Rebecca libri

Segugio delle parole

di Ernesto Ferrero

Appassionato giocatore di scacchi, Cesare Garboli (1928-2004) prediligeva la «mossa del cavallo» e forse possiamo assumere quello scarto imprevedibile come una delle sue cifre araldiche. Sorprendeva, scompariva e riappariva là dove non te lo aspettavi. Passava da Dante a Tobino, da Sandro Penna a Leopardi, da Natalia Ginzburg a Matilde Manzoni, da Delfini a Chateaubriand, da Pascoli a Molière. In quella scrittura di seduttore c’era in primo luogo il modo di raccontarsi indirettamente per improvvisi lampi autobiografici, di gettarsi a cercare qualcosa che lo aiutasse a capire il presente e i suoi orrori. Quando lo trovava, poteva uscirne sconvolto, come accadde in quel 1978 in cui l’Italia era stata rivelata a se stessa dal delitto Moro, tanto da decidersi a lasciare Roma, capitale infetta da un male incurabile, per ritirarsi nella Versilia natia. Scopriva con deliziato raccapriccio che quel paese «euforicamente e canoramente insanguinato», invaso e sopraffatto da ladri e assassini, stava già tutto nel Tartufo di Molière, impostore principe, «politico del profondo», «dal sorriso accomodante e dai denti di lupo», puntualmente riscontrabile nei tanti Tartufi politici e intellettuali che lui incontrava ogni giorno. Le patologie che scovava nella grande letteratura eccitavano la sua capacità di riderne, come accade appunto con Molière, di cui lo affascinava, ha scritto Ferdinando Taviani presentando i suoi scritti teatrali, il misto di pessimismo e vitalità curiosa, misantropia e capacità di innamorarsi, gelosia ossessiva e acuto senso del ridicolo, umore atrabiliare e ossessione della vita di società.

Faceva parte, Garboli, di quella razza tutta italiana di saggisti-narratori-affabulatori di suprema eleganza, capaci di trasformare il loro sapere in una fascinazione incantatoria, che chiede al lettore di abbandonarsi per intero: Longhi, Debenedetti, Macchia… Non a caso l’allievo prediletto di Natalino Sapegno, di cui colpiva anche la bellezza quasi sfrontata, da attore del cinema francese, l’eleganza un po’ casual e come stropicciata, aveva voluto sottrarsi alle caselle prestabilite delle carriere accademiche, delle specializzazioni, di metodologie che gli riuscivano troppo rigide e autoritarie. Lo aveva dichiarato lui stesso nell’avvertenza del suo primo libro, pubblicato a quarant’anni, La stanza separata (Mondadori, 1969): più dei libri lo avevano sempre interessato le persone, più della letteratura tutto quello che la letteratura nasconde o rivela. Voleva togliere ai libri la loro maschera, «la loro empia e sacerdotale veste di attori». Presentando gli Scritti servili (Einaudi, 1989) scriveva che la vita spesa per il teatro da Molière, il destino di autodistruzione di Delfini, il genio istrionico di Longhi, la perversione saturnina di Penna, la concordanza di pensiero e viscere della Ginzburg, le metamorfosi di Elsa Morante non erano per lui un semplice argomento di studio, ma storie vere, eventi, seduzioni. Lui era quello che va a «prendere le parole lanciate nello spazio dallo scrittore e le riporta a casa, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». Se la letteratura è un velo dipinto, dissimulazione onesta che può cogliere brandelli di verità rivelatrici, a lui interessava arrivare al regista (al falsario?) che gestisce lo spettacolo, impossessarsi di lui per intero, per metà Mefistofele e per metà dottor Faust.

Come raccontare un personaggio come Garboli? Rosetta Loy, che gli è stata accanto molti anni, ha diviso con lui momenti in cui le meraviglie della vita surclassano la letteratura e li sa raccontare benissimo, con intensità malinconica e struggente: la grande, ombrosa, semidiruta casa familiare di Vado di Camaiore, «ancora calda di vita trapassata, ma non defunta»; gli spazi metafisici dell’Engadina affacciata sullo strapiombo del mondo, Sils Maria, i laghi a specchio del cielo e gli inverni scartavetrati dal gelo; certi ristoranti di Viareggio, i viaggi in Francia sulle orme di Chateaubriand, i soggiorni parigini nell’appartamento di rue Mazarine che era stato del sarto di Louis Jouvet. Istantanee di un tempo felice, ma ancora non bastavano. Così Rosetta ha preferito raccogliere, montare e postillare le pagine in cui il mercuriale Cesare, nelle fluviali introduzioni ai volumi che curava o in cui raccoglieva i suoi scritti (non amava le monografie) ridà vita, en artiste, a ricordi anche lontani, incontri, emozioni, scoperte, sorprese, indignazioni civili, che tutte sembravano venirgli incontro casualmente, con signorile sprezzatura. Divagazioni apparenti che gli servivano per meglio fagocitare l’autore già finito nella sua tela. Attore di talento ben temperato, si calava tutto intero nei personaggi che interpretava, con vorace voluttà. Diventava il Longhi ventenne che in una lettera di sfrontata seduttività spiega a Berenson chi è Berenson; o il Chateaubriand che nel 1813, chiamato da Napoleone all’Académie, scrive un provocatorio discorso di accettazione in cui ricorda che la libertà è il più grande dei beni e il primo bisogno dell’uomo, quindi non compatibile con un governo monarchico, perché nelle catene la letteratura langue e muore (Napoleone si infuria ma lui si rifiuta di modificarlo). Anche Garboli, come Chateaubriand, «se viaggia può essere uno snob, ma non un dandy». Anche lui «non è uno che guarda e contempla il mondo, è uno che studia e s’impiccia di governarlo». Non lo ha fatto direttamente, ma per interposta pagina o interposto autore. Se tutto è teatro, lui avrebbe voluto recitare anche la parte dei suoi editori, sicuro di risultare più creativo di loro, anche se si chiamavano Giulio Einaudi, Livio Garzanti o Roberto Calasso. Aveva qualcosa di Richelieu, della sua sottigliezza manovriera. Inclassificabile, restava pur sempre un (potente) cardinale della chiesa letteraria, che per lui non aveva segreti.

Un giovane scrittore lo aveva messo in un imbarazzo solo apparente: gli aveva chiesto quasi a bruciapelo se si sentiva un critico o uno scrittore. Più un lettore che un critico, aveva risposto: «Mi piace smontare i testi, rivoltarli, rigirarmeli tra le mani, sentire il loro polso che ancora batte, il loro fiato di organismi ancora vivi e carnali, ma solo per vedere come si articolano, come respirano, e se sono prodotti originali o d’imitazione».

Se si è occupato solo o prevalentemente degli scrittori che ha frequentato da vicino, spiegava, è stato per individuare «le tracce lasciate dopo il passaggio da un’infezione misteriosa, da un male inspiegabile che ha trovato nella creatività letteraria la sola possibilità di cura e di guarigione». Se «la letteratura nasce dal bisogno di liberarsi dalle passioni, se nasce dall’angoscia, dall’ossessione, dall’incubo, dalla frustrazione, dal rimorso, in quale modo esercitare più utilmente una vocazione diagnostica, se non nella patologia di chi ci è più vicino?».

Anche se gli è scappato di definirsi «un narratore di frodo», non si sentiva nemmeno uno scrittore o un romanziere. Ammetteva sì di possedere un’immaginazione «ricchissima e dilagante», ma funzionava solo se si conservava improduttiva; e poi per il romanzo non possedeva la sicumera o la supponenza di chi porta avanti un progetto come se i destini del mondo dipendessero da quello.

L’irrequieto, impaziente Garboli era pazientissimo con gli amici scrittori di cui aveva deciso di prendersi cura. «Ha inoltre» gli riconoscerà la Ginzburg «lo strano dono di animare e stimolare, nel prossimo, pensieri e desiderio di scrivere. Dirò che, forse, basta vederlo entrare in una stanza per proporsi di scrivere». Un effetto maieutico che continua a valere anche per i suoi lettori.

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