È il 1933, l’America di F. D. Roosevelt ascolta attenta i primi echi del New Deal. È l’estate dei cinema drive-in, e anche uno dei giorni più caldi che la città di New York si ricordi. L’uomo se ne sta fermo in attesa, i lineamenti contriti e un’espressione di cupa fermezza dipinta sul viso, in fila alla dogana del New York Harbor. Ha affrontato un lungo viaggio sulla Rms Aquitania – la «Nave bella», il principe dei traghetti di lusso che durante la Grande guerra era diventato un ospedale sull’oceano – in compagnia di una sola valigia, su cui ora i funzionari del Postal Service stanno ponendo dei timbri senza attardarsi in faticosi controlli. Fa veramente troppo caldo, d’altronde.
L’uomo è un contrabbandiere, e la sua ansia deriva da una precisa e controintuitiva necessità: farsi scoprire. Nel bagaglio non ha armi né droga, ma libri. Anzi, un solo libro: ha attraversato l’Atlantico con una copia di un manoscritto proibito che già da anni negli Stati Uniti finisce al rogo: Ulisse, il romanzo di un cinquantunenne scrittore irlandese che vive a Trieste, James Joyce.
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L’opera che oggi tutti associamo al più alto ingegno e alle più solide conquiste della letteratura modernista risale al 1915, l’anno in cui Joyce, poco più che trentenne, decise di mettersi a scrivere delle vicende di Leopold Bloom. L’autore era disoccupato, viveva in condizioni di povertà con una moglie e due figli a due passi dal fronte di guerra, e per di più soffriva di un problema agli occhi probabilmente causato dalla sifilide contratta in giovinezza. Ci mise sette anni, a terminarla. Il 2 febbraio del 1922, il giorno del quarantesimo compleanno di Joyce, Sylvia Beach, la mitica musa parigina della libreria Shakespeare and Company, si accorse della portata del lavoro e pubblicò una prima versione del libro in Francia.
Non fu l’unica ad accogliere Ulisse in maniera positiva: ne scrissero meraviglie Ezra Pound («Joyce ha preso nelle sue mani l’arte dello scrivere lì dove Flaubert l’aveva lasciata»), Ford Madox Ford sulla English Review ed Edmund Wilson («il sig. Joyce riesce a rendere l’effetto di una mente umana non censurata»). Ma proprio con la censura il libro di 730 pagine dovette presto fare i conti: il suo linguaggio esplicito e pregno di riferimenti sessuali lo fece entrare nel mirino delle autorità inglesi e americane. Nel paese di Sua Maestà il pubblico ministero Sir Archibald Bodkin minacciò di intraprendere azioni legali contro l’intera Università di Cambridge quando un professore ne ordinò una copia alla libreria dell’ateneo. E appena il diplomatico Harold Nicholson manifestò l’intenzione di nominare l’autore irlandese in un programma radiofonico, il direttore della Bbc inizialmente gli chiese di sostituire il suo nome con quello del collega John Galsworthy. Anche Virginia Woolf, per conto suo, definì Ulisse «il libro di un lavoratore incolto autodidatta» e si rifiutò di stamparlo con la sua Hogarth Press.
Negli Stati Uniti l’opera era stata originariamente importata da The Little Review, magazine letterario gestito da Margaret Anderson e Jane Heap, che ne pubblicò a puntate la prima parte finché alla fine del 1920 un episodio, quello di Circe, causò l’intervento delle autorità, in parte già allertate per presunti legami della testata con l’ambiente anarchico. Una corte decretò illegale il possesso di copie del libro e quando il protagonista della scena di cui all’inizio di questo articolo approdò sulla costa americana, nel 1933, la New York Society for the Suppression of Vice le confiscava e distruggeva direttamente al porto della Grande Mela.
Ulisse tuttavia godeva già di una fama considerevole, in parte per reazione fisiologica alla censura, in parte per i volumi di Sylvia Beach contrabbandati, in parte ancora perché stampato clandestinamente (l’editore newyorkese Samuel Roth lo pubblicò per intero, pur pieno di errori, nel 1929, senza chiedere alcun permesso all’autore). E a fomentare l’interesse oltreoceano furono allo stesso modo le feroci critiche attirate dal volume: un professore di Harvard, Irving Babbit, scrisse che per aver prodotto Ulisse Joyce doveva trovarsi in «uno stato avanzato di disintegrazione psichica».
Un uomo, però, ovvero colui che aveva mandato quella persona al porto di New York nell’afosa giornata del 1933, un giorno decise di affrontare il problema. Si chiamava Bennett Cerf.
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Nato nel 1898 nell’Upper West Side di Manhattan, Bennett Cerf era figlio di immigrati francesi e tedeschi. Il nonno materno era un importante uomo d’affari, ma i genitori appartenevano alla classe media. Dopo la morte della madre, un fondo fiduciario intestatogli dal ramo benestante della famiglia lo rese ricco. Lasciatosi alle spalle brevi e poco sentite parentesi nel mondo del giornalismo e del brokeraggio, Cerf usò parte della sua fortuna per rilanciare la casa editrice Boni & Liveright. Al compimento del suo 27° anno rilevò, insieme all’amico dei tempi del college Donald Klopfer, il prestigioso marchio Modern Library. E due anni dopo, quando la coppia era già rientrata dell’investimento iniziale, disse a se stesso che era tempo di «pubblicare qualche libro in aggiunta a caso», at random. Così nasceva Random House, il più grande editore del mondo.
Ben presto, con l’incalzare della Depressione, Cerf si rese conto di dover riorientare il suo business verso l’editoria di consumo. Fu molto bravo a farlo costruendo forti relazioni personali con gli autori, scommettendo su di loro e cogliendo il meglio che il mercato offriva. In questo senso si sprecano gli aneddoti, raccontati dallo stesso fondatore di Random House nella sua biografia uscita nel 1977, At Random. Cerf portò dalla sua parte Truman Capote, William Faulkner e John O’Hara, scommise 50 dollari con Dr. Seuss che non sarebbe stato in grado di scrivere un libro usando solo 50 parole (il risultato fu Prosciutto e uova verdi, uno dei capisaldi delle letture per bambini di ogni tempo), pregò anche Ayn Rand di accorciare una parte de La rivolta di Atlante (la risposta dell’autrice, effettivamente molto da Ayn Rand: «Taglieresti la Bibbia?»).
Con Ulisse compì il suo capolavoro professionale. Dopo aver colto l’amareggiamento dell’avvocato newyorkese Morris Ernst nei confronti del divieto di pubblicazione del libro, Cerf lo contattò. L’offerta era semplice: se Ernst fosse riuscito a vincere una causa in tribunale per far pubblicare l’opera di Joyce, ne avrebbe incassato parte dei diritti. Restava da convincere l’irlandese: l’editore gli scrisse presso la Shakespeare and Co., e ottenuta risposta prese il primo battello per Parigi. Lì trovò un Joyce coperto di bende e con un braccio al collo poiché, spiegò Sylvia Beach, era stato così impaziente di incontrare Cerf da aver attraversato la strada senza guardare. In ogni caso lo scrittore, oltre che sbadato, era come detto molto povero. Accettò i 1500 dollari di anticipo a lui offerti, e di buon grado.
Naturalmente Cerf e Ulisse non potevano affrontare qualunque processo. Ne serviva uno che potessero vincere. Cerf ed Ernst si assicurarono di portare il libro al cospetto di John Woolsey, un giudice con precedenti di sentenze a favore della libertà d’espressione e delle arti. Aspettarono che tornasse dalle vacanze in cui si trovava all’inizio del 1933, calcolarono in quale porto far intercettare il libro perché fosse lui a doversi occupare della causa. E poi escogitarono l’ultimo colpo di genio: siccome non era possibile accorpare i pezzi di critica favorevoli all’opera al materiale processuale, la neonata Random House decise di stamparne una versione che includesse i commenti di Ezra Poud, Ford Madox Ford e gli altri. Era quel libro che l’uomo al porto di New York doveva assolutamente farsi confiscare.
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«Esigo che ispezioniate questa valigia», disse l’uomo, impassibile. Il funzionario, che voleva soltanto essere in un posto più fresco di quella guardiola incandescente, rispose che faceva troppo caldo per mettersi a perquisire ogni bagaglio. Ma l’uomo insisté: «Credo che contenga qualche oggetto di contrabbando». Riluttante, il perquisitore trovò la copia di Ulisse, ma il suo collega disse semplicemente «Perdio, lo portano tutti. Non ci facciamo caso». Beh, dovevano farci caso. L’insolito viaggiatore pretese di parlare con un superiore ugualmente accaldato e ugualmente recalcitrante. Alla fine, con un sospiro di sollievo interiore, riuscì a farlo sequestrare.
L’udienza di United States vs. One Book Named Ulysses – questo il nome della causa – iniziò l’autunno successivo. Dopo tre giorni, il giudice Woolsey consegnò il suo verdetto, un memorabile mélange di giurisprudenza, critica letteraria e diritti civili. «Ulisse non è un libro semplice da leggere e comprendere», concesse al governo degli Stati Uniti, ma «ogni sua parola concorre come il tassello di un mosaico a creare l’immagine che Joyce cerca di presentare ai suoi lettori». Consigliato da amici esperti di letteratura, il magistrato appurò oltre ogni ragionevole dubbio che l’opera non conteneva nulla di osceno, e quindi poteva essere stampata e venduta sul suolo americano. Bennett Cerf aveva vinto, e con lui James Joyce, che chiosò: «metà del mondo anglofono si arrende».
Come sostiene l’accademico Kevin Birmingham, autore di un recente libro riguardante questa vicenda, The Most Dangerous Book: The Battle for James Joyce’s Ulysses (The Penguin Press), si trattò soprattutto di una «lotta per la libertà del genio». Durante una delle prime presentazioni del libro al Greenwich Village, Jane Heap si trovò ad affrontare una folla di contestatori gridando loro «essere disgustosi è un crimine?».
La decisione di Woolsey segnò un precedente legislativo importante. L’anno dopo, nel 1934, un processo d’appello intentato dalle organizzazioni favorevoli alla censura si risolse in un nulla di fatto. E negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la stessa sorte censoria toccò a Tropico del Cancro di Henry Miller e all’Urlo di Allen Ginsberg, anche grazie a quel contrabbandiere senza nome qualcuno decise che essere «disgustosi» non è un crimine. Il procuratore distrettuale che si occupò di evidenziare le oscenità della copia sequestrata al porto di New York City, in seguito donata alla Columbia University Library, se la prese particolarmente con l’episodio “Itaca”, in cui Leopold Bloom e Stephen Dedalus tornano a casa del primo per un tè. È tuttora zeppo di note e sottolineature.
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