Un romanzo onesto e potente presenta in Italia lo scrittore Manuel Vilas, giornalista e poeta spagnolo, già noto e riconosciuto in Spagna. Edito in Italia da Guanda con la traduzione di Bruno Arpaia, il romanzo di Manuel Vilas, il cui titolo originale è Ordesa, è stato eletto miglior libro del 2018 da El País e El Mundo.
In tutto c’è stata bellezza intreccia storia privata e pubblica, combina autobiografia e romanzo, tiene insieme verità e menzogna.
Con ricchezza di dettagli, racconta una vicenda di intimità, di abitudini affettive e, al tempo stesso, dipana la storia di una nazione, quella spagnola, accompagnandola attraverso il succedersi delle generazioni. Si giunge così alla costruzione di un’identità personale e sociale, che dà conto degli ultimi decenni della vita familiare dell’autore e della storia di Spagna, attraverso la testimonianza di consuetudini sociali, vicende politiche e pratiche religiose.
La storia familiare dell’autore si svolge in una sconosciuta cittadina al centro dell’Aragona, ai piedi dei Pirenei, Barbastro, e si inserisce, come in un mosaico, nello sfondo della storia spagnola, coprendo un arco temporale che, dagli anni ’70, giunge fino ai giorni nostri.
Manuel Vilas è stato capace di riportare nella forma del romanzo una vicenda di natura autobiografica, incentrata sui legami.
Il viaggio nel passato assume i contorni di una vera e propria riscoperta, un racconto capace di rivelare le verità più profonde dell’umana esistenza.
Le scelte semantiche e quelle compositive sono dominate da una costante volontà di sincerità: si costruisce, così, un racconto senza retorica, uno scavo disarmante nei suoi pensieri più intimi, dall’infanzia fino alla vita adulta.
In tutto c’è stata bellezza fa convivere un dolore straziante e una gioia che non conosce confini; il dolore della perdita da cui nasce la necessità della scrittura, ritenuta l’unica risposta possibile e, come contraltare, la gioia del ricordo e la potenza dell’amore che risultano eterne e indistruttibili.
La consapevolezza e la gioia, cui l’autore giunge al termine del suo viaggio attraverso i ricordi famigliari di un tempo passato, scaturiscono da uno sguardo retrospettivo che illumina tutto ciò che è stato narrato e lo mostra, con chiarezza, nella sua travolgente bellezza.
Osservando la potenza dell’amore familiare, riflettendo sul proprio ruolo di padre e sulla forza di questi legami, Manuel Vilas giunge alla verità di cui era alla ricerca fin dal principio.
L’autore è orfano, i genitori sono entrambi morti. Da queste morti, da questo dolore inarrestabile nasce l’esigenza della scrittura: dalla necessità che nulla vada perduto. Le strane paure della madre, i fallimenti economici del padre: tutto deve essere immortalato nero su bianco fra le pagine di un romanzo.
Nel racconto del figlio, i genitori sono contemporaneamente eroi d’infanzia e fantasmi, presenze immutabili ed eterne che vegliano sulla sua vita, indirizzandone i pensieri e le scelte.
Il ricordo li tiene in vita e li rende forti e potenti, come divinità.
È proprio nella potenza dei legami che lo ancorano a queste figure, a distanza di oltre dieci anni dalla morte del padre e di mesi dalla morte della madre, che l’autore riscopre la bellezza della propria vita e del mondo che lo circonda.
Il percorso compiuto insieme ai genitori condiziona l’intera personalità dell’autore e ne stabilisce, senza margine di discostamento, il ruolo che ha assunto nella vita adulta, come padre e come marito.
Alla morte si allude con costanza martellante: trattata come una presenza disturbante e non richiesta, accompagna ogni pagina del romanzo e innesca l’insaziabile esigenza del ricordo.
La morte pacifica l’uomo, lo avvicina alla rivelazione e lo ricongiunge con la semplicità dei suoi bisogni. Ma la morte svela anche l’unico tassello che non può mai mancare, l’unico che abbia davvero importanza: l’amore.
Fra i pochi espedienti narrativi presenti nel romanzo, Manuel Vilas sceglie, con ironia, di abbinare i protagonisti della sua infanzia a famosi musicisti: Wagner la madre, Bach il padre, Brahms e Vivaldi i figli, Monteverdi lo zio.
Un artificio retorico che assomiglia più a un gioco della memoria che a un virtuosismo di scrittura.
Fedele alla sincerità che contraddistingue la sua scrittura, nelle scelte compositive Manuel Vilas sceglie di non disporre in maniera ordinata i grandi episodi che hanno segnato le tappe socialmente rilevanti delle vite dei due protagonisti, ma presenta al lettore una successione disordinata di dettagli privati e di gesti quotidiani. Dietro i brevi aneddoti, i ricordi confusi e i racconti bizzarri, nasconde, con delicatezza, la vera essenza dei due individui celebrati nel romanzo.
Fra le pagine, con frequenza incerta, trovano posto vecchie fotografie in bianco e nero che ritraggono la bellezza sempreverde dei genitori di cui, da bambino, Manuel era così fiero. Nella scelta di appellarsi all’immagine si avverte la paura dell’autore, il timore che le parole non siano sufficienti a tener in vita quei due individui così importanti.
Il lettore non può fare a meno di sentirsi visceralmente coinvolto dalla narrazione, di rivolgere l’attenzione a se stesso e alla propria esistenza. Le parole suonano come un continuo invito all’introspezione, alla riflessione individuale.
Superata la morte e il dolore, forse proprio per merito di questi ultimi, l’autore e il lettore si ritrovano inaspettatamente a condividere un sorriso, proprio quando la bellezza, nascosta in ogni dettaglio, si lascia elegantemente intravedere.
Il potere del libro è catartico e purificatorio; se capitano momenti nei quali il dolore sembra senza consolazione, basta un piccolo particolare ad avvolgere tutto di una gioia elettrizzante.
L’autore viene a capo di un faticoso confronto con il passato, con la crescita e lo sviluppo dell’identità. In ogni particolare, in ogni costume familiare, in ogni parola taciuta, in ogni sentimento mai rivelato, Manuel Vilas riscopre la bellezza dell’esistenza che è fatta di minuzie di così grande importanza che non possono e non devono mai essere dimenticate.
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