Siamo assediati da consigli e giudizi di amici su qualunque prodotto culturale, mentre la critica professionistica agonizza. Possiamo dirle addio?
Chi ha bisogno della critica oggi? Di quella professionistica intendo. Siamo assediati da consigli, suggerimenti, giudizi di amici e di amici tra virgolette, tipo quelli di Facebook. Che sia su film, dischi, amanti, ormai nessuno – a meno che non sia, beato lui, privo di connessione a Internet – si basa più su una recensione scritta da un critico professionista. Forse perché la recensione la sta già scrivendo lui: chiunque abbia un account di Tripadvisor, o Amazon, iTunes, Netflix è chiamato, in qualche momento della sua vita di consumatore, a improvvisarsi esperto di qualcosa che ignora (e che, sperabilmente, ha provato: ma non sempre. Ho scoperto che è in corso un acceso dibattito sulla pagina di Amazon del blu ray del Risveglio della forza, un prodotto che uscirà soltanto il 13 aprile ma che possiede già cinquanta recensioni degli utenti, molte delle quali sono di protesta contro le altre recensioni…). Che poi tutte queste “stelline” vadano a nutrire il mostro dell’algoritmo è un altro discorso. Quello che mi colpisce, invece, è come si sia tutti chiamati a fare i critici: quasi che per avere diritto di cittadinanza nel presente si debba essere anche dei raffinati ermeneuti. La città dell’interpretazione non dorme mai. Il consumatore perfetto non è quello superficiale e facilone – come la nostra Kulturkritik anni Sessanta e Settanta continuava a ripetere – ma quello sinceramente appassionato, l’esperto. Il nerd. In un certo senso, allora, stiamo vivendo l’epoca d’oro della critica. Il sogno di tante matricole di Lettere – essere chiamati a esprimere un giudizio estetico – si sta avverando per tutti.
Ma se tra questi “tutti” c’è anche Nick Fury, il capo degli Avengers, allora possono arrivare i guai. In una recensione del maggio del 2012, A.O. Scott, il critico cinematografico del New York Times, aveva osato, beh, criticare il primo film degli Avengers. Una critica neanche tanto severa, alla fine: si limitava a dire che il film era una commedia brillante, piena di dialoghi intelligenti e veloci, incassata dentro un enorme bancomat di effetti speciali a esclusivo beneficio della Marvel e del suo nuovo padrone, la Disney. A stretto giro di Twitter gli risponde Samuel L. Jackson, che nel film interpreta Nick Fury appunto, esortando tutti gli #Avengers fans a «trovare un nuovo lavoro per A.O. Scott. Un lavoro che sappia DAVVERO fare». Quello che successe dopo è prevedibile e lo racconta lo stesso Scott in Better Living Through Criticism, da poco uscito negli Stati Uniti: migliaia di tweet, da chi gli elencava i lavori che poteva fare a chi ne chiedeva il licenziamento in tronco. «I tweet più coerenti contenevano il tradizionale, potremmo dire canonico, argomento anti-critica: che ero incapace di provare gioia; che volevo rovinare il divertimento del mio prossimo; che ero un hater, un pedante, uno snob; e anche – questa era una novità – che ero il bambino secchione che a scuola picchiavano perché non leggevo fumetti (ai miei tempi succedeva il contrario: erano i lettori di fumetti a essere bullizzati: evidentemente le cose devono andare diversamente oggi che i supereroi e le legioni di loro fanboy hanno preso il controllo di tutto)».
Il sogno di tante matricole di Lettere – essere chiamati a esprimere un giudizio estetico – si sta avverando per tutti.
La verità, ovviamente, è che siamo ben lontani dal vivere un’epoca d’oro della critica. Scrive Martin Amis raccontando i suoi primi passi nel mondo letterario – almeno quelli fuori dalla famiglia… – quando, poco più che ventenne, lavorava nella redazione del Times Literary Supplement: «La mia vita privata era alquanto bohémien, hippy ed edonistica. Diciamo pure tranquillamente debosciata. Ma in fatto di critica letteraria avevo principî morali ferrei. Non facevo che leggere libri di critica: mi portavo dietro i miei Edmund Wilson e William Empson praticamente ovunque: nella vasca da bagno, in metropolitana. Prendevo questa faccenda molto sul serio».
Erano i primi anni Settanta. Nonostante io abbia scontato i miei vent’anni in un’epoca ben diversa da quella di Amis, i Novanta in Italia, non posso non sentire un senso di… credo che il termine sia fratellanza: non posso cioè negare che qualcosa delle parole di Amis risuona in profondità dentro di me. Forse la memoria di un’età in cui potevi snocciolare la formazione Bachtin, Sklovskij, Lukács, Benjamin, Adorno, Barthes, Foucault, Derrida, de Man, Girard con la stessa, se non maggiore, sicurezza con cui altri salmodiavano quella dell’Inter, e passare infinite serate e altrettanti giri di Negroni a prendersela – ancora! – con il povero Sainte-Beuve o a dividersi sul maggiore o minore storicismo di certe tendenze del post-strutturalismo. Per poi riprendere la mattina dopo facendo colazione con gli occhiali da sole davanti alla facoltà.
Ecco, devo confessare una cosa strana che mi sta succedendo in questi giorni. È senz’altro una reazione individuale, idiosincratica, allo scorrere del tempo, non pretendo che sia sintomatica di qualche più universale destino oltre al mio. Ma mi accorgo che si vive bene anche senza critica. Come in quei matrimoni celebrati troppo giovani e che verso i quaranta iniziano a cedere trincee alla routine, a capitolare alla goccia cinese dell’abitudine. Non ci parliamo più molto io e la critica, e forse io sto iniziando a vedere qualcun’altra. Certo, sono stati anni belli, quelli passati insieme. Scott ha senz’altro ragione in questo: se ho vissuto meglio è stato davvero grazie alla critica. «Devi cambiare la tua vita», scrive Rilke in una delle Nuove poesie di fronte a un torso di Apollo. Ma se questo fa la letteratura, ci rende liberi di cambiare la nostra vita, è la critica, scrive Scott, che ci aiuta a capire cosa fare di questa libertà. Possibile che adesso mi senta in dovere di sbarazzarmi di questo straordinario strumento per stare al mondo?
Qualche anno fa ero a Parigi in vacanza e ho visitato una mostra di Ron Mueck. Le sue sculture – enormi rappresentazioni iperrealistiche di una persona, un volto – sono impressionanti perché la dimensione su cui lavora, quella che davvero amplifica, è il tempo: allargando il dettaglio, l’oggetto, di fatto ti obbliga a guardarlo più lentamente, a soffermarti su particolari altrimenti invisibili. Vedi i singoli peli che compongono le ciglia, la tessitura della pelle, i pori che si aprono in pozzi così grandi che potresti infilarci un dito. Ripensavo a quelle sculture leggendo il nuovo libro di James Wood, La cosa più vicina alla vita (Mondadori, traduzione di Manuela Faimali).
Per Wood la letteratura è questa osservazione scrupolosa, un’amorevole, tragica passione per il dettaglio che ci permette di uscire dai corridoi dell’abitudine e di venire a patti con la morte, quella «morte lenta che impartiamo al mondo mettendo a riposo la nostra attenzione. Quando per una tendenza al sovraccarico o per pigrizia, per mancanza di curiosità o per misera fretta, smettiamo di osservare». Ed è quello che dovrebbe fare anche la critica, osservando l’osservazione per così dire, con la stessa attenzione, la medesima vitale concentrazione.
Il paragone con il mainstream critico nostrano è sconfortante. Qualche mese fa avevo letto sulla Lettura un lungo ma non chiarissimo articolo che se la prendeva con la critica degli scrittori. Mi torna in mente mentre leggo Wood che scrive: «Valutare, oltre a essere naturale e istintivo, è ciò che fanno gli scrittori al massimo livello. La cosa più importante per gli scrittori, la prima domanda che si pongono in merito a un’opera letteraria – è buona? – fino a venti o trent’anni fa era per lo più irrilevante per i docenti universitari. Gli scrittori nutrono un interesse innato verso quello che si potrebbe definire successo estetico: se si vuole creare qualcosa di successo bisogna conoscere le creazioni altrui di maggiore o minore successo». Quand’è l’ultima volta che ho letto un articolo, una recensione, di un critico italiano che lasciasse trasparire la stessa urgenza, la stessa necessità di cui parla Wood?
Forse il mio problema non è con la critica, ma con i critici. È a loro, non alla critica, che dico addio. Lo capisco meglio proseguendo la lettura di Wood (tra l’altro: un libro molto bello), quando propone una specie di definizione operativa di critica: «Usare tutto quello che si può usare». Sono questi tipi di scrittura, gli autori e le autrici che usano tutto quello che si può usare, quelli che mi interessa leggere: in cui non c’è l’esclusività di un metodo, ma lo sguardo sul mondo si rifrange attraverso i cristalli di diversi stili, atteggiamenti, teorie, e che sanno ricorrere alla narrativa se è il caso, all’esperienza personale, a altri libri, altri autori, non necessariamente letterari. Scritture che non sai mai definire bene perché sono allo stesso tempo una cosa e un’altra opposta, a seconda della prospettiva da cui si guarda, contemporaneamente. Narrativa, saggistica, memoir, riflessione, racconto di viaggio, nature writing. Critica e invenzione. Il termine saggio, in italiano, ha una tradizione e un’abitudine d’uso che lo rende poco adatto per identificare queste scritture. A chiamarle essays si peccherebbe di esterofilia. Ma trovare il nome giusto, per quanto mi riguarda, è il programma più eccitante tra quelli che ci aspettano oggi.
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