Quella notte ero all’inferno (Etty Hillesum, Castelvecchi, 2018)
Dalla prima lettera A due sorelle dell’Aia Amsterdam, fine dicembre 1942 tratta da Quella notte ero all’inferno di Etty Hillesum, traduzione di Stefano Musilli, Castelvecchi editore.
© Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione
«I primi giorni me ne andai in giro per quel posto come se stessi sfogliando un libro di storia. Incontrai persone che erano state a Buchenwald e Dachau quando quei nomi erano per noi solo suoni distanti e minacciosi. Incontrai persone che erano state a bordo di quella nave che aveva fatto il giro del mondo senza ottenere il permesso di attraccare in nessun porto; ve ne ricorderete di certo, allora i nostri giornali ne erano pieni. Ho visto molte fotografie di bambini che nel frattempo saranno già cresciuti non poco in qualche angolo sconosciuto di questa terra – c’è da chiedersi se sapranno ancora riconoscere i propri genitori, posto che un giorno li rivedranno. Insomma, si aveva la sensazione di trovarsi davanti un pezzetto tangibile del destino ebraico degli ultimi dieci anni. E qualcuno aveva creduto che la Drenthe fosse soltanto dolmen. Si restava quasi senza fiato. Nell’estate del 1942 – sembra davvero siano passati molti anni, in quei pochi mesi sono successe più cose di quante si possano elaborare in un periodo tanto breve – il piccolo insediamento fu sconvolto fin nelle radici: i vecchi abitanti del campo assisterono attoniti alla deportazione di massa degli ebrei dall’Olanda all’est europeo. Loro stessi, in un primo momento, dovettero dare il proprio apporto generoso in termini di uomini, quando le file della «manovalanza volontaria» necessitavano di qualche rinforzo. Una sera d’estate me ne stavo seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo di lupini gialli, che si estendeva dalla baracca della mensa fino a quella in cui ci si toglieva i pidocchi, e meditai ispirata: «Bisognerebbe scrivere le Cronache di Westerbork». Un anziano alla mia sinistra, anche lui col suo cavolo rosso, rispose: «Sì, ma ci vorrebbe un grande poeta». Ha ragione: ci vorrebbe un grande poeta, le storielle da giornale non bastano più. Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di detenzione. Tutta l’Europa finirà per accumulare esperienze amare dello stesso tipo. Si arriverà alla monotonia se continueremo a riferirci l’un l’altro la nuda realtà di famiglie dilaniate, proprietà saccheggiate e libertà perdute. Sul filo spinato e le patate schiacciate, del resto, non si possono dare molti ragguagli pittoreschi a chi è fuori – e mi chiedo se fuori rimarranno in molti, qualora la storia dovesse perseverare ancora a lungo sulle vie che ha imboccato. Vedete, io lo sapevo che non si sarebbe cavato niente da questa mia lettera su Westerbork: devo ancora entrare nel vivo e già mi areno in considerazioni generiche. Dopotutto quando si è d’indole più o meno riflessiva non si è adatti a tracciare un quadro di un determinato posto o avvenimento.
Difatti si giunge a scoprire che le materie prime dell’esistenza, per così dire, sono le stesse dappertutto, che ovunque su questa terra si può condurre una vita ricca di senso o altrimenti morire, che l’Orsa Maggiore brilla fidata su un villaggio remoto come su una grande città nel cuore del paese o, stando alle mie ardite supposizioni, su una miniera di carbone della Slesia. Che a quanto pare, dunque, non c’è nulla che non vada nell’universo…
Volevo soltanto dire questo: io non sono un poeta e, a parte ciò, non so da dove iniziare per tenere fede alla promessa fatta a K., perché sebbene Westerbork sia per noi un nome denso di significato che sentiremo riecheggiare per il resto delle nostre esistenze, non ho ancora un’idea precisa di cosa raccontarvi della vita che vi si svolge. È un vivere assai movimentato, benché forse molti diranno, al contrario, che è di una monotonia mortale. La mattina dopo aver sentito il vostro amico K. pronunciare i nomi di Siviglia e Málaga con tanto fanatico desiderio, tuttavia, l’ho incontrato sul sentierino lastricato di mattonelle fra le baracche 14 e 15. Indossava il suo caratteristico cappello di feltro nero, che sembra così fuori posto fra tutte quelle assi di legno e quelle porticine basse. Camminava spedito perché aveva fame, ma passandomi accanto ha trovato il tempo di raccomandarsi espressamente: «Allora, sta pensando a quanto le ho chiesto? Vedrà, fare la conoscenza di quelle due sorelle sarà anche un grande arricchimento per lei». Sicché mi trovo qui, a un’ora inaspettatamente tarda, alle prese con dei fogli bianchi…
Già. Westerbork. Se capisco bene, quello che oggi è un focolaio dei patimenti ebraici era fino ad appena quattro anni fa un luogo spoglio e selvaggio, e lo spirito del Dipartimento di Giustizia aleggiava sulla brughiera. «Non si vedeva una farfalla, né un fiorellino, e nemmeno un verme», mi assicurano accalorati i primissimi Kampinsassen. E adesso? Attingerò per voi a caso dal campionario. C’è un orfanotrofio, una sinagoga, una piccola camera mortuaria ed è in arrivo una manifattura di solette. Ho sentito dire che costruiranno un manicomio e mi risulta che il complesso delle baracche adibite a ospedale, in crescita continua, conti già mille posti letto. Pare che la prigione da due persone, un edificio da operetta posto in un angolo del campo, non offra più spazio a sufficienza: ci si prepara a farne una più grande. Forse vi giungerà un po’ strano alle orecchie – una prigione dentro una prigione. Ci sono crisi di governo in miniatura, con tutte le gomitate che paiono d’obbligo in circostanze simili. C’è un comandante olandese e ce n’è uno tedesco: il primo è al campo da più tempo, ma il secondo ha più voce in capitolo. Di lui, peraltro, si dice che ami la musica e che sia un gentiluomo. Non posso pronunciarmi in merito, anche se devo dire che per essere un gentiluomo ricopre un ufficio alquanto singolare… C’è un teatro in cui una volta, in un passato glorioso, quando il concetto di «deportazione» doveva ancora essere dato alla luce, fu portato in scena uno Shakespeare infermo. Oggi il palco è calcato da persone sedute alla macchina da scrivere. C’è fango, così tanto fango che occorre possedere una grande dose di sole dentro di sé, da qualche parte fra le costole, se non se ne vuole diventare una vittima psicologica. (Non c’è bisogno che sia io a parlarvi di scarpe rotte e piedi bagnati.) Pur essendoci un solo piano, si sente un gran numero di accenti, come se la torre di Babele fosse stata innalzata in mezzo a noi: bavarese e groninghese, sassone e limburghese, olandese dell’Aia e frisone orientale, tedesco con accento polacco oppure russo, olandese con accento tedesco e tedesco con accento olandese, gergo di Waterlooplein e berlinese – e vi faccio presente che si tratta di un’area di poco più di mezzo chilometro quadrato. Il filo spinato è una semplice questione di opinioni. «Noi dietro il filo spinato?», ha fatto una volta un anziano signore incrollabile, accompagnandosi con un malinconico cenno della mano. «Sono loro a vivere dietro il filo spinato!», e intanto indicava le alte ville che si ergono come sentinelle dall’altra parte della recinzione. Se il filo spinato si limitasse a circondare il campo, se non altro si saprebbe dove ci si trova, ma quei nervi novecenteschi si snodano anche all’interno del campo stesso, intorno alle baracche e fra di esse, a formare una rete labirintica e impenetrabile. Di quando in quando s’incontrano persone col volto o le mani graffiate. Ai quattro angoli del nostro villaggio di legno svettano torrette di guardia: piattaforme battute dal vento che poggiano su quattro pali alti. Su di esse la figura di un uomo con elmetto e fucile si staglia contro i cieli mutevoli. Alla sera può capitare di sentire il rumore di uno sparo sopra la brughiera, come quando quel signore cieco si smarrì troppo vicino al filo spinato…
È anche solo per questo motivo, per via del suo carattere così ambiguo, che è tanto difficile raccontare qualcosa di Westerbork. Da una parte vi si sta formando una comunità stabile – certo, si tratta di una convivenza forzata, ma presenta tutte le caratteristiche proprie di una società d’individui; dall’altra è un campo destinato a un popolo in transito e ci sono sempre forti sommovimenti quando vi si riversano le masse che provengono dalle grandi città e dalla provincia, dalle case di riposo, dalle prigioni e dai campi di punizione, da ogni angolo dei Paesi Bassi, per poi vedersi nuovamente deportate, pochi giorni dopo, alla volta di una destinazione sconosciuta.
Immaginerete la ressa in quel mezzo chilometro quadrato. Non tutti, del resto, sono come quell’uomo che ha preparato la bisaccia ed è partito di propria iniziativa, e interrogato sul perché, ha risposto di voler essere libero di andarsene quando piaceva a lui. Mi aveva fatto pensare a quel giudice romano che disse rivolto a un martire: «Sai che io ho il potere di ucciderti?», al che l’altro rispose: «Ma tu sai che io ho il potere di morire ucciso?». Nel complesso, ad ogni modo, c’è una gran calca a Westerbork, più o meno come sull’ultimo pezzo di legno galleggiante a cui si appigliano troppi naufraghi dopo che la nave è affondata. Eppure la gente preferisce passare l’inverno dietro il filo spinato nella provincia più povera d’Olanda che essere trascinata nel profondo dell’Europa, verso territori e mete sconosciute, circa le quali a chi è rimasto indietro sono trapelate finora solo voci molto scarne e confuse. Il numero, però, dev’essere quello stabilito; bisogna riempire il treno, che con regolarità quasi matematica arriva a prendersi il suo carico, e non tutti possono essere trattenuti con la scusa che sono indispensabili al campo o che stanno troppo male per essere trasportati, anche se il tentativo si fa per molti. Ogni tanto viene da pensare che sarebbe più semplice «salire in carrozza» una volta per tutte, anziché dover assistere di nuovo alle paure e alla disperazione di migliaia e migliaia di persone, uomini, donne, bambini, infermi, matti, lattanti, malati e anziani, che sfilano in una processione quasi ininterrotta dando il fianco alle nostre mani protese. La mia penna non dispone di quegli accenti grandiosi che servirebbero a rendere un’idea seppur vaga di queste deportazioni. Alla lunga, viste dall’esterno, esse parevano farsi di una monotonia sconsolata, eppure ciascuna era diversa dall’altra e possedeva, per così dire, una propria atmosfera».
Quella notte ero all’inferno | Etty Hillesum | Castelvecchi | 2018 | pp. 64 | euro 9,5
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