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Siamo più leopardiani che manzoniani

di Carlo Bo
Fonte: «Letture» N. 546 -aprile 1998

Il quotidiano e solitario esame di coscienza ci porta a dire che la nostra condizione è leopardiana.

«Dante for President» intitolava provocatoriamente un settimanale per dire che l’Italia dovrebbe riconoscersi soltanto nell’autore della Divina Commedia. Ma, avvicinandosi il bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi (29 giugno 1798)1, si potrebbe trasformare la frase in «Leopardi for President».

E questo, che avrebbe stupito e impressionato i suoi contemporanei, oggi sembra quasi un luogo comune, nel senso che quando si vuole indicare un punto fermo e vitale della cultura del nostro Paese sono molti quelli che pensano a Leopardi e ne protestano la forza del pensiero e l’altezza della poesia.
Naturalmente si tratta sempre di approssimazioni regolate dal mutare dei tempi, delle mode e soprattutto da quella parte segreta di noi stessi di cui difficilmente riusciamo a mettere in luce la ragione. Proprio su questo punto respira la nostra coscienza leopardiana, in modo da distinguere bene e da separare la letteratura dalla retorica, la verità dal similoro. Direi che a questa conclusione si è arrivati attraverso una lunga serie di approcci, di rivisitazioni e di frequentazioni, se non proprio quotidiane, almeno intense e appassionate. È in quei momenti che la parola del Leopardi riusciva a colpirci di più e a diventare tramite fra la nostra coscienza confusa e inquieta e le risposte essenziali e definitive del pensatore e del poeta. Se noi confrontiamo qualsiasi testo del passato prossimo o del passato tout court con lo Zibaldone o con i Canti ci accorgiamo subito da che parte arrivi il suono della verità.
Naturalmente anche qui potremmo passare a confronti più alti, a speculazioni di ordine assoluto; potremmo mettere al posto del Leopardi il Manzoni e sarebbe una scelta legittima, anche se promossa da una aspirazione religiosa. Tuttavia le nostre abitudini, il nostro quotidiano e solitario esame di coscienza ci portano a dire che la nostra condizione è leopardiana. E anche quando non manifestiamo tanta certezza in un’unica strada, nella parte più segreta del nostro cuore sentiamo e siamo convinti che soltanto il Leopardi ci porta o ci può portare a vedere la verità in faccia e quindi a dare un senso alle nostre passioni, e più in generale ad approfondire l’idea stessa della vita e l’assoluta infelicità della nostra presenza sulla terra.
Ma forse la cosa più interessante ancora è osservare che questo consenso unanime, questa rete fitta di convergenze non è soltanto un patrimonio italiano, ma a partire dal nostro secolo è un patrimonio universale, più semplicemente umano. Sul cielo di Recanati convengono luci e voci da tutte le parti del mondo, e quello che in partenza era un meraviglioso esempio di scandaglio interiore, con il moltiplicarsi delle invocazioni si trasforma nell’idea stessa di poesia, in esercizio della filosofia, insomma in un giudizio universale. Ma questo trionfo non inseguito mondanamente sta per essere verificato dall’evento del 1998; epperò ci auguriamo che dagli incontri, diciamo pure dalle feste, salti fuori una visione del Leopardi non soltanto attuale, ma di valenza maggiore, sì da incardinare la sua opera nel grande libro sognato e non attuato da Mallarmé.
In sostanza stiamo per vivere un avvenimento che per fortuna sfugge alle regole severe e spietate delle convenienze occasionali. Soltanto rileggendo, tornando alla miniera Leopardi, l’uomo moderno potrà trovare in sé stesso una ragione di più per non fare della vita una giostra di dissipazioni e di vanificazioni. L’ideale città leopardiana sembra fatta apposta per raccogliere e ospitare le infinite masse umane che vagano fra la violenza e l’ignoranza, fra il disordine e la disperazione.
Non sono nostre fantasie, ma sono invece risultati e constatazioni di quello che è avvenuto e avverrà nel susseguirsi delle nostre civiltà. Tutto quanto sembra appartenere ed essere destinato a una pronuncia di condanna; in realtà grazie a Leopardi si trasforma radicalmente in un faro di piccole verità insuperabili, e quello che fino adesso abbiamo chiamato il suo pessimismo si muta in un atto di coscienza, desolato e salutare insieme, e in tal modo torniamo all’idea del suo e del nostro io: un Leopardi da scoprire, che potrebbe essere uno dei temi più importanti del nostro immediato ritorno a Recanati.

Articolo già apparso, con altro titolo, su «Letture» N. 546 -aprile 1998. Per gentile
concessione delle edizioni San Paolo.


1 L’articolo è stato pubblicato nel 1998.

Fonte: «Letture» N. 546 -aprile 1998
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