elsa Morante come scrittrice e anticonformista è La Storia, con la esse maiuscola. Un’opera tarda, uscita nel 1974 dopo una lunga gestazione: un’epopea collettiva dove si concretizza il suo desiderio di raccontare un microcosmo in cui i veri protagonisti sono personaggi umili e onesti, in balia dei capricci di una storia manovrata dal potere.
Carlo Bo fu entusiasta di questa ambizione e, già qualche giorno dopo l’uscita, scrisse sul Corriere:
“Ecco un libro che resterà e avrà un peso ben preciso non soltanto per chi lo ha scritto ma anche e soprattutto per i suoi lettori che saranno molti e non lettori scelti, lettori-addetti ai lavori ma lettori comuni, suscettibili di accettare e sviluppare sentimenti e reazioni d’ordine politico in senso alto, meglio morali”.
La Morante aveva voluto espressamente che il libro uscisse subito in edizione economica, proprio per arrivare a quante più persone possibile e scardinare l’idea che la cultura fosse un’esclusiva di pochi. La Storia annoverava tra i suoi protagonisti gli ultimi e si doveva far sì che anche loro potessero, se non leggerlo, almeno parlarne. Il libro si apre con una chiara dichiarazione di intenti in questo senso.
A mo’ di dedica si trova infatti una citazione del poeta peruviano César Vallejo: Por el analfabeto a quien escribo, “All’analfabeta per cui scrivo”.
Nella primissima edizione del libro si trovava poi un’altra frase che risulta essere un’indicazione utile per capire questo libro: in copertina, sotto un’iconica foto di Robert Capa, Morante fece scrivere “uno scandalo che dura da diecimila anni”. Lo scandalo cui si faceva riferimento era quello rappresentato proprio dal potere, nell’accezione più ampia possibile. Sono il potere e il suo desiderio che da sempre annientano gli uomini, soprattutto quelli più umili e destinati a subirlo. Come spiegò la scrittrice in una conferenza trascritta col titolo “Pro o contro la bomba atomica”, il compito dell’arte era quello:
“Di impedire l’autodistruzione della coscienza umana” attraverso il potere. Nella nota introduttiva alla prima edizione americana del suo libro spiega:
“Essendo, per mia natura poeta, io non ho potuto fare altro, anche qui, che un’opera di poesia. E in proposito l’esperienza m’insegna che purtroppo anche la poesia può, a molti, servire da alibi. Come se la poesia dovesse accontentarsi della propria ‘bellezza’, fosse solo un arabesco elegante tracciato su una carta. Allora io devo avvertire che questo libro, prima ancora che un’opera di poesia, vuol essere un atto di accusa, e una preghiera”.
Morante era convinta che l’arte, anche sotto forma di scrittura, si potesse considerare il contrario della disgregazione e fosse quindi necessaria per disinnescare “l’occulta tentazione di disintegrarsi” propria dell’umanità contemporanea.
“Il potere e la violenza sono tutt’uno”, fa dire l’autrice al suo alter ego Davide Segre, la pulsione a distruggere e distruggersi nasce proprio da questo connubio. Non è un caso che il libro inizi con un atto violento: lo stupro da parte di un giovane soldato tedesco alticcio, che mette incinta la timorosa maestra Ida prima di morire in Africa, vittima di un potere ancora più grande e violento. Attraverso il racconto delle vicissitudini di personaggi come la debole Ida, l’autrice racconta le vicende del secondo conflitto mondiale e ne evidenzia il principale paradosso: coloro che non volevano la guerra, sono stati costretti a subirla in nome della folle sete di potere di pochi.
Ida si trova a gestire da sola due figli molto diversi in un periodo difficile: il piccolo Useppe, frutto della violenza del soldato tedesco, rappresenta insieme al bestiario di cani e gatti inventato dalla Morante l’innocenza e la purezza. Come tutto ciò che è naturale e spontaneo, Useppe è simbolo di una bellezza sincera e portatrice di speranza. In una pagina di diario, Morante commentava così l’affermazione dell’amato Moravia, che le aveva detto che gli abeti erano brutti: “Che pazzia è questa! Un albero, un animale, un bambino sono sempre belli. Quello che è naturale è sempre bello”. La scrittrice credeva infatti nell’autenticità come antidoto a una società che, come diceva anche l’antropologa Mary Douglas, “più è investita di potere, più disprezza i processi organici sui quali è fondata”.
L’altro figlio di Ida, avuto dal precocemente scomparso marito Alfio, è Nino, che all’inizio del libro si professa fascista pur avendo origini ebraiche, senza avere idea di cosa realmente significhi: abbraccia il fascio solo perché gli sembra la maniera più facile per incanalare la sua voglia di vivere nella maniera più piena. L’errore di Nino lo accomuna a Marco, il protagonista di Tiro al piccione, film d’esordio di Giuliano, recentemente restaurato e ripresentato a Venezia: entrambi i personaggi sono spinti al Fascismo da confuse idee patriottiche e da una difficile situazione famigliare. Presto si rendono conto però che servire quel potere violento porterà solo alla distruzione di un mondo destinato alla fine. Nino lascia casa per assecondare la sua voglia di “sentirsi vivo” e lo farà altre volte nel libro, prima abbracciando la lotta partigiana e poi cercando la sua strada in autonomia. Nel romanzo appare e scompare, sempre pronto a inseguire la sua idea di libertà.
Tutti i personaggi de La Storia vengono investiti in maniera diversa da quello stesso desiderio di “sentirsi vivi”. Quando il nucleo familiare si disgrega e la casa viene distrutta dai bombardamenti, persino la timorosa Ida ha voglia di vivere giorno per giorno, a maggior ragione in un contesto che fa di tutto per far sentire le persone alla stregua di pedine in mano ai potenti. Scrive Morante: “Si era fatta incapace di pensare al futuro. La sua mente si restringeva all’oggi, fra l’ora della levata mattutina e il coprifuoco. E (dalle tante paure che già portava innate) ora non temeva più niente.”
Madre e figlio trovano riparo a Pietralata, in uno stanzone condiviso con altri sfollati nella periferia romana: la popolazione che abita il rifugio comprende un marmista dalle idee comuniste e una famiglia numerosa che nel libro viene chiamata ironicamente “I Mille”. Nella scrittura densa di metafore di Morante, l’ampio spazio diventa esempio di una società ideale, dove tutti si conoscono e aiutano: nessuno ha paura di mostrarsi com’è in questo microcosmo in cui non esistono differenze di età o di sesso. In un articolo apparso su Il Manifesto il 6 luglio del 1974, Liana Cellerino scriveva a tal proposito: “È indicativo il mito dello ‘stanzone dei Mille’, una comunità promiscua in cui nessuno può essere escluso dalla vita di tutti: Useppe, ‘se avesse dovuto inventare un cielo, avrebbe fabbricato un locale sul tipo “stanzone dei Mille”.
È in questo esperimento di socialità ideale che si inserisce a un certo punto un personaggio fondamentale del romanzo: Davide Segre. Davide è un ragazzo ebreo di buona famiglia, fuggito dai campi di concentramento, che viene accolto dalla comunità dello stanzone. Questo personaggio è quello che dà voce ai pensieri di Morante ed è lui che lancia le maggiori invettive verso il potere definito senza mezzi termini “Degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per chi lo amministra! Una pietra, un chilo di merda saranno sempre più rispettabili di un uomo, finché il genere umano sarà impestato dal Potere”.
Nello stanzone si assiste inoltre al ritorno di Nino, stavolta in veste di partigiano: alla Resistenza non violenta e “adulta” proposta da Davide, Nino oppone la sua ricca di ideali pensata quasi come un’attività ludica: un gioco attraverso cui crescere. “Fra poco rivoluzzioniamo tutto er mondo!” proclama Ninnarieddu, “rivoluzzioniamo er Colosseo, e San Pietro, e Manhattan e er Verano e li Svizzeri e li Giudii e san Giuvanni… E famo un ponte aereo Hollywood-Parigi-Mosca! E ce sbronziamo de whisky e de vodka e li tartufi e er caviale e le sigarette estere. E viaggiamo sulle Alfa da corsa e sul bimotore personale”.
Quando Davide viene convinto da Nino a partecipare alla Resistenza, scopre però il risvolto negativo di certe imprese prese alla leggera: se l’atto liberatorio nasce primariamente dal desiderio infantile di vendetta, come nel suo caso, vittime e carnefici si confondono. Dopo aver ucciso una SS, Davide confessa di sentirsi uguale a chi ha appena ammazzato e non supererà mai certi traumi. Pur di non pensare, si abbandona ai medicinali e muore schiavo della morfina. I suoi ultimi tentativi di sovvertire il potere, anche dopo la guerra, vengono abortiti dall’indifferenza generale: fa discorsi giusti, incita le persone comuni a lottare per la propria libertà ma quell’indifferenza borghese, di cui già scriveva Moravia, dopo il conflitto ha svuotato tutti.
“NESSUN potere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! e un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario; e, pure se nasce proletario, è un borghese!” declama accorato Davide a una platea che nei suoi ultimi giorni lo ignora. Morante ci vuole suggerire così che la rivoluzione propagandata è impossibile: come l’amico Pasolini, anche lei vede Cristo come l’unico vero rivoluzionario, perché è stato l’unico capace di cambiare il mondo per gli altri e non per acquisire potere per se stesso. Ma la sua non è una rivoluzione replicabile oggi.
La gente è stanca e vuole solo dimenticare, vincitori e vinti: desidera solo che la Storia in qualche modo continui, prosegua. Non è interessata a ricordare la sorte di chi è morto o tornato per miracolo: i pochi ebrei di ritorno “la gente li riguardava come fossero scherzi di natura” e “nessuno voleva ascoltare i loro racconti”, perché mantenere viva la memoria è un esercizio doloroso e va evitato, anche a costo di doversi ritrovare di fronte agli stessi schemi che hanno provocato certi drammi.
Ida e Useppe trovano casa, la guerra finisce ma la Storia torna a essere gestita da logiche di potere che condannano gli umili a non comprenderla. La Storia mantiene la sua circolarità e si evolve spietata sulla pelle dei più deboli. Già un anno dopo la guerra, i potenti “Si industriavano a ristabilire un qualche ordine opportuno e la grande metamorfosi sociale, già attesa con impazienza da certi amici nostri (quali Eppetondo e Quattropunte), dovunque, a est e a ovest, si disfaceva al momento di toccarla”. I protagonisti alla fine muoiono tutti, uccisi da quel “grande male” mai scomparso, di cui è simbolo l’epilessia che uccide il puro Useppe. La sete di potere non abbandonerà mai il mondo e men che meno il nostro Paese, troverà al massimo nuove forme. Enzo Biagi lo ricordava partendo dalle piccole cose: “Il culto del potere, in Italia è un sentimento estremamente diffuso. In nessuna parte del mondo esistono, come da noi, cartelli che avvertono, negli stadi, o nei parcheggi, o nei teatri: Riservato alle Autorità.”
Cesare Garboli racconta nella sua introduzione al romanzo che Morante fu accusata di speculare sulla sofferenza, di vendere disperazione e di propagare pessimismo. Eppure una flebile speranza, una possibilità di uscire dal giogo infinito di una Storia ostaggio dei potenti, la suggerisce l’ultima metamorfosi di Nino prima di morire: egli rigetta il potere limitante di qualunque ideologia, sia essa nera o rossa, per cercare una libertà che non può essere collettiva ma solo individuale. “Io, la lotta, la faccio per ME e per chi mi pare!” è l’ultimo definitivo proclama di Nino che conclude lapidario: “Questa è la vita mia, mica è la loro! A me i Caporioni non mi fregano più: io voio víve!”
Esiste in ognuno di noi una dimensione umana semplice e pura, una “vita vera” che non ha bisogno del potere. Ce ne dimentichiamo quando superiamo l’infanzia come Useppe: per recuperarla, ci dice Morante, dobbiamo cambiare la nostra prospettiva prima di quella degli altri e vivere per il puro piacere di farlo. Perché in fondo, come ci ricordano le ultime righe del libro, “la Storia continua” ed è un peccato lasciarsela passare a fianco senza quasi rendersene conto.
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