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Un ritratto di Edith Stein

di Francesca Rigotti
Fonte: Doppiozero

«La vecchia cara Göttingen: io credo che solo chi ha frequentato l’università negli anni tra il 1905 e il 1914, il tempo della breve fioritura della scuola fenomenologica di Göttingen, può sapere che cosa questo nome significa per noi. Avevo 21 anni ed ero piena di speranze per ciò che mi aspettava. Il 27 aprile (1913) partii da Amburgo e Richard Courant mi venne a prendere alla stazione che era già sera». Così descriveva Edith Stein, filosofa fenomenologa, il suo arrivo da studentessa universitaria nella cittadina universitaria della Bassa Sassonia; «l’università e gli studenti erano il centro della vita della città: Göttingen era proprio una città universitaria, non una città che aveva anche un’università, come Breslau». È proprio così come scriveva Edith Stein, credetemi, io lo so.

«Se si scende dalla Lange Geismarstrasse e poi si gira a destra, si arriva subito alla piazza del Mercato, col bel municipio gotico. Davanti al municipio c’è il pozzo della Gänseliesel, la ragazza con le oche, di Schaper.

Non molto lontano da lì, la più vecchia casa di Göttingen, detta “die Mütze”, un’osteria con la facciata a intelaiature. Se dal mercato si va a nord, si va lungo la Weender Straße, dove al pomeriggio ha luogo il passeggio. Sulla destra si erge il simbolo di Göttingen, il campanile della chiesa di San Giacomo (Jacobikirche), che insieme alle due torri della chiesa di San Giovanni (Johanhniskirche), definisce l’immagine della città anche quando si viene da lontano. Dalla parte opposta della strada rispetto alla chiesa di San Giacomo si trova la famosa pasticceria di Kron und Lanz, dove ci sono le migliori torte, e dove i professori e gli studenti prendono il caffé il pomeriggio e leggono il giornale. L’ultima casa prima della Porta di Weende è l’Auditorio, il fulcro della vita universitaria. È un edificio modesto, un po’ rientrato dalla strada. A Göttingen piove molto».

Confermo ogni parola, io Göttingen la conosco bene. Ed è tutto uguale oggi, compresa la pioggia, la pasticceria, l’università e la stazione, e che nessuno le tocchi.

Edith Stein era nata a Breslau il 12 ottobre del 1891. Figlia di una famiglia ebrea praticante, iniziò una carriera scientifica nella scuola della fenomenologia di Max Scheler e Edmund Husserl. Dopo essersi convertita nel 1922 alla chiesa cattolica, entrò come suora di clausura nel Carmelo di Colonia nel 1934. Nel 1938, a causa delle persecuzioni contro gli ebrei, venne spostata in un convento in Olanda e da lì, nell’agosto del 1942, deportata ad Auschwitz, dove morì nelle camere a gas.

E Lella Costa, che è un’attrice – lei si definisce una soubrette – ma anche un’autrice, che cosa c’entra con Edith Stein? Le propongono di scriverne e Costa accetta la sfida, per poi venire completamente travolta dalla storia appassionante di questa straordinaria pensatrice. Nasce un libro (certe volte invece nascono bambini, è così): Lella Costa, Ciò che possiamo fare. La libertà di Edith Stein e lo spirito dell’Europa, Milano, Solferino, 2019, pp. 126.

Che cos’hanno in comune le due, oltre al segno zodiacale? La passione, l’intelligenza, l’impegno? Costa comunque ci prova a scriverne e il risultato non delude. Di sicuro né l’una né l’altra amano i lavori domestici, i mestieri. Preferiscono esercitare un mestiere.

A proposito di mestieri, quando Edith Stein, nel 1933, giunse come postulante nel Carmelo di Colonia, suscitò non poco stupore tra le consorelle per la mancanza di dote e l’età avanzata (42 anni), ma soprattutto per l’origine ebrea. Alcune chiedevano di lei: «Ma almeno è brava a cucire?».

No. Una volta aiutò le consorelle a ricamare un «Agnus dei», cioè un panno rappresentante l’agnello divino, ma i suoi punti erano troppo grossi e tutti storti, tant’è che chi ricevette l’incarico di aggiustarli riferì che avrebbe messo meno tempo a rifarli tutti (I due episodi sono narrati rispettivamente in Schwester Teresia Renata de Spiritu Sancto, Edith Stein. Schwester Teresia Benedicta a cruce Philosophin und Karmelitin. Ein Lebensbild, gowonnen aus Erinnerungen und Briefen, Freiburg-Basel-Wien, Herder, 1957, p. 113. e P. Fr. Romaeus Leuven o.c.d., Heil im Unheil. Das Leben Edith Steins. Reife und Vollendung, Druten, De Maas & Waler, 1983, p. 133). Dunque no, non era proprio brava a cucire, e nemmeno nei lavori domestici di qualunque genere, Edith Stein, come mette in rilievo Lella Costa, che ne traccia in questo libricino un profilo denso e compatto. Empatico, si potrebbe dire. Non a caso, dal momento che il capolavoro filosofico di Stein è proprio il saggio sull’empatia o EinfühlungIl problema dell’empatia, del 1917 (la sua tesi di dottorato).

Edith Stein si muoveva tra i luoghi dell’ebraismo – la casa di famiglia a Breslavia, dove la madre, donna intraprendente che aveva tirato su da vedova sette figli e l’impresa di famiglia, mai accettò l’abiura di Edith – e i luoghi del cristianesimo: Göttingen, la città dove frequentò l’università per seguire i corsi di Husserl, Speyer, la località dove si ritirò a insegnare dopo la conversione al cattolicesimo, Colonia, ove visse da monaca di clausura. Si è detto di lei che si è mossa tra due sponde di pensiero estreme: la fenomenologia e la mistica, in quello che è stato chiamato «il paradosso di Edith Stein: una vita che per metà è aurora, luce nascente, felicità, presenza, esercizio dei sensi, comprensione, e per l’altra metà notte e “croce”, dove in luogo della luminosa vita del filosofo c’è il mistero che crocifigge l’intelligenza, e dove in luogo dell’esercizio felice e disinteressato di tutti i sensi, e di tutte le facoltà cognitive, c’è l’ascesi». Roberta de Monticelli, autrice di queste righe (Roberta de Monticelli, Con occhi spalancati. Edith Stein: «Introduzione alla filosofia » e conoscenza personale, in Laura Boella, Roberta de Monticelli, Rosella Prezzo, Maria Concetta Sala, Filosofia, ritratti, corrispondenze. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, a cura di Francesca De Vecchi, Mantova, Tre Lune edizioni, 2001, p. 83), coglie il «paradosso di Edith Stein» in questo suo duplice volto, diurno – anzi aurorale – e notturno, nel suo passare, da «principessa dell’aurora filosofica» a «regina della notte oscura dei misteri», riprendendo un giudizio già formulato da Husserl, per il quale il pensiero di Stein oscillerebbe tra la chiarezza della scolastica e l’oscurità dello sguardo mistico introspettivo.

Mi son chiesta se Edith Stein si sarebbe riconosciuta in questa descrizione; mi è venuto da rispondere di no, che Edith Stein, da come parla di sé e della sua esperienza di pensiero e di vita, collocherebbe piuttosto la sua esperienza religiosa, nello splendore della luce spirituale della rivelazione che continuerà a brillare nella clausura; e metterebbe la vita di prima della conversione nella parte oscura: la vita adombrata del mondo prima di essere illuminata, secondo la sua esperienza, dalla luce della verità.

Nelle sue pagine autobiografiche Edith Stein ricorda il suono assordante delle campane di Göttingen; confermo anche questo e aggiungo che sono convinta che è lì a Göttingen che Stein si converte al cattolicesimo, attraverso due vie. Benché Göttingen fosse e sia una città protestante, aveva però una chiesa cattolica, la Michaelis Kirche, proprio all’angolo della strada che Edith Stein scendeva per andare a piedi da casa sua all’università. Può essere che i miti e i riti di cui la chiesa cattolica è maestra l’abbiano affascinata. Questa è la prima via. La seconda, più certa, è la via della fenomenologia, professata come credenza e quasi come fede proprio lì a Göttingen da alcuni discepoli di Husserl che erano anche credenti e che sembravano godere di un gradino in più di sapienza filosofica: quella che veniva loro dalla fede e dalla teologia.

E le posizioni sulla donna? È possibile definire femminista Edith Stein, che tanto scrisse e parlò alle donne in funzione di conferenziera-predicatrice? Se sì, era sicuramente una sostenitrice di quello che si sarebbe chiamato il pensiero della differenza, del quale attrae l’idea di un possibile settore di potenzialità, soffocato dalla prospettiva androcentrica assunta a canone interpretativo, ancor in gran parte da esplorare. Ora, se il rischio della prospettiva egualitarista è quello di soffocare dimensioni innegabilmente – in quanto fisiologicamente – legate alla donna, come in primis la capacità di procreare, la dimensione differenzialista corre un rischio assai più grave, almeno ai miei occhi, che è stato chiamato il rischio di essenzialismo. Essenzialismo vuol dire che si prendono i valori tradizionalmente associati alle donne – sentimento, emozioni, cura, attenzione al particolare, all’unico e al difforme, pensiero materno etc. – e se ne fa una sorta di «essenza femminile», la quale poi non viene svalutata ma anzi affermata positivamente.

Ecco, probabilmente si può dire che Edith Stein sia stata una pensatrice della differenza, ma anche una teorica dell’essenza femminile. È vero infatti che ebbe il coraggio di affermare, alla fine degli anni ’20 e agli inizi degli anni ’30 del 900, che «non esiste alcuna professione che non possa essere esercitata da una donna» (E. Stein, Das Ethos der Frauenberufe (1930), in Die Frau. Fragestellungen und Reflexionen, a cura di Sophie Binggeli e Maria Amata Neyer OCD, Freiburg-Basel-Wien, Herder, 2000, p. 22). Però, aggiunge Edith Stein, in quanto donna. Donne e uomini hanno infatti tratti caratteristici diversi che sono tali per natura (die von Natur aus sind). E qui non posso che pensare alle parole che un filosofo come Rousseau usa, con la delicatezza di macigni, per ribadire i diversi ruoli destinati per natura a maschi e femmine, in maniera ben più implacabile di Stein: per natura, scrive infatti il ginevrino nell’Emilio (17), l’uomo è attivo e la femmina è passiva, fatta per cedere all’uomo, e per sopportarne persino l’ingiustizia; è la natura che vuole che le donne vadano educate «in funzione degli uomini», per «piacere e rendersi utili a loro». Per natura, continua Rousseau, le donne, incapaci di giudicare da sé, devono «accettare la decisione dei padri e dei mariti». Come dichiara oggi la sottomessa sposa del filosofo Diego Fusaro. Diego studia Hegel e io gli stiro le camicie, l’ho letto da qualche parte e mi si è accapponata la pelle.

Si capisce forse allora perché quando sento parlare di differenze «per natura» mi viene un moto di repulsione, foss’anche a dirle un’anima santa come quella di Edith Stein. La cui concezione antropologica è tutta basata su quella doppia specie di uomo e donna per la quale la parola decisiva è data dalla Sacra Scritura: presenza di una coppia nella creazione (marito e moglie), presenza di una coppia nella redenzione (madre e figlio), che rimandano entrambe all’eterna divisione e complementarietà dei sessi. Non è solo il corpo a essere diversamente costruito, continua implacabile Edith Stein, è anche l’anima ed è anche il rapporto tra corpo e anima, che è diverso, come è diverso il rapporto tra spirito e senso. Qual è dunque «lo scopo specifico della natura femminile»? Risposta: «das Gemüt, die Liebe». L’accoglienza, l’amore. E via quindi con affermazioni di questo genere: «La natura della donna si basa sulla sua destinazione originaria: essere moglie e madre», essere compagna dell’uomo «in amorosa compartecipazione della sua vita, fedeltà e predisposizione al servizio». E via di nuovo con proposte di mestieri femminili per natura, tali da permettere persino alle donne non sposate di esplicare la loro essenza di mogli e madri: i mestieri di educazione e di assistenza. Corpo e spirito dell’uomo sono attrezzati per la lotta e la conquista, corpo e spirito della donna per «curare, proteggere, preservare». E questo detto da Stein che avva cervello da vendere anche se Husserl la usava per farle fare le fotocopie dei suoi scritti (lo so che le fotocopiatrici non esistevano ancora, era per capirci).

Ha senso definire Edith Stein femminista, si chiede Lella Costa, perplessa? E scioglie la contraddizione affermandola: Edith Stein è moderna nel suo negarsi, nell’individuare una condizione e seguirne un’altra; nella sua scelta di libertà, di solitudine, di anticonformismo, di senso del bene comune, conclude Costa, nel consegnarci la piccola preziosa storia di una filosofa ebrea convertita al cattolicesimo e morta a Auschwitz, che fece quel che sapeva fare con quello che poteva fare.

Fonte: Doppiozero
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