Genesi e significato di alcune famiglie semantiche
Una nuova rubrica che nasce in seno al magazine Lingua Italiana e si sviluppa per anomalie potrebbe dare luogo a una vera e propria controversia. È doveroso, pertanto, provare a definire subito il concetto di anomalia, così da evitare il rischio di fraintendimento. In che cosa consiste l’irregolarità? Le parole, qui, d’ora in avanti, saranno trattate non già come semplici voci d’un dizionario e, per ciò stesso, dotate d’un qualche significato, bensì come manifestazioni della vita dei popoli, funzioni dei bisogni essenziali e delle condizioni esistenziali dei parlanti. Purtroppo, è invalsa l’abitudine di denunciare la decadenza dei costumi linguistici. In realtà, la lingua non “decade” mai; piuttosto, è soggetta a mutamenti. A tal proposito, la lettura di un frammento dei Miserabili di Hugo può agevolare molto la comprensione sia del metodo che ci accingiamo ad elaborare sia dei contenuti che intendiamo proporre:
Ci si figuri un naturalista che si rifiutasse di studiare la vipera, il pipistrello, lo scorpione, la scolopendra, la tarantola, e che li ricacciasse nelle loro tenebre dicendo: “Oh, come è brutto!”. Il pensatore a cui ripugnasse l’Argot rassomiglierebbe al chirurgo a cui ripugnasse un’ulcera o un porro (1862, p. 645)
Forti dell’icastico contributo narrativo e col vivo desiderio di entrare in materia fin dalle prime righe di questo testo introduttivo, promettiamo al lettore che, quando ci occuperemo, per esempio, del sostantivo medico, lo faremo illustrando un processo fatto di riti, formule magiche, codici, comportamenti, equivoci e, da ultimo, testimonianze letterarie. Siccome una promessa, nella classificazione di John Searle (1969), è un atto linguistico commissivo con cui il locutore s’impegna a realizzare qualcosa nel futuro, adesso, non si può fare altro che dare prova dell’impegno.
Nel De agri cultura, Catone il Censore, facendosi interprete di un rituale di magia “simpatica”, si premurava d’informare i propri lettori che il rimedio, in caso di lussazione di un arto, consisteva nel soffiare su delle canne spezzate recitando l’oscura e inesplicabile formula «haut haut istasis tarsis ardannabon». In pratica, si trattava di una sorta di principio della similarità. Si era convinti che, mettendo in scena, per così dire, dei desideri che si sperava fossero esauditi, il corso degli eventi potesse essere alterato a proprio favore. Certamente, nella Roma dell’epoca, il medico non godeva di particolare stima, poiché il suo operato era subordinato alla volontà degli dei e, soprattutto, alla loro instabilità: se decidevano di affliggere il popolo con un’epidemia, non c’era scampo. Bisogna considerare, tra le altre cose, che, in assenza di vere e proprie scuole di medicina e di una legislazione sulle professioni sanitarie, anche un calzolaio, al solo scopo di guadagnare di più, poteva dichiararsi medico e causare impunemente numerosi decessi tra i pazienti. Sulle prime, potremmo essere indotti a bollare l’attitudine degli antichi come espressione d’una credulità selvaggia e primitiva. Tuttavia, se fossimo così frettolosi e superficiali, smarriremmo in modo traumatico non solo la preziosità e la produttività del pensiero magico, ma anche il potere evocativo delle parole, ognuna delle quali racconta una storia e genera legami di appartenenza. Uno studio ricco, affascinante e limpido del fenomeno della similarità si trova nel Ramo d’oro (1890) di James George Frazer, il quale descrive una vera e propria pantomima delle mogli dei guerrieri di lingua tshi della Costa d’Oro: esse, il giorno in cui i mariti vanno in battaglia, raccolgono le papaie e le tagliano per simboleggiare la decapitazione del nemico (p. 48). Claude Lévi-Strauss, in merito, scrive:
Ma forse potremmo anche spingerci più in là e domandarci se il rigore e la precisione di cui danno prova il pensiero magico e le pratiche rituali non siano manifestazioni di un’apprensione inconscia della verità del determinismo, inteso come condizione di esistenza dei fenomeni scientifici (p. 24). Di fatto, se vogliamo restare fedeli a un’interpretazione fenomenologica della lingua, dobbiamo rammentare sempre che essa esiste prevalentemente nell’uso che ne fanno i parlanti e nel mondo che da essi viene descritto. Pertanto, il termine mĕdĭcus, derivando dal verbo latino mĕdēri, in origine, indicava semplicemente ‘colui che portava un rimedio’ (Cfr. Ernout, A., Meillet, A., 2001). La radice indoeuropea da cui s’è formata la voce in questione è *med-, che si rende con misurare, dare consigli, guarire (Pokorny, J., 2007). Se riesaminiamo in modo sistemico le informazioni etimologiche e lessicografiche appena elaborate e aggiungiamo che il sostantivo rĕmĕdĭum, da cui si ha rimedio, proviene, anch’esso, dal verbo mĕdēri e significa, sì, ‘guarire’, ma, in senso figurato, pure aiutare, allora ci rendiamo conto che l’azione linguistico-archetipica del guarire era basata sulla capacità di misurazione individuale del medico e sulla sua generosità nel dare consigli.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale sia il legame tra certi aneddoti socio-antropologici e i resoconti semantici di pertinenza. Sebbene l’interrogativa sia indiretta, riteniamo di dover dare una risposta immediata: i luoghi comuni, le menzogne, gli errori, grammaticali o concettuali, et similia fanno parte del linguaggio allo stesso modo in cui ne fanno parte le presunte dichiarazioni di verità o le proposizioni scientifiche esemplari. Siamo tutti consci del fatto che i social network, oggi, costituiscono degli eccellenti media di diffusione della notizia falsa, ovverosia d’un linguaggio che, nonostante l’originaria contraffazione, è talmente efficace da modificare il comportamento degli utenti. In Italia, per esempio, ci siamo pure imbattuti nella cosiddetta “cura Bonifacio”, un composto di urine e feci di capra che, a detta del proprio ideatore, il veterinario Liborio Bonifacio, avrebbe dovuto combattere il cancro. Le capre – sosteneva Bonifacio – non vengono colpite dal tumore. Di conseguenza, il principio adottato era quello della deduzione elementare e della verosimiglianza: siccome un certo rimedio non fa male o è usato da tanto tempo, allora vuol dire che fa bene o è addirittura miracoloso (D’Amico, G., 2019). Se ciò accade, allora è evidente che il criterio logico-formale o quello scolastico, per lo più utilizzato al fine di interpretare le parole e trarne significati, è per lo meno parziale. Pertanto, nel tentativo di offrire ai lettori un contributo di obiettività, ci proponiamo di costruire una rubrica in cui trame e curiosità della tradizione rivelino continuamente che le parole che usiamo e il discorso che deriva dalla loro combinazione sono istruiti dall’archetipo dell’aggregazione linguistica, ovverosia dalla filogenesi del modo di essere dei popoli dai quali traiamo le nostre origini. In particolare, il progetto in questione, annunciato nell’incipit, è composto dallo studio di dodici insiemi semantici, ciascuno dei quali contiene tre parole funzionali, cioè termini a partire dai quali, per estensione, si esaminano dei termini affini. Il criterio per la scelta delle parole è quello del processo di concettualizzazione dei parlanti: temi lessicali come cuore, diavolo, vergogna, sofferenza, sonno, scuola et similia sono veri e propri fondamenti della summenzionata aggregazione linguistica. Diversamente, l’esame di ogni parola funzionale e delle voci affini è fatto secondo il criterio della comune radice indoeuropea.
[testo di Francesco Mercadante, che cura lo Speciale e ne scrive i contenuti]
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