Può capitare di leggere le 587 pagine scritte in caratteri lillipuziani de Il giuoco delle perle di vetro a diciannove anni, dopo non aver amato né il didascalico Narciso e Boccadoro né l’ecumenico Siddharta, infinitamente più accattivanti nel loro offrirsi a una lettura tutto sommato facile, quali che poi siano le profondità che molti ci vedono fra una riga e l’altra.
Ci si arriva magari portandoselo in valigia a un campo di studio organizzato dai gesuiti, fra le montagne dell’Alto Adige a Selva di Val Gardena. Corso di maturità teologica si chiamava, ragazze e ragazzi usciti dalla maturità e immersi in quel momento unico nella vita in cui ogni cosa sembra possibile, squadernata davanti a noi, vertigine di libertà da attraversare.
Non lo si sa in anticipo, ovviamente, e niente di quel che si è letto nelle critiche piene di riferimenti storici e letterari lo fa prevedere, ma capita di trovare nel libro proprio (anche) questo momento unico. Josef Knecht, futuro Maestro del gioco, a ventiquattro anni lascia l’alunnato di Waldzell e comincia gli anni dello studio libero, «i più sereni e felici della sua vita. Sempre infatti è meraviglioso e commuove il desiderio vagante di scoperta e di conquista da parte di un giovane che, libero per la prima volta dalla costrizione scolastica, va incontro agli sterminati orizzonti dello spirito, non ha ancora perduto le illusioni, non dubita né della propria facoltà di dedizione infinita né dell’immensità del mondo spirituale» (111).
Intanto, fuori dalle pagine, in un contesto di montagne incantate ben più vive dell’immobile Castalia di Hesse, s’incontra quel formidabile miscuglio di libertà, quasi anarchia, e obbedienza che è il mondo dei gesuiti.
Niente mai è obbligatorio, ma tutto in qualche modo si ricompone alla fine della giornata. I letti rifatti, le passeggiate godute, gli incontri biblici, filosofici, politici, teologici intensi e frequentati, i tornei organizzati, la preghiera ben costruita. Eppure tutta la libertà possibile viene assecondata. I ribelli restano ribelli, anzi, spesso, lo diventano di più e figli di notai che le volture le hanno succhiate con il latte materno, nati con un futuro disegnato, tornano in pianura e s’iscrivono a matematica come avevano sempre desiderato, e le figlie di commercialisti o di imprenditori con studi e aziende già belle confezionate diventano matricole di filosofia o si prendono l’anno sabbatico nel Sertão.
E portati da un movimento sorprendente si passa dalle pagine alla realtà, da un mondo all’altro, ugualmente suddiviso in province, popolato di maestri, trapuntato di dialoghi spirituali.
Qua e anche là i maestri sono singolari. A Selva c’è un inafferrabile padre Filippo Clerici, il suo sapere spirituale lo regala nelle escursioni, quando insegna che per salire servono un appiglio e un appoggio e bisogna saperlo e sapere quanto e come sono necessari in montagna e nella vita. C’è padre Silvano Fausti in perenne odore di eresia, da lui stesso coltivata come identità necessaria, e questo non preoccupa nessuno, né lui né i padri della sua comunità. A volte eravamo noi ragazzi i più spaventati della libertà che in nome del Vangelo ci veniva improvvisamente restituita tutta intera. Siate liberi davvero. Ma davvero davvero. E a dirlo ogni volta è il padre Giangiacomo Rotelli, con la sua Chiesa come «patria degli uomini liberi».
Dove sta la libertà? si chiede Josef nel corso dello splendido dialogo con il Magister musicae. Nella scelta della libera professione che i «non castalii» possono fare? Un’illusione di libertà, dice il Magister. Perché il medico, il giurista, il tecnico «diventa schiavo di potenze inferiori, viene a dipendere dal successo, dal denaro, dalla sua ambizione, dalla sua sete di gloria, dal compiacimento che trova o non trova presso gli altri» (73). Le parole delle pagine si confondono con i giorni che si vivono.
Certo, qualcosa sarebbe capitato, qualcosa di preciso, che, anche senza volere, avrebbe segnato un confine alle infinite possibilità che ci stavano davanti. Ma doveva essere qualcosa di nostro.
Poi si legge quell’incredibile pagina sull’esser visti e riconosciuti in cui il Magister musicae ripesca Josef dalla sua crisi. Di che cosa ha bisogno una persona se non di essere vista e riconosciuta? La pagina in cui il Magister vede il giovane Josef Knecht è un desiderio realizzato in parola. È la vocazione. Vocazione vuol dire che un altro ci vede, ci riconosce, ci dice vieni con me perché posso aiutarti a essere te. Molti di noi l’hanno incontrata lassù, visti uno per uno.
Poi il campo è finito e tutti si sono dispersi. Ma la percezione che un Divino, immeritato, non conquistato attraverso qualchesia pratica o sacrificio o adesione a un dogma o a una Chiesa, è in noi, in virtù sua e non nostra, questa percezione è diventata compagna dei giorni.
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