Scrivo perché ho continuato a scrivere. Può sembrare una tautologia (forse è una tautologia), ma questa è la sintesi più onesta che posso offrire del mio cammino fin qui. C’è chi si vede scrittrice o scrittore già nelle sue fantasie infantili: per me non è andata così. Non ho mai desiderato scrivere o diventare una persona che scrive, non ho ospitato storie nella mia testa in attesa del coraggio o dell’occasione per riversarle sulla pagina e mai ho sentito l’urgenza di imitare gli altri romanzieri, piccoli e grandi, del presente e del passato, oppure di divergere da loro per dire qualcosa di mio. Non mi sembrava di aver nulla di interessante da dire e se un qualcosa, tenuamente, di tanto in tanto, mi si presentava come intenzione, non pensavo di possedere gli strumenti – lessicali, compositivi, immaginativi – per poterlo dire attraverso una narrazione. Scrivevo testi altri, per altri – sono copywriter da un decennio – e questo era tutto. Mi rendo conto che è poco, ma era tutto.
Cinque anni fa è successo un fatto: trascurabile, se visto dagli interni turriti e ben protetti della Repubblica delle Lettere. Sfogliando una di quelle free press che ti trovi a leggiucchiare al bar mentre fai colazione, mi sono imbattuta in un minuscolo concorso di racconti. Il tema era sfizioso e mi sono detta perché no. Ho partecipato, me ne sono dimenticata, ho vinto. Il fatto è accaduto alla cerimonia di premiazione e, da solo (anche qui, mi rendo conto che non è molto), ha determinato la mia decisione di insistere.
Tra il cominciare e il continuare a scrivere esiste, sembra a me, lo stesso rapporto che lega o separa innamoramento e relazione affettiva. Non so più dove ho letto che una storia d’amore, per potersi dire tale e non più “commedia romantica”, deve superare i tre anni. Oltrepassare ciò che divide lo stato di idealità dallo stato di (non sempre soddisfacente o esaltante) realtà. Ora, non voglio esprimere giudizi sulla plausibilità del numero – tre anni, cinque, sette, o forse sono mesi – ma sull’effettivo iato fra le due condizioni. Innamorarsi non è difficile: è una pulsione, un movimento dell’anima attraverso il corpo non programmabile e indecidibile. Trasformare tutto ciò in una solida vita a due è più complesso: significa aver a che fare con orari, soldi, pasti, mutui, faccende domestiche, con i figli, se e quando arrivano, e con la bava di dentifricio lasciata a strisciare il lavandino. La pulsione ingovernabile deve essere governata in una forma che realizzi un compromesso fra desiderio e disciplina del desiderio.
Credo che nello scrivere non funzioni in maniera diversa e, per progredire dal desiderio alla disciplina del desiderio, occorre una motivazione forte. Nel caso mio qualcosa, a quel famoso concorsino, deve essere successo, qualcosa a cui sono rimasta impigliata. Potrebbe trattarsi di vanità?
Questa la scena: il presidente della giuria legge un sintetico commento al mio racconto e, mentre lo ascolto, penso che quanto sta dicendo è molto bello e suggestivo e senza dubbio plausibile ossia concettualmente attinente al mio testo. Però non c’entra nulla con quanto ho scritto. Davvero nulla. Del mio racconto (assai modesto, va detto) non rispecchia le intenzioni, i rimandi, gli appoggi, quello non è il mio testo. E allora dov’è finito il mio testo? Lì, nelle parole che sto ascoltando: è rinato come corpo nuovo nella mente di chi, leggendolo, lo ha attraversato. Scrivendo ho prodotto qualcosa di esterno da me ed è stata questa consapevolezza, questa piccola vertigine di creazione, a rappresentare il mio momento seminale.
Vanità, dunque? A me sembra esattamente l’opposto. Perché se la vanità è propensione verso tutto ciò che è fatuo, dunque transeunte e per questo proprio dell’uomo, qui abbiamo una tensione verso ciò che per l’uomo è costitutivamente impossibile: il creare.
Continuando a scrivere racconti, poi romanzi, ho avuto tempo e modo per riflettere su quel che stavo facendo. Avevo cominciato con questa faccenda del narrare un po’ per caso, un po’ per noia e un po’ per gioco, e però né il caso, né la noia, né il gioco avrebbero potuto sorreggermi nella lunga distanza. Avevo bisogno di quella famosa motivazione forte e che questa fosse dotata di un carattere un po’ meno soggettivo: non perché scrivo, dunque, ma perché si scrive.
Nell’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori di Giulio Mozzi leggo questa massima: «Domandati se la tua storia è utile alla vita. Se non sai risponderti, rinuncia». Ecco, penso che il mio indagare la scrittura come pratica dotata di senso sia partito proprio da un bisogno di utilità. Perché dovrei investire il mio tempo per fare qualcosa di inutile? O, girando i termini, perché non dovrei investirlo per fare qualcosa di utile? Sull’inutilità dell’arte – inutilità cercata e inutilità stigmatizzata – sono state prodotte tonnellate di parole e non intendo certo addentrarmi nella questione. Ma anche quando si richiedeva all’arte di farsi inutile («L’arte è una cosa privata e l’artista la fa per se stesso», scrisse Tristan Tzara nel Manifesto Dada), si trattava realmente di rendere possibile una nuova utilità, tramite un esautoramento o un girare a vuoto dell’arte stessa. L’aspetto etico dello scrivere mi preme molto e questo non significa produrre testi impegnati, o impregnati di una morale. Significa che il testo deve possedere un qualche valore per la vita, di chi lo produce e della comunità di lettori che lo recepirà. Non trovo alcuna soddisfazione nella scrittura come semplice estroflessione del sé. Non ho mai provato voglia per la scrittura privata e, sebbene riconosca validità alla scrittura come sfogo o arte(auto)terapia, in questi termini non mi ha mai interessato. La scrittura esiste se esiste qualcuno disposto a leggerla: qualcuno che, pur non tracciando la via (l’opera aperta è di fatto una non-opera), fa comunque sì che la tracciatura abbia scopo.
Ho identificato questa utilità per me nelle storie e nella lingua. Narrando si mette in circolazione una certa quantità di storie e queste storie sono necessarie alla vita in quanto pacchetti di significati. I significati sorreggono e accompagnano l’uomo lungo la sua esistenza, e perché questo continui a succedere le storie devono essere costantemente aggiornate. Ai tempi di Chrétien de Troyes il romanzo cortese fornì un pacchetto di significati a uso e consumo di cavalieri e uomini di corte – allora la classe sociale al potere. Secoli dopo, gli strati culturali di origine cittadina s’impadronirono di quel pacchetto ma sentirono il bisogno di attualizzare l’immaginario e la forma in cui s’incarnava: e così la nobiltà per nascita si trasformò in nobiltà per carattere, altrettanto elitaria, ma per élite diverse.
Quanto alla lingua, temo che il discorso, a svolgerlo bene, si farebbe lunghissimo. C’è una frase, però, di Elio Pagliarani in un’intervista, che riassume un po’ tutto:
«La poesia serve a fare manutenzione della lingua».
Sono convinta che anche la prosa abbia questa specifica utilità e che la lingua, nella vita, sia qualcosa che sempre ci precede e ci segue: noi ci scopriamo attraverso la lingua – che dunque ci anticipa –, e usiamo le parole per dare legittimità al nostro agire – usando una lingua che a noi dunque consegue.
Riassumendo, si scrive per mettere in circolazione pacchetti di significati sotto forma di storie facendo al contempo manutenzione della lingua e in questo vedo uno specifico narrativo. Nel cinema, per osare un confronto, ci sono storie senza lavoro sulla lingua, mentre nel saggio filosofico ci sono significati in assenza di storie.
Quando in letteratura si parla di “necessità per la vita”, è facile veder comparire lo spettro del capolavoro. È uno spettro terribile: sentirsi caricati, in quanto autori o in quanto persone che semplicemente ci provano, dell’obbligo di produrre l’opera capace di durare, di attraversare la pellicola del tempo per finire in mano ai posteri, è soverchiante. Non so quanti riescano a scrivere con questo fardello addosso. Io non riuscirei. Non riuscirei, cioè, a scrivere sapendo che lo scopo di ciò che sto facendo può sussistere solo in proiezione futura e che tutto ciò che è contingente, in quanto contingente, non ha alcun valore. Preferisco invece pensare che, laddove l’atto di narrare permette la trasmissione di storie e una manutenzione della lingua anche di modestissima entità, quell’atto ha avuto un senso, dunque è bene che si sia prodotto. Anche se il libro finirà dimenticato dopo cinque mesi o cinque anni, in quei cinque mesi, in quei cinque anni, un certo qualcosa sarà avvenuto nella relazione fra opera e lettore, contribuendo alla fertilizzazione di un humus. È vero, siamo in molti nani sulle spalle di pochi giganti, ma si riflette mai sulla quantità di nani che occorre a un gigante per poter nascere e poi dirsi tale? Chi è che realmente sostiene, e chi è sostenuto?
Spirito ecumenico a parte, lo scrivere deve anche dare un piacere privato. Non credo si possa scrivere in assenza di piacere, e ancor più in assenza di felicità, o almeno di un tentativo di felicità. E qui entra in gioco la scintilla di creazione: veder nascere qualcosa di estraneo da me mi dà felicità. La creazione, come ho detto, è illusoria: all’uomo, essere finito, non è dato di creare, solo di ricombinare in modi diversi la materia esistente. Ma l’impressione di poterlo fare, l’impressione di poter essere come Dio o come un’entità trascendente o come qualcosa che anche solo temporaneamente va al di là dell’uomo, è appunto vertiginosa. Quando assaggi questa vertigine, continui. Io, assaggiata la vertigine, ho continuato.
Assaggiare la vertigine di creazione però non basta. A un certo punto (e questo succede dopo aver scritto due, tre, quattro testi) devi imparare a convivere con ciò che non puoi fare e che pure hai l’illusione di poter fare. Quanti personaggi, quante relazioni fra personaggi, quanti accadimenti riusciamo a immaginare narrando? In potenza una quantità infinita, all’immaginazione nulla è precluso. E invece sì, qualcosa le è precluso: tutto ciò che non appartiene, in qualche forma, alla nostra esperienza. Non possiamo inventare attingendo pezzi (inventare è un frequentativo di invenire, che significa trovare) da un reale che ci è completamente sconosciuto. Ci sono personaggi che ci riescono male. Relazioni che non si annodano. Accadimenti che, sulla pagina, sembrano quasi non lasciarsi accadere. Continuiamo a scrivere, nel farlo la nostra tecnica si irrobustisce, la lingua si affina, la nostra ambizione di mettere in scena qualunque cosa galoppa, eppure ci rendiamo conto di fallire perché, per quanto ci sforziamo, riusciamo a essere credibili solo dietro certe maschere. Le altre risaltano sulla pagina nel loro essere personalità d’accatto, finzioni così poco finte – giacché scontano le debolezze di una immaginazione imperfetta – da non riuscire a sembrare vere. Se la scrittura è specchio rivelatore, la sua veridicità (e terribilità) sta proprio in questo, nel suo farci vedere riflessi non in ciò che immaginiamo, ma in ciò che non riusciamo a immaginare. Ci definiamo per sottrazione e per esclusione, nell’incapacità di trovare nella nostra mente, nella nostra vita, nel nostro essere, la materia per poter comporre davvero ogni sorta di storia.
“Madame Bovary, c’est moi”. Chi è questa Emma, questa Madame Bovary che Flaubert dichiara essere specchio di sé? Forse la somma di tutte le Emma che Flaubert autore non ha potuto rappresentare, la sagoma positiva resa possibile dal gigantesco spazio negativo che le si è coagulato intorno. La figura emerge perché esiste lo sfondo, ma mentre la figura può essere controllata – io, autore, ho pieno controllo di ciò che immagino –, lo sfondo sfugge a ogni tentativo di controllo perché non possiamo immaginarlo. È lo sprofondo, la vertigine di creazione combinata alla ancor più grande vertigine dell’impossibilità di creazione.
Nel suo Trattato di funambolismo – uno dei migliori manuali involontari di scrittura che io abbia mai letto – Philippe Petit scrive:
Decifrate il vostro simbolo di perfezione. Per me è il lancio del bilanciere. Con un gesto che pare non finire mai, il funambolo getta lontano attraverso il cielo la pertica di metallo, in modo che essa non cada sul cavo, e si ritrova unico e sconcertato, più ricco e più nudo su un cavo a sua misura. Allora, con umiltà, si riconosce invincibile.
Il vuoto: tutte le storie che non potremo scrivere, i personaggi che non potremo creare, la lingua che non riuscirà a precedere né a seguire ciò che non siamo. Ma anche le persone, le cose, il tempo che non potremo avere o che non sapremo trattenere, e che proprio per questo dà peso e sostanza e senso a ciò che siamo, che possediamo e che tratteniamo – la consapevolezza e la meraviglia della nostra finitudine. Sospesi sul cavo fatto a nostra misura, forgiato da quel minimo che abbiamo potuto immaginare, ci ritroviamo unici e sconcertati, più ricchi e più nudi, contro un vuoto-cielo che espone la fine della nostra capacità di invenzione. E pure continuiamo a scrivere. Lanciamo la pertica, facciamo il nostro gesto di perfezione. Il nostro gesto di coraggio di fronte al vuoto e alla bellezza di ciò che non siamo.
Si continua a scrivere per questo, credo: per potersi riconoscere, con umiltà, invincibili.
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