Un battesimo nel segno dell’identità ebraica
La fede di Irène Némirovsky
Il passaggio di Irène Némirovsky (foto) dalla fede ebraica a quella cattolica è stato oggetto delle più diverse interpretazioni: qualcuno si è spinto ad affermare che il suo battesimo sia stata dettato dall’opportunismo per sfuggire alla crudele persecuzione antiebraica. In realtà, come dimostra questo accurato studio di Elena Quaglia, fondato sulla narrativa della scrittrice francese come sulle sue carte d’archivio, la scelta fu il frutto di un lungo e delicato itinerario interiore di risposta alla Grazia.
La conversione di Irène Némirovsky nel 1939 è stata oggetto di ormai numerosi dibattiti. Il fatto stesso di chiamarla conversione implica l’idea di lasciare alle spalle una religione, quella ebraica, per un’altra, quella cattolica. Fu davvero così per Irène?
Il rapporto complesso della scrittrice con la propria identità ebraica emerge tra le righe dei suoi romanzi, popolati da personaggi che paiono incarnare, in alcuni casi, i peggiori stereotipi antisemiti. Si può leggere quindi, superficialmente, l’avvicinamento alla religione cattolica come l’ultimo atto di un tentativo di assimilazione, volto alla creazione di una nuova identità francese. Il battesimo sarebbe così l’esito estremo dell’odio di sé ebraico dell’autrice. Secondo una lettura storico-biografica più attenta, sicuramente il battesimo di Irène si lega al crescente pericolo per ebrei e stranieri in Francia e ai tentativi ripetuti e fallimentari di ottenere la cittadinanza.
Tuttavia, come sottolinea in un recente articolo il biografo dell’autrice, Olivier Philipponnat1, Irène doveva sapere che, secondo la teoria biologica della razza, la conversione non avrebbe certo cancellato l’identità ebraica: non è corretto ritenere l’avvicinamento alla religione cattolica quale frutto di mero opportunismo. Si può parlare piuttosto, come fanno sia Philipponnat sia un’altra grande studiosa dell’autrice come Susan Suleiman, di una ricerca, anche spirituale, di una sicurezza e di una stabilità che Irène non trovava nell’ebraismo e di cui aveva sempre più bisogno alle soglie dell’esplosione del secondo conflitto mondiale2.
Suleiman sottolinea in particolare il fatto che Némirovsky conoscesse poco dell’ebraismo religioso. In maniera più raffinata, ma forse un po’ contorta, Philipponnat, sempre nel suo articolo recente, sembra suggerire invece come l’avvicinamento al cristianesimo possa essere per Némirovsky, come fu per molti altri ebrei, un modo per ritornare all’ebraismo, in una forma più compiuta e risolta. Questo spiegherebbe il fatto che proprio al momento della conversione essa si interroghi come non aveva mai fatto prima sull’identità ebraica, nel suo romanzo I cani e i lupi, pubblicato nel 1940.
Si può forse più compiutamente ipotizzare il fatto che la «conversione» al cattolicesimo si intrecci con l’identità ebraica, in un rapporto che non è né legato all’ignoranza dell’ebraismo religioso, né alla volontà di abbandonarlo a favore del cristianesimo.
Si può parlare di una ricerca identitaria e spirituale che muove da interrogativi complessi e mai del tutto risolti. Per esplorarli ed esaminarli non basta indagare la biografia dell’autrice. Più interessante è forse vedere come tali interrogativi si intreccino con la scrittura. In particolare, nel momento in cui intraprende le pratiche per il battesimo, alla fine del 1938, Irène sta lavorando a un manoscritto da cui avranno origine due romanzi, Il signore delle anime (1939) e I cani e i lupi (1940), romanzi incentrati sul tema dello straniero (non sempre esplicitamente ebreo) e della sua impossibile assimilazione. I manoscritti di Irène hanno la caratteristica di mescolare forma diaristica e stesura degli abbozzi dei testi: questo li rende, a maggior ragione, una fonte preziosa nell’esplorare i moventi spirituali del battesimo e i loro riflessi nella scrittura.
I «Figli della notte»
Il manoscritto redatto nel 1938 e intitolato inizialmente Figli della notte o Il ciarlatano è disseminato di riflessioni metaletterarie ed esistenziali nelle quali emergono numerosi interrogativi religiosi e spirituali. Vi si rintraccia per esempio una visione di un Dio lontano dai destini umani, governati da un oscuro Fato, che si ritrova anche nei romanzi di Irène, quando si parla del Dio ebraico: l’uomo vive, afferma Irène, «secondo gli ordini di… non posso dire di Dio, so che non è vero, diciamo del cieco Fato al di sopra del quale, infine, regna Dio»3.
Nel romanzo del 1940, I cani e i lupi, Dio è visto come un’entità che interviene nella vita degli uomini, ma in maniera aleatoria, un Dio geloso e risentito, pronto a proteggere, ma anche a punire: «Dio non si distraeva mai, era instancabile e permaloso; bisognava averne timore e, pur rendendo grazie alla sua benignità, non lasciargli credere di aver esaudito tutti i voti della sua creatura, affinché non l’abbandonasse e continuasse a proteggerla»4. Il padre della protagonista Ada va in Sinagoga «come si va a far visita a un capitalista che potrebbe, se volesse, aiutarti negli affari o anche liberarti per sempre dalla miseria, ma che ha troppi protetti, troppi postulanti, che è decisamente troppo ricco, troppo grande, troppo potente per pensare a te, umile creatura terrena…»5. Nel romanzo, ambientato in una città in tutto e per tutto uguale alla natia Kiev, Némirovsky ritrae in modo molto realistico il quartiere ebraico e mostra di conoscerne cultura e tradizioni religiose: è quindi probabile che essa condividesse la visione di un Dio ebraico calcolatore e distante dal destino dei suoi fedeli.
«Il signore delle anime»
Al contrario, sia il manoscritto preparatorio sia il romanzo I signori delle anime, pubblicato nell’anno della conversione, fanno emergere una visione completamente diversa della Grazia divina, secondo il culto cattolico. Tutto il romanzo è costruito sull’opposizione tra i «figli della notte», quegli Enfants de la nuit che danno il titolo al manoscritto e che corrispondono ai personaggi stranieri e senza legami, come il protagonista Dario, e i «figli della luce»6, secondo un riferimento chiaramente evangelico, come emerge dalle bozze preparatorie: «La parola di Gesù: “Voi, siate dei figli della luce”»7. Tra questi figli della luce, illuminati dalla grazia, emerge in particolare il personaggio di Sylvie Wardes, non a caso quasi sempre vestita di bianco e avvolta da un’aura particolare che attrae il protagonista Dario. È come se la fede elevasse Sylvie al di sopra di Dario, a un livello irraggiungibile, a cui egli pur aspira, ma con un’ambizione invidiosa e senza speranza: «“Ah, la ammiro davvero” disse Dario in tono ironico. “Lei ha dentro di sé una legge non scritta, infallibile. Io non sono così”»8. In un passaggio del manoscritto preparatorio, Némirovsky manifesta lo stesso identico desiderio di rassomigliare a Sylvie, di raggiungere la sua serenità: «Se solo vedessi e conoscessi Sylvie… Lei è da un lato un sogno, dall’altro, certamente, ciò che… avrei voluto essere»9.
«Chi crede in Dio?»
La distanza incolmabile tra chi ha una legge morale da seguire e chi non la possiede è in effetti uno degli assi attorno a cui si struttura il romanzo, come testimonia sempre il manoscritto, dove Irène annota: «Alla fine resta solo questo che divide gli uomini. Credono in Dio?»10. Non si tratta di una divisione manichea tra il bene e il male, tra Sylvie e Dario, o tra i ricchi e i poveri. Il personaggio di Philippe Wardes, malgrado la sua ricchezza, è uno dei figli della notte e crede di avere trovato, nel ciarlatano Dario con la sua para-psicoanalisi, il suo Dio, il signore delle anime (da cui il titolo definitivo del romanzo): «Dario era stato l’unico a intuire il suo bisogno di dipendenza e umiltà, un bisogno connaturato all’uomo, ma che Wardes, non essendo credente, poteva soddisfare soltanto grazie a un aiuto umano; e a quel bisogno Dario aveva risposto offrendogli una parvenza di sicurezza, di pace, di assoluzione»11. Questo passo contiene parole chiave come sicurezza, pace e perdono, che hanno una forte implicazione religiosa e sembrano corrispondere alla ricerca di Némirovsky nel periodo della «conversione».
Grazie ai personaggi descritti, Irène mette in scena tutti i moventi e le sfaccettature di un desiderio di spiritualità sul quale lei stessa stava interrogandosi. L’autrice sembra essere consapevole anche degli aspetti meno nobili di tale desiderio, come mostra la preghiera ingenua che la moglie di Dario rivolge a Dio in punto di morte, nella speranza che il figlio Daniel, divenuto credente grazie all’influenza di Sylvie Wardes, perdoni il padre: «Dio mio, […] fa che suo figlio lo perdoni, come l’ho sempre perdonato io, […] come lo perdonerai tu, Dio mio!»12. La preghiera della madre è molto diversa da quella del figlio, che invoca più semplicemente il perdono di Dio: Némirovsky mette così in rilievo la differenza tra una preghiera goffa, nella quale uomini e Dio vengono messi sullo stesso piano e il perdono viene dato per scontato, con una preghiera dettata da una fede disinteressata.
Anche Ada, ne I cani e i lupi, rivolge più volte preghiere a Dio con uno scopo utilitaristico, cioè per ottenere l’amore di Harry, e compie il «sacrilegio »13 del segno della croce, visto fare alla sua governante, quasi come se solo l’imitazione dei gesti cristiani permettesse di ottenere l’ascolto divino.
Queste preghiere maldestre, fatte da personaggi di origine ebraica per ottenere che Dio intervenga nelle loro vite, fanno pensare a un’altra preghiera che si ritrova nel brogliaccio della terza parte di Suite francese, che doveva intitolarsi Captivité, prigionia. Il passaggio del manoscritto è citato nella biografia di Irène: «Per il campo di concentramento, la blasfemia degli ebrei battezzati: “Mio Dio, perdonaci le nostre offese come noi Ti perdoniamo” – Evidentemente, i martiri cristiani non avrebbero detto questo »14. Con questa annotazione, Némirovsky sembra prendere coscienza del rischio di sfiorare la blasfemia da parte di chi si è convertito in modo forse non del tutto sincero, magari per paura. Non è chiaro quanto Némirovsky si distanzi da queste forme di preghiera e di conversione, ma sicuramente questa annotazione, così come le numerose occorrenze di scene di preghiera nei testi di quegli anni, manifesta una riflessione profonda sulle tematiche della fede e della spiritualità e sugli eventuali moventi che spingono alla ricerca di un dialogo con Dio.
Rinascita & rinnovamento
Nei romanzi del 1939 e del 1940 emergono anche delle riflessioni sul rapporto con le nuove generazioni, che possono essere interpretate alla luce della «conversione». La nascita dei figli dei protagonisti porta con sé un’idea quasi messianica di rinascita e rinnovamento: essi non assomigliano a nessuno, come se ponessero fine alla maledizione dell’esclusione e dell’esilio che aveva invece afflitto le generazioni precedenti. Questo è particolarmente evidente nella natalità che chiude I cani e i lupi, nella quale vi è peraltro un esplicito riferimento mariano. Ada, durante il parto, si ricorda di un’icona vista nella camera della propria governante, la stessa di cui imitava le preghiere, e pensa a Maria come a un’altra giovane ebrea, in una sorta di sincretismo ebraico-cristiano: «Si ricordò all’improvviso di una vecchia icona nella camera di Nataša e chiese muto soccorso a quell’altra giovane ebrea che era fuggita di Paese in Paese, portando in grembo il suo prezioso fardello»15.
Lo stesso sincretismo potrebbe essere all’origine della visione messianica del nuovo nato: «Aveva dato vita al bimbo appena nato, ma lui la ricambiava con un bel regalo: condivideva con la madre un bene che era tutto suo, il dono del sonno, dell’ignoranza, forse anche dell’oblio. […] Per quanto Ada si sforzasse, non ravvisava nel figlio alcun tratto familiare »16. In un romanzo in cui tutti si rassomigliano e sembrano ripetere lo stesso identico destino di ebrei erranti, il figlio di Ada potrebbe mettere fine a una maledizione che li perseguita tutti, quella di un passato comune, di un passato di sofferenze. Tra i moventi della scelta del battesimo c’è forse non tanto la «conversione», il passaggio da una religione all’altra, quanto questa volontà di nascere a nuova vita, di farsi neonato, di azzerare la maledizione del passato. Questa idea di «maledizione» è del resto il nodo autobiografico che anima la scrittura dei due romanzi fin dalle prime bozze, come testimonia sempre il manoscritto: «Non si può descrivere che sé stessi, ahimè, sempre il proprio muso più o meno mascherato e la propria anima miserabile. Sì, quello che voglio fare è il ragazzo infelice, orgoglioso, “per cui la parola anima ha un senso”, ma che ha, terribilmente, i desideri e gli istinti dell’individuo felice! Insomma, quello che bisognerebbe fare qui è l’ebreo, l’ebreo che vorrebbe essere umile, buono, etc. e che una maledizione [parola scritta in russo], suppongo, spinge a cercare suo malgrado il successo, a voler vincere, etc. L’idea è lì, questo è sicuro»17. Némirovsky mostra in questo passo di aver modellato il tormentato personaggio di Dario sulla propria personalità, divisa tra un desiderio di pace interiore e la maledizione dell’orgoglio, caratteristica che attribuisce all’identità ebraica.
«Una sorta di pace»
In un’intervista del 1935, Irène rivendicava e sottolineava la positività di tale tratto di carattere: «Mi sembra […] di aver mostrato alcune qualità propriamente razziali: il coraggio, la tenacia, l’orgoglio – ma sì, nel suo senso più alto – in una parola, il “fegato”»18. Tuttavia, nel 1938, sembra cambiare idea, poiché annota tra virgolette un passo che sembra tratto da un pamphlet antisemita, ma che probabilmente attira la sua attenzione proprio perché sta riflettendo sugli aspetti negativi dell’orgoglio, che riflette una mancanza di umiltà: «La questione ebraica si riduce a questo: dove l’Occidentale dice: la legge, l’ebreo dice: il messia, cioè io stesso, perché il messia è ebreo. Ecco posto il principio dell’orgoglio, della collera, dell’eterna rivoluzione”»19.
Il manoscritto del 1938 è, ancora una volta, il luogo di una riflessione, spesso ambigua, sulle scelte che Irène sta per compiere. L’autrice sembra voler mettere da parte l’orgoglio, visto come una maledizione che la perseguita, e ricercare nel cristianesimo altri valori e sentimenti, come l’umiltà e soprattutto la pace interiore. Un passaggio è, in questo senso, particolarmente chiarificatore e non a caso l’autrice lo sottolinea con la matita rossa, dopo aver cerchiato, l’espressione «una sorta di pace»: «Se si potesse non desiderare, soprattutto non avere timore. No, non desiderare è impossibile, ma non avere timore e, allo stesso tempo, sorridere, rassegnarsi, dimenticarsi di sé, come sarebbe facile la vita! C’è una parola che non riesco a stancarmi di ripetere: “Non avere timore, Giairo, credi solamente…”»20. Il riferimento evangelico all’episodio della figlia di Giairo21 testimonia chiaramente una ricerca spirituale dell’autrice, che nel cristianesimo vede proprio la pace della fede, dell’affidarsi a Dio senza dover provare timore. Susan Suleiman, nel suo libro, interpreta questo passaggio leggendo «Zaïre» al posto di «Jaïre» e orientando quindi la sua analisi sul rapporto con l’opera di Voltaire. Tuttavia, analizzando il manoscritto con attenzione, si comprende come la citazione evangelica si inserisca in un tessuto di riflessioni che non riguardano solo la scrittura, ma anche la vita personale dell’autrice: non a caso il manoscritto viene definito «diario di lavoro».
Emerge così chiaramente il percorso che conduce Irène alla scelta del battesimo, le contraddizioni che la animano e che presta spesso ai propri personaggi, il rapporto complesso con la propria identità e le difficoltà legate al periodo storico affrontato. Si tratta di una scelta che discende dalla ricerca di una sofferta pace interiore: non si tratta di rinnegare le proprie origini, di rifiutare la propria identità e nemmeno di una scelta opportunistica legata a un tentativo di ottenere la cittadinanza francese. In modo meno lineare, sono gli stessi interrogativi identitari mai risolti, la stessa aspirazione contraddittoria a una assimilazione impossibile a condurre Irène al battesimo, come per trovarvi, anche solo per poco, un momento di serenità.
«I cani e i lupi»
Ne I Cani e i lupi, il cristianesimo si associa effettivamente a quella sensazione di pace alla quale l’autrice sembra aspirare. La religione cristiana è vista come un rifugio, un nascondiglio di fronte ai pericoli. In un passaggio presente nel manoscritto, ma omesso nella versione finale del testo, Ada e il cugino Ben, in fuga dal pogrom in corso nel quartiere ebraico, si rifugiano da una famiglia ortodossa: «La settimana presso la famiglia ortodossa che li aveva accolti fu per i bambini piena di felicità. […] Niente era più singolare e affascinante per dei bambini ebrei che quella calma, quei lunghi momenti di riposo […]. La benevolenza era davvero il tratto distintivo di quei russi di provincia. Erano in pace con Dio e gli uomini»22. Il cristianesimo si associa così, in contrasto netto con l’ebraismo, all’idea di pace, tranquillità, riposo, sicurezza.
Verso la fine del romanzo, Ada, prossima a lasciare per sempre la Francia, sembra voler entrare in una chiesa in cerca di conforto, ma non osa: «Guardava da lontano le chiese cattoliche e i fasci di ceri ardenti, visibili attraverso le porte che in quelle giornate particolarmente calde venivano lasciate aperte. Ma si fermava come davanti alla casa di Laurence: tutto questo apparteneva a un mondo differente, nel quale lei non poteva penetrare»23. La fede cattolica è qui associata all’identità francese, come qualcosa di irraggiungibile. L’autrice, al contrario della protagonista del suo romanzo, non sembra volersi rassegnare a essere esclusa da queste due ancore di salvezza, che sono sicuramente legate, ma non per questo sovrapponibili.
Sempre ne I cani e i lupi vi è la possibilità di riflettere sulla polisemia del termine battesimo, associandolo all’accento russo delle nonne di Harry, non cancellato, ma «in qualche modo battezzato» dopo i lunghi anni in Francia24. La parola battesimo, per una scrittrice, non può che associarsi alla lingua, quella lingua francese che lei stessa ha scelto come lingua di scrittura. Il battesimo è, in questo senso, il punto di arrivo di un percorso di rinnovamento della propria identità: autoriale e personale. Si tratta anche del termine ultimo di una serie di interrogativi di Irène sulle implicazioni della propria identità di ebrea e di straniera. Il cattolicesimo si configura come una difesa, più spirituale che pratica, di fronte a una crescente sensazione di pericolo e insicurezza. Tuttavia, l’incertezza, la divisione interiore rimangono al centro delle tematiche della narrativa némirovskiana che, non a caso, proprio nel momento della «conversione», interroga nella maniera più acuta e profonda il vissuto di personaggi stranieri ed ebrei e l’impossibilità, per loro, ma forse anche per l’autrice, di raggiungere stabilmente la pace cui aspirano.
1 Olivier Philipponnat, «Irène Némirovsky et le catholicisme: un “effort vers la pitié”?», in Irène Némirovsky, Approches, n. 180, novembre 2019, pp. 115-130.
2 Cfr in particolare Olivier Philipponnat, Patrick Lienhardt, La Vie d’Irène Némirovsky, Grasset-Denoël, Paris 2007, pp. 310 ssg e Susan Suleiman, The Némirovsky Question. The Life, Death, and Legacy of a Jewish Writer in 20thCentury France, Yale University Press, New Haven and London 2016, pp. 81-92.
3 Manoscritto conservato agli archivi IMEC sotto il codice ALM 2999.1, intitolato Enfants de la nuit (ou Le Charlatan), bozza e diario di scrittura, prima parte, nota dell’11 aprile 1938, nostra traduzione.
4 Irène Némirovsky, I cani e i lupi, Adelphi, Milano 2008, pp. 13-14.
5 Ivi, pp. 41-42.
6 Irène Némirovsky, Il signore delle anime, Adelphi, Milano
2011, p. 173.
7 IMEC ALM 2999.1, cit., cfr Gv12, 36, nostra traduzione.
8 Irène Némirovsky, Il signore delle anime, cit., p. 173.
9 IMEC ALM 2999.1, cit., nota del 19 luglio 1938, nostra traduzione.
10 IMEC ALM 2999.1, cit., nostra traduzione.
11 Irène Némirovsky, Il signore delle anime, cit., p. 194.
12 Ivi, p. 200.
13 Irène Némirovsky, I cani e i lupi, cit., p. 77.
14 Olivier Philipponnat, Patrick Lienhardt, La Vie d’Irène Némirovsky, cit., p. 411, nostra traduzione.
15 Irène Némirovsky, I cani e i lupi, cit., p. 232.
16 Ivi, p. 233.
17 Manoscritto conservato agli archivi IMEC sotto il codice ALM 2999.2, intitolato Enfants de la nuit (ou Le Charlatan), bozza e diario di scrittura, seconda parte, nostra traduzione.
18 Janine Auscher, «Nos interviews: Irène Némirovsky», L’Univers israélite, 5 luglio 1935, pp. 669-670, traduzione nostra.
19 IMEC ALM 2999.1, cit., nostra traduzione.
20 IMEC ALM 2999.1, cit., nota del 17 giugno 1938, nostra traduzione.
21 Cfr Mc 5,36 che viene citato direttamente da Némirovsky. L’episodio si ritrova anche in Lc 8, 40-56 e Mt 9, 18-26.
22 Olivier Philipponnat, «Irène Némirovsky et le catholicisme: un “effort vers la pitié?”», in Irène Némirovsky, Approches, n. 180, novembre 2019, pp. 115-130.
23 Irène Némirovsky, I cani e i lupi, cit., p. 215.
24 Ivi, p. 105, nostra traduzione. La traduttrice Marina di Leo traduce con «stemperato» il termine francese «baptisé».
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