Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) sembra godere di una rinnovata fortuna: prova ne siano la ripubblicazione dell’opera omnia da parte di Lindau in un’apposita collana “chestertoniana” e la prima uscita di un suo saggio per Adelphi dopo sessant’anni di latitanza dai cataloghi della casa editrice milanese.
Introdurre a Chesterton chi non lo conosce non è un’impresa semplice: ha scritto moltissimo (i suoi scritti per la rivista inglese Daily News, recentemente raccolti, constano di otto volumi) e di ogni aspetto possibile del reale, dalla poesia (dodici raccolte pubblicate) alla saggistica religiosa (in mezzo alla quale spiccano le biografie di San Francesco e San Tommaso e le due raccolte apologetiche più famose, Eretici ed Ortodossia), dai romanzi (otto pubblicati, di cui uno postumo) fino ai racconti (le saghe di Padre Brown e Gabriel Gale) passando per la critica letteraria (ha scritto di Charles Dickens, Robert Louis Stevenson, Geoffrey Chaucer e molti altri).
Si potrebbe anche muovere da un’altra prospettiva, qualitativa anziché quantitativa, e analizzare l’influsso che Chesterton ha esercitato su tutti i binari culturali sui quali si è mosso il Novecento. A titolo di esempio: il giallo metafisico, pietra angolare della letteratura americana post-moderna da Thomas Pynchon scendendo fino a Paul Auster, deriva – oltreché dal già citato Padre Brown – da Gabriel Syme, l’investigatore protagonista del romanzo L’uomo che fu giovedì, e in particolare da una concezione del giallo chestertoniana esplicitamente declamata nel saggio “La mia fede” (“The Thing”): “Tutta la scienza, anche la scienza divina, è una sublime storia gialla. Solo che non è impostata per rilevare perché un uomo sia morto, ma il segreto più oscuro del perché egli viva”.
Potremmo, infine, discutere della sua attività di instancabile apologeta del cristianesimo prima e del cattolicesimo (dal 1926) poi, o del titolo di defensor fidei del quale venne insignito da Papa Pio XI, col rischio però di non capire come possa un marxista lacaniano come Slavoj Zizek stimarlo a tal punto da citare a più riprese un libro programmaticamente intitolato Ortodossia.
Muoversi dentro la mente di Gilbert Keith Chesterton è un’impresa da bogatyr. Quello che possiamo fare è enucleare ed analizzare alcuni dei principali temi che ricorrono nel suo vastissimo corpus per invogliare chi non lo conoscesse a scoprire questo magnifico conservatore, con un avvertimento del presidente della Società chestertoniana americana Dale Ahlquist: “Quanto più leggi Chesterton, tanto più ti sottoponi allo spaventoso pericolo di vedere le cose per la prima volta”.
Il principe del paradosso
Karl Marx, nel 1844, in polemica con Feuerbach scriveva che la religione è l’oppio dei popoli; Umberto Eco, nel 2007, lo emenderà scrivendo, in polemica con Saramago, che la religione è la cocaina del popolo, perché sovraeccita i sensi anziché narcotizzarli. Chesterton, nel 1935, già sintetizzava queste due posizioni antitetiche in una crasi originale. Analizzando Brave New World di Aldous Huxley, scrive sul G.K.’s Weekly (la sua rivista, fondata nel 1925): “Marx chiamerebbe la fede l’oppio dei popoli, e io la chiamerei piuttosto il vino dei popoli. (…) In questo caso è interessante mettere a paragone il logico con il letterato, che da sempre è più logico del logico. Quando il signor Aldous Huxley creò la sua orribile Utopia materialistica fu particolarmente attento ad evitare questa contraddizione. Il punto di Brave New World di Huxley non è che la religione è l’oppio dei popoli. Il punto è che l’oppio è la religione dei popoli.”
Queste parole, oltre a darci un interessante spunto per rileggere Ubik di Philip K. Dick, racchiudono le caratteristiche salienti di tutta la produzione chestertoniana, tanto a livello tematico (la religione e il suo ruolo all’interno della società) quanto a livello stilistico (l’utilizzo del paradosso). Due aspetti che non possono essere scissi, poiché l’uno innerva l’altro: il paradosso è utilizzato per ribaltare il punto di vista del lettore e costringerlo a “disanchilosare” – termine proveniente, e non a caso, dal lessico di Borges, grande ammiratore di Chesterton – le proprie convinzioni:
“La croce è il conflitto di due linee nemiche, di due direzioni inconciliabili. Questa cosa muta che si innalza è un contrasto, una rottura violenta, una lotta nella pietra. Ne abbiamo abbastanza di questo simbolo. La stessa sua forma è una contraddizione”. “Quello che tu dici è assolutamente vero” disse con serietà Michele. “Ma noi amiamo le contraddizioni. L’uomo stesso è una contraddizione: è un animale la cui superiorità sugli altri sta nel fatto che è caduto. Tu dici che questa croce è un eterno contrasto: anche io lo sono. E’ una lotta nella pietra; ma ogni forma di vita è una lotta nella carne.”
Questa poetica è espressa nella maniera più compiuta nel romanzo La sfera e la croce(1909), che verte sul duello dialettico tra un ateo (James Turnbull) e un cristiano (Evan Mac Jan), duello ostacolato dalla magistratura e dalla polizia, entrambe al soldo dell’antagonista del libro, il professor Lucifero (allegoria parodistica di un positivista che disprezza la religione ed i religiosi), che alla fine riuscirà a rinchiudere i due protagonisti in un manicomio. Viste le premesse ci si potrebbe aspettare che, Dostoevskij docet, un autore religioso parteggi o comunque mostri più simpatia per il personaggio cristiano del libro, il quale dovrebbe essere un suo alter-ego: e invece, sorprendentemente, Chesterton parteggia per entrambi.
La verità è che io sono James Turnbull, l’ateo. I poliziotti sono alle mie calcagna non perché io sia ateo, ma perché mi voglio battere per il mio ateismo. (…) Evan Mac Jan afferma che esiste un Dio, ed io affermo che non esiste. E mi devo e mi voglio battere precisamente perché non esiste.
In buona parte della letteratura novecentesca, la dissoluzione dell’identità personale è una tematica strettamente connessa allo smarrimento dell’identità religiosa. Il protagonista del romanzo Lo Straniero (1942) di Albert Camus, Meursault, vive con particolare intensità la perdita della propria identità, fino al punto di compiere un omicidio in maniera quasi involontaria, come uno starnuto, per reazione al caldo. Al cappellano che si reca a visitarlo poco prima della condanna a morte e che gli chiede perché le sue visite non gli interessino, Meursault confessa: “Ho risposto che non credevo in Dio. Ha voluto sapere se fossi proprio sicuro e gli ho detto che non avevo bisogno di chiedermelo: mi sembrava una questione senza importanza.”
Secondo il punto di vista che qui si assume, Dio è il centro di gravità permanente sul quale l’uomo può fare affidamento come grimaldello per disinnescare le gnosi che di volta in volta la contemporaneità erige a vitelli d’oro, secondo il celebre paradigma biblico.
“La regola d’oro è che non esistono regole d’oro” scrive George Bernard Shaw, amico di vita e nemico di penna di Chesterton; ma nella prospettiva dello scrittore inglese, l’assenza di una regola d’oro genera un vitello d’oro, che l’uomo finirà per adorare in sua vece e che nulla garantisce possa essere migliore del precedente. Un aforisma per lungo tempo attribuito a Chesterton e in realtà spurio racchiude molto bene il concetto: “Non è vero che chi non crede in Dio non crede in niente perché comincia a credere a tutto”.
Chesterton può essere non a torto definito un decostruttivista cattolico, un cristiano post-moderno, perché il suo essere religioso non ha nulla di fideistico né apodittico. Il suo interrogarsi sulla religione cristiana è sempre teso a un recupero, o piuttosto a un disvelamento, dell’intrinseca razionalità del cristianesimo nel suo complesso: un approccio che, a ben vedere, anticipa le questioni recentemente poste da René Girard sul ruolo antropologico del cristianesimo nelle comunità umane. Che succede se l’approdo ultimo delle teoriche decostruttivistiche, da Derrida in avanti, fosse la scoperta che occorre ricostruire?
La poetica dello stupore
La morte di Dio, insomma, non è la scomparsa dell’idea di divino, ineradicabile dall’essere umano, ma il suo rovesciamento: Chesterton è molto attivo in un periodo culturale in cui il ruolo della religione cristiana come ubi consistam del mondo occidentale viene messo in discussione da innumerevoli direzioni.
Saranno soprattutto James Joyce, Henrik Ibsen e George Bernard Shaw (con il quale il nostro si accapiglierà spesso e volentieri sulle pagine del Daily News, come si può leggere in Eretici), sulla scorta dell’insegnamento di Friedrich Nietzsche, a sferrare al cristianesimo gli attacchi più virulenti e distruttivi. Proprio attraverso l’intermediazione di James Joyce possiamo analizzare un altro concetto fondamentale in Chesterton, quello dello stupore, equivalente al concetto di “claritas” di San Tommaso D’Aquino. In questo passaggio, tratto dal Ritratto dell’artista da giovane, il protagonista Stephen Dedalus (modello dell’Übermensch in un’interpretazione molto fedele a quella originale di Nietzsche) illustra a un amico la concezione tomistica della bellezza, a partire da un cesto rovesciato:
Quando hai percepito quel cesto come una cosa una e poi l’hai analizzato secondo la sua forma e percepito come una cosa, tu fai la sola sintesi che sia logicamente ed esteticamente ammissibile. Tu vedi che quel cesto è la cosa che è e nessun’altra. Lo splendore di cui parla Tommaso è la quidditas scolastica, l’essenza di una cosa. (…) L’istante in cui quella suprema qualità della bellezza, il limpido splendore dell’immagine estetica, viene luminosamente percepita dalla mente che l’interezza e l’armonia dell’immagine hanno arrestato e affascinato, quell’istante è la stasi luminosa e muta del piacere estetico.
Dio è l’unico Essere che non si stanca mai dell’iterazione; l’unico modo che l’uomo ha per sbrinarsi dall’anedonia che lo attanaglia è un esercizio costante della meraviglia, un’epifania insieme etica ed estetica che possa renderlo conscio della predisposizione ontologica per la bellezza insita nelle cose. E se si è realisti, scrive lo studioso neotomista Étienne Gilson, grande ammiratore di Chesterton, “le cose ci parlano, ci dicono cosa sono”.
Sebbene James Joyce non sia mai stato menzionato da Chesterton (ma Chesterton da James Joyce sì: in una lettera gli viene augurato un calcio nel sedere!), Stephen Dedalus è senza dubbio l’esponente più autorevole del superomismo nietzschiano. Dedalus, cresciuto in un istituto gesuitico, è l’Oltreuomo che si svincola dal giogo delle autorità e delle istanze precostituite, siano queste politiche (il nazionalismo) o religiose (la Chiesa cattolica), per farsi generatore di sempre nuove interpretazioni del reale allo scopo di aderire alla sua mutevolezza, rifiutato ormai ogni baricentro di autorità credibile. Chesterton vede l’Oltreuomo come una minaccia perché ritiene che la sua hybris lo porti a credersi sopra alle cose e quindi a non meravigliarsene più: che se ne fa un superuomo di un fiore? Se ogni cosa è meravigliosa, allora ogni cosa può anche essere poetata.
Crusoe è un uomo su un piccolo scoglio, con le poche comodità strappate al mare: le pagine migliori del libro sono quelle che descrivono la lista degli oggetti salvati dal naufragio. La poesia più bella è un inventario. Ogni utensile da cucina è idealizzato perché Crusoe avrebbe potuto gettarlo in mare. È un buon esercizio, nelle ore vuote o nei momenti difficili della giornata, osservare qualsiasi cosa, il secchio del carbone o la cassa dei libri, e considerare quanto si possa essere contenti di averli portati dalla nave che affondava fino all’isola deserta. Tuttavia, un esercizio migliore di questo è ricordare come tutte quelle cose si sono salvate per un soffio dall’essere inghiottite mentre la nave affondava. Ogni uomo ha rischiato l’orribile eventualità di una nascita prematura, seguendo così la sorte dei tanti bambini non nati. Quando ero ragazzo sentivo spesso parlare di geni mancati o boicottati, ed era consuetudine dire di tanti che erano un Avrebbe Potuto Essere Un Grande. Secondo me, è un fatto molto più concreto e sorprendente che l’uomo comune, come se ne incontrano tanti, sia un Grande Avrebbe Potuto Non Essere.
La poetica di Crusoe rovescia il paradigma leopardiano della lontananza, secondo il quale è poetabile solo quel che è indeterminato e privo di contorni.
Tra Dostoevskij e Tommaso
Il concetto tomistico di claritas costituisce il fulcro di Uomovivo (1912), l’opera letterariamente più felice di Chesterton. Protagonista del romanzo è Innocent Smith, una figura cristologica che discende direttamente dal Principe Myskin di Dostoevskij (e infatti è soprannominato “idiota” dagli altri personaggi); come anche Myskin, Innocent è osservatore disassato e per ciò stesso sano di una società i cui valori non sono compatibili con quelli di cui egli, nella sua purezza allegorica, è foriere.
Innocent, alter-ego dello stesso Chesterton, irrompe in Casa Beacon come una ventata di irragionevole felicità per mostrare ai suoi abitanti, ingrigiti e sclerotizzati dalla quotidianità in cui sono immersi, che Schopenhauer mente quando sostiene che la felicità si può definire solo in negativo come assenza di dolore; è piuttosto vero l’assunto contrario: l’infelicità è assenza di gioia che è necessario recuperare. La dimensione della felicità è quella di latente possibilità optometrica: per poterne godere, l’uomo non potrà che correggere sue lenti, risignificando le cose.
Uno dei passaggi più vibranti di tutto il libro ruota attorno al flashback in cui si narra l’incontro tra Innocent, ancora studente, ed Eames, un docente universitario allievo di Schopenhauer che predica ai suoi studenti la miseria della vita: Innocent irrompe improvvisamente nello studio armato di una pistola e costringe il professore, sotto minaccia, a sedere a cavalcioni su un gargoyle posto fuori dalla finestra della stanza. Quello che Innocent vuole fare è costringere l’uomo a prendere coscienza dell’infondatezza del suo pessimismo; Innocent usa la pistola non per uccidere il professore, bensì per riportarlo alla vita. Abiurare le sue teorie mortifere condurrà il professor Eames a riscoprire la meraviglia dell’esistenza, e l’unico modo per guarire un uomo la cui testa è malata è quello di far leva sulle gambe, lasciandole a penzolare nel vuoto.
Oh, ma non capisce, non capisce?”, gridò il pallido giovane disperato. “Io dovevo farlo, Eames, dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire. Quando si è giovani, quasi sempre ci si mette nelle mani di qualcuno, pensando che questi possa essere il depositario di tutte le verità conosciute dall’uomo… qualcuno che conosca ogni cosa, ammesso che si possa sapere. Be’, lei per me è sempre stato questo e mi parlò con autorità, non come gli scribi. Nessuno avrebbe potuto confortarmi se lei avesse detto che non c’era conforto. Se lei realmente pensasse che ovunque non c’è altro che il nulla, è perché lei l’ha già verificato. Non capisce quindi che io dovevo provarle che non diceva sul serio… o altrimenti avrei dovuto affogarmi nel canale?
La pistola viene qui risignificata, e ricordare la morte serve all’uomo per non dimenticarsi della vita: il memento mori dello scheletro al banchetto si ribalta in un memento vivere. “Terrò costantemente una pistola puntata alla tempia dell’uomo moderno, ma non la userò per ucciderlo… solamente per riportarlo alla vita”.
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