Da tempo ormai i libri sono diventati pura merce. La filiera editoriale, dalla scelta di un’opera alla distribuzione e alla quasi immediata resa e macerazione della stessa, ha logiche perverse. Ma rimpiangere gli editori illuminati del bel tempo che fu non serve a niente. Quella che poteva essere una “comunità di scrittori”, una “repubblica delle lettere” o comelasivogliachiamare resta sommersa e lacerata, erosa inesorabilmente dalle dinamiche della società liquida e dei nuovi rapporti impostati sui social. I ruoli si sono scontornati e confusi: editore o stampatore? editor o co-autore? scrittore o agente? critico o lettore? maestro autorevole o animatore di corsi di scrittura? E così via. Chi non ha santi in paradiso, ma è consapevole del proprio talento, se decide di perseguire una sorta di “carriera” deve tessere pazientemente una tela infinita, giocare su più tavoli, accettare compromesse e calcolare sapienti autocensure. Molti, ovviamente, rinunciano o, sfiancati, se ne stanno ai margini, proteggono la propria passione e la propria autenticità ritirandosi dal circuito.
La figura dell’autore è andata assottigliandosi sempre di più. Ci sono stati anni per esempio di polemiche intorno agli editor, che revisionavano profondamente un’opera, specie nel caso di autori esordienti dal successo, poi, clamoroso. Pare che alcuni titoli, diventati “virali” diremmo oggi (ricordate La solitudine dei numeri primi?), siano stati decisi in casa editrice. (Per inciso: qui occorrerebbe una valutazione filologica precisa per ogni caso, per capire il problema; che un autore riceva suggerimenti – non imposizioni, però – è più che lecito: auspicabile). Così il nome dell’editor è cominciato ad emergere, se non accanto a quello dell’autore, nelle note di ringraziamento o nel frontespizio o in altre posizioni strategiche, fino a comparire nelle note biografiche dell’editor stesso quando questi pubblicava un proprio libro: Pinco Pallino ha pubblicato questi titoli, ha tradotto questi altri testi, è stato l’editor di questi autori. L’autore rischiava di diventare un personaggio, la creazione di un Editor. Oggi, uno scrittore accetta sempre più spesso il ruolo di ghost writer, mettendosi nell’ombra di influencer o vip di varia estrazione, i quali magari non avevano nemmeno pensato di scrivere un libro, ma hanno accettato la proposta avanzata direttamente da un agente, per conto di un editore alla ricerca di merce fresca.
Le microrealtà editoriali, che eroicamente resistono nella difesa di un percorso di qualità, non hanno peso nel sistema. Eppure, anche nei bei tempi che furono un grande poeta (e persino qualche narratore di culto) vendeva, che ne so, cinquecento copie, o mille, o magari anche solo centocinquanta o trenta, ma nella comunità di scrittori quel libro veniva recepito e valorizzato e, in tal modo, poteva nei casi migliori continuare e aumentare le vendite negli anni. Anche oggi un piccolo editore può pubblicare un onesto poeta e vendere trecento, cinquecento copie e ottenere un successo, nella sua nicchia specializzata. Ma sono numeri insignificanti rispetto al grande mostro che continua a fagocitare ed espellere.
Spesso, si impone surrettiziamente una proporzione inversa impietosa: più un libro vende e meno sarà considerato rilevante, nella cerchia in via di estinzione degli esperti. Nel mondo della poesia le eccezioni rispetto a tale indicatore sono ancora più rare. L’instapoet Rupi Kaur ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Ebbene, fate girare la notizia fra i poeti e l’unico commento sarà: “Rupi chi?”. Si replichi l’esperimento con gli autori nostrani, a scanso di equivoci. Vi sfido a trovare un poeta che ricordi un verso del più venduto fra i suoi colleghi, Francesco Sole. Ma si sa, i Poeti con la P maiuscola formano una cricca retrograda, snob, autoreferenziale: sono dinosauri innocui in via di estinzione, che il grande mostro dell’editoria non digerisce.
Molti autori si sono rifugiati nel fai-da-te. E il fai-da-te letterario, nel frattempo, ha generato una galassia estremamente composita. Se la grande massa della vanity press è stata inglobata, in pratica, dall’editoria maggiore, sensibile al business, sempre più spesso assistiamo al caso di autori ben collocati editorialmente che scelgono, per ragioni specifiche anche differenti, ma compiendo un gesto comunque provocatorio e sintomatico, di autopubblicarsi. Forse un giorno, dopo queste meteore più o meno luminose, in mezzo a miriadi di ingenui o disillusi, di grandi idealisti o di eroici autori senza peccato, comparirà nella galassia delle autopubblicazioni il pianeta gigante di un Capolavoro destinato alla Classicità.
Quanto detto finora non significa che tutti i protagonisti della scena letteraria attuale siano sopravvalutati o corrotti. Ci mancherebbe. Ci sono fior fiori di scrittori consapevoli delle disfunzioni del sistema e ciascuno trova la propria strategia di sopravvivenza e persino di lotta. Qualcuno si cala a capriccio sulla fiera delle vanità come un marziano, come un classico vivente (Busi all’Isola dei famosi – ma io non ho seguito nessuna sua comparsa sul grande schermo, quindi eventualmente correggete l’esempio). Qualcuno pensa di riproporre il modello dell’intellettuale dissidente accettando ogni invito davanti alle telecamere su qualsivoglia argomento, convinto o convinta di non lasciarsi fagocitare dalle regole del gioco. Qualcun altro, tra università e casa editrice, vive onestamente la propria dimensione, più o meno appagato e combattivo. Insomma, la sfida al mondo editoriale, che va continuamente aggiornata e rilanciata, ha già una lunga storia. Tra i tanti che oggi si spendono instancabilmente senza lasciarsi inquadrare, con indubitabile passione, come non ricordare Giulio Mozzi?
Fatto sta che si legge tanta roba carina. Si affoga, nella carineria diffusa. Sono centinaia gli scrittori che sostengono con buoni libri la fame pantagruelica del mostro. Si scrive, per lo più, accettando le logiche del sistema. E tutti si credono titani, solo perché osservano la loro ombra allungarsi verso le montagne dei classici. In verità, si tratta di un’illusione ottica: il confronto con i classici è rimosso o ridotto in termini postmoderni, e il giganteggiare delle ombre segnala soltanto il tramonto di una civiltà. Il buio azzererà ogni vanagloria. Naturalmente, andranno annotate tutte le eccezioni del caso, da proporre alla verifica del tempo. I primi tre nomi che annoterei io? Mari, Tuena, Zaccuri.
Ma alle dichiarazioni ideali e alle constatazioni apocalittiche devono seguire assalti concreti. Più che una serie di gesti clamorosi, che finiscono per generare molto rumore per nulla, serve una consapevolezza diffusa e una capacità di organizzarsi in un quadro strategico comune. Ognuno lavorerà secondo la propria indole e i propri ambiti di competenza. Non importa il raggio d’azione, ma la sintonia generale. Occorre capire anche la logica del mercato, studiare il punto in cui la domanda si può intercettare e guidare in direzioni più proficue. Voglio dire, se una studentessa crede di essere una buona lettrice e afferma che il suo autore preferito è Gio Evan, indignarsi non serve a nulla. Gio Evan deve diventare un punto di partenza, un abbecedario. Oppure, se i poeti che riescono a vendere sono anzitutto instagrammers, perché gli editori non si muovono con un piano definito in quegli ambiti, frequentati dai potenziali nuovi lettori?
Nessuno idealizza il passato o pretende che uno scrittore vinca facile. La letteratura è selettiva per sua natura, è volta all’eccellenza, non è animata da alcun buonismo. Non si cercano riserve per la sopravvivenza della specie. Semplicemente, occorre scegliere da che parte stare, rispetto al grande bivio: la letteratura è un valore, e quindi potrà ancora generare valore persino commerciale, oppure la grande letteratura è solo un mito del passato?
Il fatto è che questo dilemma e l’impegno conseguente non riguarda gli autori, ma gli editori. Gli scrittori non hanno scelta: tutti darebbero una risposta d’amore, più o meno consapevole, ma sempre in buona fede. Se uno si spende per la parola, che abbia per modello Gibran o Shakespeare, non ha dubbi sul valore della letteratura. L’impressione è che, invece, chi si occupa della produzione e della diffusione delle opere abbia ormai l’unico obiettivo del profitto economico, non si assume la responsabilità di una simile scelta (che ha conseguenze culturali e sociali più profonde e a lungo termine, rispetto alla mera difesa di una marca fantomatica, la “grande letteratura”) e si giustifica con alibi elementari (“Questi sono i tempi, non dipende da me e non ci posso fare nulla”).
Non è più l’epoca per fondare una rivista e chiamare all’appello i giovani più gagliardi, che sappiano riallacciare i fili di una tradizione spezzata mettendo in circolo le proprie diversità, arricchendosi reciprocamente del punto di vista altrui, riconoscendo nell’altro il valore non della sigla editoriale ma dell’opera, discutendo in piena libertà e stima su ogni discrepanza pur di fomentare la ricerca dell’eccellenza. Ma che si decida di ideare nicchie editoriali di culto, di costruire community con i nuovi social o di uscire dal mercato alla ricerca di circuiti alternativi, per invertire alcuni processi in atto ci si dovrà inevitabilmente spendere per questi obiettivi: allungare la vita delle opere, ridare peso al pensiero critico, piegare gli strumenti e le opportunità del nostro tempo a proprio favore.
Dipingere il sistema editoriale come un simulacro del male, mosso da una volontà malvagia, è un pensiero ingenuo. Certo, ci sono investitori più o meno lungimiranti, capitali che devono sostenersi con ritmi trimestrali, ma la sfida è proprio dimostrare al mercato che sta investendo male, in modo non più sostenibile, e che trarrebbe profitti duraturi scommettendo su ciò che ora rinnega. Altrimenti, si scinda definitivamente il valore commerciale da quello letterario e si trovi un altro posto, oltre al proprio buen retiro, per ritrovarsi in compagnia dei grandi classici e dei compagni di viaggio.
Io, per me, ho comunque predisposto le valigie da tempo e sono pronto alla grande migrazione.
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