Disorientale (Négar Djavadi, edizioni e/o 2017)
Un consiglio di lettura al giorno dalla nostra rubrica "Affinità elettive"
«A Parigi mio padre, Darius Sadr, non prendeva mai la scala mobile. La prima volta che sono scesa con lui nella metropolitana, il 21 aprile 1981, gliene ho chiesto il motivo e mi ha risposto: «La scala mobile è per loro». Con “loro” intendeva evidentemente voi che in quel martedì mattina di aprile andavate al lavoro, voi cittadini di questo paese le cui tasse, i prelievi obbligatori e le imposte sugli immobili, ma anche l’istruzione, l’intransigenza, il senso critico, lo spirito di solidarietà, la fierezza, la cultura, il patriottismo, l’attaccamento alla Repubblica e la democrazia, avevano portato nei secoli a realizzare scale meccaniche installate vari metri sotto il livello del suolo. A dieci anni non ero consapevole di tutte queste nozioni, ma lo sguardo disarmato che era venuto a mio padre durante i mesi passati da solo in questa città, e che ancora non gli conoscevo, mi scosse talmente che ancora oggi penso a lui ogni volta che mi trovo davanti a una scala mobile. Sento il rumore dei suoi passi che salgono i gradini della scala normale. Vedo il suo corpo leggermente curvo in avanti per lo sforzo, ostinato, volitivo, determinato nel rifiuto di approfittare dell’effimera comodità dell’ascensione meccanica. Nella logica di Darius Sadr quel tipo di lussi andava meritato, altrimenti era un abuso, per non dire un furto. Il suo destino era scritto ormai nelle scale di questo mondo, nel tempo che scorre senza sorprese, nello sguardo indifferente dei passanti. Per capire la complessità del suo ragionamento bisogna entrare nella testa di mio padre, ma mio padre di quel tempo, Darius il Tumultuoso, Darius il Disincantato. Bisogna capire il percorso tortuoso e magistralmente assurdo del suo pensiero, e vedere sotto lo strato di sofferenza, oltre l’asprezza dell’insuccesso, le distese di delicatezza, eleganza, rispetto e ammirazione. Bisogna apprezzare la coerenza della sua decisione (non prendere la scala mobile) e l’abilità con cui, proprio lui che aveva passato la maggior parte della vita chino su una risma di carta, aveva concentrato in poche parole tutto ciò che era diventato e tutto ciò che voi rappresentavate. Ma, come sapete meglio di me, per pensare di entrare nella testa di un uomo bisogna innanzitutto conoscerlo, digerire le sue vite, le sue lotte, i suoi fantasmi, e credetemi, se comincio subito col giocarmi la carta “padre” non riuscirò più a raccontarvi quel che mi accingo a raccontarvi.»
In esilio a Parigi dall’età di dieci anni, Kimiâ, nata a Teheran, ha sempre cercato di tenere a distanza il suo paese, la sua cultura, la sua famiglia. Ma i jinn, i genii usciti dalla lampada (in questo caso il passato), la riacciuffano per far sfilare una strabiliante serie d’immagini di tre generazioni della sua storia familiare: le tribolazioni degli antenati, un decennio di rivoluzione politica, il passaggio burrascoso dell’adolescenza, la frenesia del rock, il sorriso malandrino di una bassista bionda…
Al suo romanzo d’esordio, Négar Djavadi dipinge un affresco fiammeggiante sulla memoria e l’identità; un romanzo sull’Iran di ieri e sull’Europa di oggi.